Un volume di recente pubblicazione raccoglie tutti gli scritti della filosofa politica femminista Maria Luisa Boccia, in una parabola che va dagli inizi del millennio a oggi.
Le parole e i corpi è una raccolta di scritti molto generosa. Coprono un arco temporale di circa un ventennio (dal 2000 al 2018) e sono un documento molto originale della biografia dell’autrice, filosofa politica e femminista. Esponente di primo piano del PCI, protagonista della filosofia della differenza che ha visto in Italia e in Francia gli sviluppi più originali. Con i saggi che costituiscono il volume ho affrontato letteralmente un “corpo a corpo”, tale è la vastità e la complessità dei temi affrontati. Maria Luisa Boccia fa i conti con Marx e con la sua “rivoluzione”, di cui sottolinea il valore simbolico, oltre il valore dogmatico che ha appesantito e travisato il suo lascito. Il discorso teorico ha riferimenti forti in Simone Weil e Hanna Arendt, Carla Lonzi, prima fra tutte, e Simone De Beauvoir, ma non trascura il dialogo con vecchi dirigenti del PCI, come Mario Tronti e Pietro Ingrao, con cui intercorrono relazioni politiche e personali molto strette.
Come affrontare dunque un libro così complesso? Sono partita dal sesto dei testi, che costituiscono la prima parte: Osa sapere. Un imperativo ancora attuale e che più sento vicina alla mia esperienza e a quella dell’autrice che, in una serie di seminari organizzati a partire dal volume alla Casa Internazionale delle donne di Roma, tiene a sottolineare quanto sia importante “pensare a partire da sé”, farsi autore/autrice del proprio pensiero. Un invito alle donne a praticare l’autonomia, poiché non è più sufficiente aver superato, almeno sul piano formale, lo status di minorità (ancora ritenuto valido da Kant). Le donne esercitano diritti, lavorano, studiano, votano, governano, almeno in Occidente, ma questo non deve farci credere che la posizione femminile sia mutata. Detto altrimenti, nel presente, il problema è il paradosso della cittadinanza compiuta, non il contrario. E però. “Osa sapere” non è un imperativo superato anche per molte donne che hanno accesso all'istruzione. O per quelle che praticano professioni culturali. Maria Luisa Boccia riprende Simone Weil, la quale, in Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, scrive:
« La gran parte degli uomini e delle donne non sono in condizione di pensare, quindi non sono liberi/e. Libero è colui/colei che diviene autore e non solo agente, del suo fare e pensare. La libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e l’azione, ma da un rapporto tra desiderio e azione. »
La condizione di non pensare è quella che mette in ginocchio nei confronti dell’Autorità. Riguarda tutti noi, uomini e donne, cittadini emancipati delle società moderne. Non c’è infatti, sottolinea Boccia, un rapporto lineare tra libertà e progresso civile, sociale e politico. Se riteniamo con Weil (e Kant) che oppressione è non pensare, questo è per le donne tutt’altro che cancellato. L’invito “osa sapere” è rivolto anche agli uomini, a partire dalla loro sessualità: dovrebbero essere sempre più gli uomini che pensano alla differenza maschile. Dove iniziare? La scuola è il luogo politico dove si dovrebbe imparare a pensare e non solo a conoscere. La scuola non è un’impresa, né una banca, né il governo, ma il luogo per eccellenza da privilegiare e incoraggiare per creare uomini e donne in grado di sviluppare il pensiero. E deve essere una scuola rigorosamente pubblica. Per questo è necessario reinventare il linguaggio. Pensare non è un’attività spontanea, ma un apprendimento. I/le bambini/e non hanno strutturato il linguaggio, non sono ancora padroni dei nomi per le cose e non orientano l’esperienza a partire da significati codificati. Gli/le adulti/e, viceversa, per pensare devono rimettere in gioco il linguaggio, le certezze sui significati, le convinzioni più radicate. Insomma, devono fare atto di “incredulità” nei confronti del sapere. Quando questo avviene vi è libertà di uomini e donne.
