Molti sono i meriti di cui il capitalismo si vanta e i miti che racconta, tutti in nome della libertà, e legati da un unico filo conduttore: il nichilismo, che tiene in gabbia una società vittima di se stessa.
di Giacomo Pegoraro
A volte ritornano… e anche nell'anno appena trascorso è arrivato il Black Friday, preceduto da una sproporzionata febbre di consumismo. E no, niente a che fare con il Black Monday di Wall Street.
Quante ore passate davanti allo schermo di smartphone e PC a caccia del prezzo più conveniente, quante passate in coda alla cassa per accaparrarsi uno degli ultimi pezzi rimasti, custodito con gelosia come un tesoro? Sotto i nostri occhi un timer scandisce ore, minuti, secondi. Questo timer, che mette tanta fretta, deve essere disinnescato, quasi fosse una bomba ad orologeria, con un acquisto last minute: tutto orchestrato dagli strateghi del neuro-marketing.
Immancabile evento della tradizione statunitense, il Black Friday negli ultimi anni si è fatto sempre più strada anche in Europa, sia nei piccoli negozi fisici di provincia che nelle grandi catene, e per allargare le sue frontiere si è creata un’appendice per il mercato hi-tech online, facendo spuntare la versione 2.0: il Cyber Monday. Quest’occasione dà vita talvolta a delle autentiche scene di pazzia e a vere e proprie risse, in una competizione per la corsa all’“oro”.
Tuttavia non è l’unica “celebrazione” importata nella nostra cultura e ormai sempre più vissuta e integrata nella nostra società: da Halloween, che è stato affiancato alla ricorrenza religiosa di Tutti i Santi, alla meno conosciuta festa di San Patrizio, di importazione irlandese, queste ricorrenze stanno prendendo sempre più piede tra noi, generando iniziative sempre più ampie di carattere strettamente commerciale. Per le feste religiose è stato creato un contorno economico: negli ultimi dieci anni è evidente che nel periodo antecedente il Natale si preme sull’acceleratore degli acquisti, con un crescente occhio di riguardo per sfarzo e regali, smarrendo via via quel che è, ovvero un momento di convivialità in famiglia all’insegna dei valori della tradizione cristiana.
Questa declinazione del consumismo si traduce in un acquisto non basato sul bisogno e sulla necessità, bensì costruito sul piacere e sul desiderio: un consumo fine a se stesso. Nell’epoca della globalizzazione il sistema capitalistico si è accollato l’incarico di creare nuove aspirazioni, desideri, in una parola, dei “miti”, a tal punto da renderli esigenze, riuscendo a calare nella società bisogni vacui e futili, in perfetta sintonia con il nichilismo imperante del Postmoderno.
Dostoevskij ci vide lungo quando sul finire dell'Ottocento ne I fratelli Karamazov scrisse:
« Il mondo ha proclamato la libertà, soprattutto negli ultimi tempi, ma che cosa vediamo nella loro libertà? Solo schiavitù e autodistruzione! Giacché il mondo dice: “Se hai un’esigenza soddisfala, tu hai gli stessi diritti della gente più nobile e ricca. Non temere di soddisfare le tue esigenze, anzi moltiplicale pure”: ecco l’insegnamento che oggi dà il mondo. In questo essi vedono la libertà. Ma che cosa ingenera questo diritto di moltiplicare le esigenze? Per i ricchi, l’isolamento e il suicidio spirituale, per i poveri invece l’invidia e l’omicidio, giacché coloro che hanno dato loro i diritti non hanno ancora mostrato i mezzi per soddisfare le loro esigenze. Essi sostengono che il mondo si stia unendo sempre di più, che si stia organizzando in una comunità fraterna, dal momento che accorcia le distanze e trasmette i pensieri nell’aria. Ahimè, non credete a questa unione fra gli uomini! Concependo la libertà come moltiplicazione e rapido soddisfacimento dei desideri, gli uomini distorcono la propria natura giacché generano in se stessi molti desideri e abitudini insensati e sciocchi, molte sventatissime fantasie. Vivono solo per invidiarsi l’un l’altro, per lussuria e ostentazione. Fare pranzi, viaggi, possedere carrozze, gradi e servi che li accudiscano – si considerano tutte necessità per le quali vale la pena di sacrificare persino la vita, l’onore, l’amore per il prossimo; e gli uomini sono pronti ad ammazzarsi se non riescono a soddisfare queste necessità. [...] Sono riusciti ad accumulare una maggiore quantità di beni materiali, ma la gioia è diminuita. »
Perfettamente coniugabile con questo nichilismo applicato all’economia non può che essere la teoria economica marginalista, che sta a fondamento del nostro sistema neoliberale: non ci sarebbe una misura universale, costante o variabile che sia, mediante la quale si possa determinare il valore di un prodotto, se non la soddisfazione del consumatore, il quale decide quanto è disposto a pagare. Il valore del prodotto peraltro non viene stabilito dall’utilità derivante dal bisogno, ma ha la forma del desiderio, di qualsiasi desiderio: quanto più si brama il possesso di una merce, un prodotto, un servizio, maggiore sarà la porzione di capitale che si sarà disposti a impiegare per accaparrarseli. Su questo fuoco soffia l’influenza psicologica di massa a cui il sistema capitalista ci sovraespone con i mezzi comunicativi.
