Nel conoscere un oggetto mi identifico con quell’oggetto, non nel senso che la mia carne assuma le sembianze dell’oggetto, ma in quanto il mio senso e la mia ragione fanno propria la sua realtà. Così, ciò che intendo per quell’oggetto non è la sua immagine riflessa in me, ma la realtà dell’oggetto stesso. Il vero essere non può darsi indipendentemente dalla sua manifestazione, la quale non rappresenta un di più, ma fa parte intrinsecamente dell’essere stesso.
Nell’atto di conoscenza che ci permette di rilevare la realtà empirica, sperimentiamo la presenza del divenire. Se diamo fuoco ad un foglio, prima facciamo esperienza della carta, subito dopo della cenere. Potremmo dire che il foglio non è più ed è diventato cenere. Constatando il divenire della realtà empirica, possiamo istituire il termine presenza: tale termine non sarebbe possibile scorgerlo se non si manifestasse in rapporto con un’assenza. Dunque, il divenire, con il suo portare con sé il negativo – il non essere –, ci permette di semantizzare il pensare che è conoscenza per presentiam.
« La forza semantizzante il negativo si rivela non solo in rapporto al concetto di essere, ma pure a quello di conoscere. Se l’esperienza poi è la conoscenza per presentiam, noi diciamo che la stessa presenza è presente, tuttavia il significato del termine presenza si istituisce solo in rapporto ad una assenza. » (G. Bontadini, Dal problematicismo alla metafisica)
In Bontadini, la semantizzazione del conoscere è conseguente a quello che lui chiama "Principio di Parmenide ad honorem" (P.d.P.), il quale sostiene che l’essere non può essere originariamente limitato dal non-essere. Se non fosse posta l’impossibilità originaria che l’essere sia limitato dal non-essere e quindi che il negativo venga assunto in funzione determinante, all’interno dell’esperienza avremmo la positività sia della presenza che dell’assenza, ossia una contraddizione, dato che i due termini sono opposti.
Il divenire non può essere assunto come originario, perché al suo interno il non-essere limita l’essere, il negativo limita il positivo. L’originario deve essere assoluta positività, altrimenti non sarebbe ciò da cui tutto parte: se fosse limitato al suo interno necessiterebbe di un principio che regoli questa limitazione, quindi non sarebbe il principio ultimo.
« Il P. d. P. fonda il Presupposto dello gnoseologismo (la preesistenza dell’essere al conoscere), lo riscatta. Istituisce il problema del conoscere, e, perché lo istituisce, già possiede il fondamento della soluzione. L’essere è il conoscere stesso. » (Ivi)
Riprendendo la domanda che Bontadini rivolge ai lettori dell’Educatore Italiano in uno dei suoi contributi nel 1957, chi o cosa mi garantisce che il p.d.n.c., il quale è la legge suprema del pensiero, sia anche legge dell’essere? Infatti il P.d.P. ad honorem si basa direttamente sul p.d.n.c. Per dichiararli validi oltre che nel nostro pensiero anche nell’essere, dobbiamo dimostrare l’identità tra essere e pensiero. Altrimenti dovremmo trovare ciò che regola questa relazione.
« La fondazione del Principio di Parmenide (P. d. P.) si appoggia direttamente al primo principio o principio di contraddizione, in quanto ammettere il contrario varrebbe appunto quanto attribuire al non essere la positività, come incidenza sull’essere, o forza limitatrice dell’essere. » (Ivi)
Se l’istanza suprema non fosse assolutamente positiva, il p.d.n.c. non si attuerebbe e quindi non avremmo a che fare con qualcosa di fondato. Ma dato che il p.d.n.c. non può non darsi, esso deve essere presente anche nell’istanza ultima: essa deve essere positiva. Senza il p.d.n.c. non si dà né l’essere, né il pensiero, per cui sarebbe impossibile il darsi di ciò che è originario.
