Comunemente si associa la libertà all’agire senza dover considerare le opinioni altrui, allo scegliere autonomamente e indipendentemente da ciò che ci circonda, al vivere senza che vi siano costrizioni od obblighi. Una concezione dovuta ad una riflessione poco approfondita, superficiale o addirittura inesistente.
di Benedetta Carlon
Libertà. È questo uno degli argomenti più affrontati e dibattuti in campo filosofico nel corso di tutte le epoche storiche, un concetto spesso dato per scontato, tanto declamato quanto poco compreso, tanto sfruttato quanto letto superficialmente.
Cosa indica il termine libertà? Cosa significa e in cosa consiste l’essere liberi? Quali sono le condizioni che permettono la realizzazione di tali espressioni?
Ebbene, tra le risposte che si riceverebbero da una folla al porle queste domande, in maggioranza si annovererebbero certamente: «Essere liberi consiste nel poter scegliere come si vuole senza essere influenzati o costretti», oppure «La libertà consiste nel poter seguire la propria volontà».
Comunemente, dunque, si associa la libertà all’agire senza dover considerare le opinioni altrui, allo scegliere autonomamente e indipendentemente da ciò che ci circonda, al vivere senza che vi siano costrizioni od obblighi.
Se si analizzassero dettagliatamente tali pensieri e considerazioni, si realizzerebbe, però, come essi presentino varie imprecisioni ed errori, dovuti a una riflessione poco approfondita o addirittura inesistente.
In primo luogo, come si può non essere mai influenzati da ciò che ci circonda, che siano persone, oggetti o idee? È possibile che qualcosa – in questo caso almeno una parte dell’esistenza umana – si sviluppi in modo autonomo, senza dipendere o essere collegato a null’altro?
La risposta è no. Non è possibile pensare a qualcosa dopo aver eliminato tutto ciò con cui veniva in contatto. Nel momento in cui la isoliamo e la consideriamo a sé stante, eliminati cioè tutti gli altri elementi, quella cosa perde le sue caratteristiche e, dunque, la sua essenza. La sua stessa esistenza viene in questo modo annientata.
Ciò poiché ogni aspetto dell’esistenza particolare è legato indissolubilmente all’esistenza universale: come la parte è costituita e definita dall’insieme delle relazioni che intercorrono tra essa stessa e il Tutto, così il Tutto è costituito dall’insieme delle varie parti, ovvero dalla somma di tutte le relazioni che intercorrono tra tutte le parti.
Quindi, se si isolasse una parte dal Tutto, non esisterebbero più né quella parte né il Tutto in cui era precedentemente collocata.
Di conseguenza non esiste alcun aspetto della nostra esistenza che non dipenda dalle situazioni che abbiamo vissuto e anche da quanto avvenuto precedentemente alla nostra nascita.
Anche il pensiero, che generalmente appare dipendere esclusivamente dalla “persona in cui si sviluppa”, ha quindi una natura non individuale-autonoma: il modo in cui esso si formula è definito non soltanto da quanto è stato vissuto in prima persona dall’individuo, ma anche da tutto ciò – avvenimenti dei secoli precedenti, rivoluzioni, innovazioni, ecc. – che ha portato l’individuo a vivere determinate esperienze in precise circostanze.
Si può in tal senso dire che si è sempre “costretti” ad agire in un determinato modo piuttosto che in un altro, e che anzi tale “costrizione” è parte integrante della nostra stessa esistenza e natura.
In secondo luogo, davvero si è liberi seguendo la propria volontà? È possibile seguirla senza procurare mai danno/violenza agli altri o a noi stessi?
Per rispondere a queste domande è necessario innanzitutto comprendere il concetto di volontà.
Ogni persona, nel momento in cui sceglie di compiere una determinata azione, crede di star realizzando la cosa migliore in quella situazione e, quindi, la concepisce quale Bene.
La volontà di ognuno è infatti indirizzata a realizzare il proprio Bene: è impossibile che un individuo compia una determinata azione essendo al contempo conscio o convinto che essa porterà al proprio Male.
Non sempre, però, ciò che ci appare essere un Bene nel momento in cui agiamo ci appare tale anche in seguito: può capitare, infatti, che una persona consideri una data scelta migliore di un’altra e che successivamente si accorga che sarebbe stato preferibile agire diversamente. La tal persona avrebbe quindi compiuto un’azione che poi gli è apparsa essere un Male; ciò, però, non è accaduto per sua volontà, ma a causa di difetti di conoscenza; «L’ignoranza è l’origine di tutti i mali» (Socrate).
Finora, in questa riflessione, si è considerato il ”singolo individuo” e la sua “volontà” particolare.
Come abbiamo detto, è però impossibile separare la parte dal Tutto.
È quindi necessario, per rendere la considerazione completa e corretta, riferirsi all’individuo nella totalità, considerato assieme (non si potrebbe altrimenti) al suo contesto e alle relazioni che intrattiene con la società.