Di fronte ad un crescente acuirsi delle disuguaglianze il capitalismo ha offerto, per preservarsi, due rassicurazioni: avrebbe supportato il progresso scientifico e tecnologico, che permette di migliorare le condizioni di vita dell’umanità in termini di aumento dell’età media, qualità della vita, possibilità di curare le malattie, mortalità infantile e così via; sarebbe l’unica alternativa che funziona o al massimo la meno peggio, facendo leva su altre esperienze fallimentari che la storia ha conosciuto, tra cui il comunismo. A tal proposito John Maynard Keynes in Autosufficienza nazionale (1933) sentenzia:
« Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non mantiene le promesse. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi. »
Il continuo crescere della ricchezza che viene sbandierato è realmente possibile? Oppure si tratta soltanto di una Terra Promessa che si dissolverà come una delle tante bolle speculative che la finanza recente ha conosciuto? Come si spiega la crescita delle disuguaglianze e che di quel progesso tanta parte della popolazione mondiale continui a non partecipare?
La questione dell’estrazione del valore della merce è alquanto controversa, ma quanto mai urgente: dal momento in cui una merce viene venduta ad un determinato prezzo, al netto di spese varie tra cui la materia, trasporto, ecc., il guadagno andrebbe distribuito in maniera equa, con metodo non arbitrario. Equa non è da intendersi uguale in assoluto, bensì tale da rendere ad ognuno ciò che gli spetta per l’impegno e la dedizione dedicati: ciò è quantificabile nelle ore lavorate nell’aspetto qualitativo e quantitativo. Fermandosi qualche istante a riflettere, come è possibile che datori e manager in molti casi guadagnino migliaia di volte più dei dipendenti? Perché se il valore della merce incrementa, per esempio a seguito di investimenti, il più delle volte non sussegue una distribuzione dei guadagni, ma si crea profitto di cui si beneficia solo al vertice della piramide?
Il liberismo in questo è stato supportato dal darwinismo sociale, che ha gettato le basi per una semplice ma “incisiva” giustificazione: ha traslato l'attenzione dal dibattito se tutto questo sia giusto o meno, alla presunta constatazione di un fatto. Poste l’uguaglianza e la libertà dei cittadini, ogni successo ed insuccesso avverrebbe per opera della selezione naturale, sì che ogni interferenza “esterna” – quale quella di una governance politica statale – non farebbe altro che alterare o ritardare la tendenza naturale di realizzazione dei più adatti. Questo è l’impulso che alimentò il laissez-faire e che sostenne la teoria della “mano invisibile”, secondo cui il bene pubblico riposa su «lo sforzo naturale di ogni individuo di migliorare la propria condizione» (M. Keynes, La fine del laissez faire, 1926).
Quel che invece sembra avere maggiore evidenza scientifica in termini empirici nel lungo periodo è l’effetto fallimentare del liberismo, sui cui fondamenti è quanto mai opportuno tornare a riflettere. Magari ripartendo proprio dai classici.
« Una tale teoria possiede tanta bellezza e semplicità, che è facile dimenticare come essa non segua dai fatti concreti, ma da un’ipotesi incompleta introdotta per amore di semplicità. A parte altre obiezioni da menzionare più tardi, la conclusione che gli individui che agiscono indipendentemente per il vantaggio proprio producano il massimo volume complessivo di ricchezza, dipende da una varietà di presupposti irreali: che i processi di produzione e di consumo non siano in alcun modo connessi, che esista una sufficiente conoscenza preventiva delle condizioni e delle esigenze, che vi siano possibilità adeguate di ottenere questa conoscenza. » (M. Keynes, La fine del laissez faire)
24 febbraio 2020
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