L’autonomia di pensiero delle donne parte da questa libertà, e si scontra con l’idea di emancipazione. Vogliamo partecipare così, dice Boccia, a un mondo con le sue cerimonie, le sue istituzioni, le sue regole, i suoi scopi, più o meno giusti, più o meno buoni, o vogliamo continuare a “inquietarci”, a richiedere una nostra significazione, altra da quella tradizionalmente ricevuta? In questo caso gli strumenti della parità non servono, anzi, possono essere effetti controproducenti. Il desiderio di esserci “alla pari” può avere effetti di moderazione. Può spingere donne di valore, ricche di competenze e capacità, a porsi con zelo al servizio dell’ordine costituito. Qui, Maria Luisa Boccia, si sofferma sui casi più eclatanti di donne al potere: Margaret Thatcher, Golda Meir, Indira Gandhi, Angela Merkel, Theresa May, Christine Lagarde, Hillary Clinton e le altre che hanno infranto il “tetto di cristallo”. Ma è proprio il momento in cui il traguardo si avvicina, le politiche di parità mostrano tutta la loro insufficienza. Il nostro, dice l’autrice, è il tempo di approfittare della differenza, del pensiero incarnato, di dire la nostra verità, di prendere parte nella nostra parzialità alle vicende dello Spirito, per dirla con Hegel. La domanda ancora oggi attuale è quanto le donne, soprattutto le giovani, abbiano da dire sui temi che chiamiamo “generali”, che in realtà riguardano uomini e donne, quali l’economia, la cultura, l’istruzione, l’ambiente, la sanità, e su quelli che più investono direttamente le nostre vite e i nostri corpi: la scissione tra corpo e linguaggio, la sessualità, il nascere, il morire, i corpi mutanti nello scenario tecnologico, il corpo e la legge, il procreare altrimenti, l’embrione sovrano, chi è madre. Non ultimo il rapporto tra individuo, concetto apparentemente neutro e universale, con l’idea di cittadinanza, la cui redifinizione non può non passare attraverso la presenza delle donne nella sfera politica. La politica detiene la postura, le modalità, le richieste. Noi donne dovremmo perseguire quei contenuti da una nostra postura. Ma sappiamo che il femminismo non è un corpo unico, e per questo, Boccia si confronta con tanti pensieri di donne: Simone De Beauvoir per la quale “donne si diventa”, con Carla Lonzi che introduce in Italia il pensiero della differenza, ma anche con intellettuali come Alain Touraine, per cui il femminismo è un divenire, un’idea con cui M.L. Boccia concorda.
L’autrice non si ritira dal confronto con le “pratiche politiche e forma partito” aprendo un dibattito con Mario Tronti, il quale si colloca come spartiacque tra una riflessione sulle “radici” della politica e gli interventi che entrano più nel vivo di una discussione che attraversa e in parte divide lo stesso femminismo. Maria Luisa Boccia citando le osservazioni di Gramsci sui nessi necessari ma contraddittori tra “passione” e razionale “organizzazione collettiva”, indica il punto critico essenziale nel declino inarrestabile della forma partito. Qui, sta la crisi di quella forma della politica che pur avendo colto l’importanza del “soggetto collettivo”, si lascia sfuggire la forza e la qualità delle relazioni tra le persone e i loro corpi sessuati: qui, sta la forza del femminismo, la possibilità di dare stabilità e soprattutto forma all’agire politico, singolare e plurale. Senza creare una figura di Soggetto politico.
La sezione Contesti si apre con un pezzo su La civiltà dell’indifferenza e le parole di Papa Francesco:
« Siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro. Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del patire-con. Indifferenza è l’abito che indossiamo ogni giorno, il modo in cui ci poniamo di fronte agli eventi, da spettatori. »
Globalizzazione dell’indifferenza, tempo di misericordia. Boccia si affida a due testi: La civiltà dell’indifferenza di Pietro Ingrao e Liberi e servi di Gustavo Zagrebelsky, per affermare che la democrazia per funzionare ha bisogno di soggetti consapevoli e attivi, non c’è politica senza vita activa, se non si riattiva la capacità di ognuno di interrogarsi su di sé, sull’altro/a, sugli altri/e e sul senso del mondo che condividiamo. Odio l’indifferenza scriveva Gramsci. Nell’individualismo di massa chi non sta al proprio posto è, invece, colpevole. Tuttavia, in un tempo e in un spazio globalizzato, dove tutto è presentificato, una coesistenza senza convivenza, senza condivisione di azioni e responsabilità, perde di senso. Abbiamo bisogno di misericordia, un messaggio evangelico, ma soprattutto di compassione, una passione politica, non una virtù astratta.
Nell’ultima parte del libro, Corpo a corpo, la filosofa entra nel merito del dibattito nel femminismo:
« partire dai corpi muta i termini del confronto e apre possibili piani di convergenza tra femminismi differenti. Nel percorso femminista la riappropriazione del corpo, in tutta le sue forme è stata centrale. Dalle pratiche del self, alle narrazioni dell’autocoscienza, alla critica dei saperi sul corpo (scienze biofisiche e sociali, storia, filosofia, psicoanalisi, arti e comunicazione), è stata fatta un’opera ampia e diversificata, volta a esplorare la corporeità, in tutte le sue ambivalenze e complessità, con le differenze, storiche, culturali, sociali, che ne segnano l’esperienza.
È stato lavorando su questo “corpo a corpo” a più riprese e in diverse prospettive che ho sentito più saldo nelle mani il filo del mio pensiero e mi sono ritenuta autorizzata a proporlo. »
29 gennaio 2020
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