Dai concetti di “Bene e Male propri” si passa così ai concetti di Bene e Male comuni, riguardanti il soggetto analizzato e tutto ciò che lo circonda.
Dunque, riformulando la precedente definizione di volontà:
Essendo la parte inseparabile dal Tutto, la volontà di ognuno è indirizzata a realizzare il Bene comune: è impossibile che un individuo compia una determinata azione essendo al contempo conscio o convinto che essa porterà al Male comune.
Se l’individuo ha compiuto un’azione che poi gli appare essere un Male, ciò è stato causato da difetti di conoscenza.
La volontà della parte coincide dunque con quella della totalità, ovvero la volontà particolare corrisponde a quella generale.
Tale affermazione può richiamare alla mente un celebre passo del Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778):
« In effetti ogni individuo può, in quanto uomo, avere una volontà particolare contraria o diversa dalla volontà generale che ha come cittadino. Il suo interesse particolare può parlargli in modo del tutto diverso dall’interesse comune. » (J.-J.Rousseau, Contratto sociale, I, 7)
Questo (così parziale) punto di vista si riscontra esplicitato, nelle variazioni tra uomo naturale e cittadino, in altri brani del filosofo francese:
« L’uomo naturale è un tutto per sé: è l’unità numerica, l’intero assoluto che non ha rapporti che con se stesso o con il suo simile. L’uomo civile non è che un’unità frazionaria che dipende dal denominatore, e il cui valore è nel rapporto con l’intero, che è il corpo sociale. Le buone istituzioni sociali sono quelle che sanno meglio snaturare l’uomo, privarlo della sua esistenza assoluta per dargliene una relativa e trasferire l’io nell’unità comune; in modo che ogni individuo non si consideri più come uno ma parte dell’unità, e non sia sensibile se non nel tutto. » (J.-J. Rousseau, Emilio)
Secondo la posizione di Rousseau, dunque, l’uomo “singolo-individuale” può desiderare qualcosa che non avvantaggia la comunità e solo l’arrendersi a essa e diventarne parte può fargli cambiare opinione.
Questa visione, però, non comprende né spiega in alcuna maniera come il passare dall’interesse proprio-singolo a quello comune-collettivo sia un miglioramento “da ogni punto di vista”, ma lo propone solo come una possibile scelta, richiesta e obbligata per il cittadino.
Rousseau non mostra ancora di aver capito l’esistenza di un Unico Bene a cui tutti gli uomini debbano tendere. Rimane infatti limitato dal suo perdersi nel definire il “vantaggio”, il “desiderio”, dell’uomo singolo.
Desiderio che, fuggevole e volubile, farebbe cambiare l’ordine delle priorità e dei valori, ogniqualvolta l’individuo si ritrovi ad appartenere ad avvicendevoli gruppi (tutti “solo parti” del Tutto).
A questo punto, compreso il concetto di Volontà, è possibile rispondere alle due domande lasciate in sospeso: davvero si è liberi seguendo la “propria” volontà? È possibile seguirla senza procurare mai danno/violenza agli altri o a noi stessi?
Dall’ultima definizione che ne è stata data, la volontà non può essere considerata causa di danni/violenze agli altri o a noi stessi.
L’origine di tali mali è da individuarsi, infatti, nei nostri difetti di conoscenza e nella conseguente cecità che ci induce ad errare, a vedere cioè come migliore ciò che è peggiore (o viceversa) e a non attribuire più valore a ciò che ha più valore.
Quindi, anche se la volontà non contiene in sé tali conseguenze negative, seguendola non si ha la certezza di star compiendo il Bene e, dunque, non ci si può considerare completamente liberi.
Ciò che ci permette di sentirci liberi è individuabile nella consapevolezza (maggiore o minore) di ciò che è meglio fare in una determinata situazione e delle conseguenze che si verificheranno.
Tale consapevolezza deriva dalla conoscenza, la quale deve continuamente essere ricercata pur sapendo che non si riuscirà mai a comprendere tutto quanto ci circonda – essendo infinite le relazioni costituenti il Tutto.
Quanto più solide sono le fondamenta su cui innalzare il proprio giudizio e le proprie decisioni, tanto più si è liberi:
« perché io sia libero, non è necessario che propenda parimenti tanto da una parte quanto da quella contraria; ma, anzi, quanto più propendo per una parte – o perché vi riconosco con chiarezza verità e bontà, o perché così Dio dispone intimamente il mio animo – è tanto più liberamente che la scelgo, ché né la Grazia divina né la conoscenza naturale diminuiscono mai la libertà, bensì la aumentano e rafforzano; e invece quell’indifferenza che provo quando nessuna ragione mi spinge da una parte più che dall’altra è piuttosto il grado infimo della libertà, non attestando affatto una perfezione della libertà, ma solo un difetto (nel senso di una “negazione”) nella conoscenza. » (R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, IV, 67)
17 gennaio 2020
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