« Il principio di contraddizione esprime la positività del pensiero: è condizione necessaria, cioè, del porsi del pensiero. Un pensiero che si contraddice si annulla. Contraddicendosi dice il doppio di quello che dovrebbe dire, ma il risultato del troppo dire è l’annullamento del pensiero. L’istanza suprema risulta essere, pertanto, quella della positività. » (G. Bontadini, Per una filosofia neoclassica, in Conversazioni di metafisica, vol. I)
Colui che si contraddice non dice nulla, si annulla come dicente, quindi anche come pensante. Dato che il p.d.n.c. è positività, senza di esso il pensiero non si può dare. Il p.d.n.c. è anche principio dell’essere, perché l’essere è l’oggetto del pensiero.
Quando una persona giudica qualcosa, essa stessa è essere, dunque è essere che giudica l’essere: unità di essere e pensiero. Il pensiero, in quanto giudica l’essere, è unità di pensiero ed essere.
« Il pensiero […] è la rappresentazione dell’essere, è la pura immagine dell’essere, quindi è l’essere stesso: non l’essere mero, ma l’essere illuminato o manifesto. » (G. Bontadini, Realismo gnoseologico e metafisica dell’essere, in Studi sull’idealismo)
Nel conoscere un oggetto mi identifico con quell’oggetto, non nel senso che la mia carne assuma le sembianze dell’oggetto, ma in quanto il mio senso e la mia ragione fanno propria la sua realtà. Così, ciò che intendo per quell’oggetto non è la sua immagine riflessa in me, ma la realtà dell’oggetto stesso. Il vero essere non può darsi indipendentemente dalla sua manifestazione, la quale non rappresenta un di più, ma fa parte intrinsecamente dell’essere stesso.
« Se il pensiero è nell’essere (dato che non è o non sia nel nulla) e se l’essere è nel pensiero (dato che si manifesta nel pensiero), ne consegue che essi coincidono a tal segno che l’uno di essi, considerato indipendentemente dall’altro è, almeno sotto un certo aspetto, nullo. Il pensiero in effetto non è parte o momento dell’essere, ma tutto l’essere […] e reciprocamente l’essere non è una parte o momento del pensiero, giacché il manifestato non è una parte che insieme con la manifestazione faccia un tutto, ma la manifestazione è lo stesso manifesto in quanto tale. » (Ivi)
Ogni tentativo di formulare la separazione tra essere e pensiero risulta vano, in quanto il darsi di questa separazione dovrebbe essere pensato e quindi non potremmo fare a meno del pensiero. Il problema perviene quando si nota che il pensiero che abbiamo dell’essere, è un pensiero del divenire dell’essere: non facciamo esperienza del puro essere, ma sempre di un certo essere, il quale è soggetto al divenire. Per affermare la realtà di un oggetto è quindi necessario renderla indipendente dalla nostra esperienza, la quale è soggetta al divenire, trovando una condizione reale trascendente.
Dando per presupposta l’esistenza Dio (se il lettore sarà interessato, questo punto lo si potrà trattare in un altro articolo), cioè la condizione reale che permette ad un certo essere di esistere indipendentemente dalla nostra esperienza, si salverebbe la realtà dell’oggetto.
Ponendo l’esistenza di Dio, perveniamo però ad un ulteriore problema gnoseologico: come è possibile affermare l’identità di essere e pensiero, se di Dio conosciamo solo alcune proprietà e non abbiamo a disposizione la sua “intensità ontologica”?
Il problema è questo: come è possibile ammettere allo stesso tempo l’essere sconosciuto a noi di Dio e il suo essere conosciuto? Le due ammissioni sono formulate dallo stesso concetto della nostra mente, non possiamo formulare una delle due proposizioni senza l’altra: si danno assieme. Cosa sappiamo di Dio? Conosciamo di non conoscere una certa realtà, grazie a questo però conosciamo che questa realtà è, altrimenti non sarebbe ignota; infine conosciamo che è quella certa realtà. L’unica cosa che non conosciamo è la sua determinatezza intrinseca.
« Tra il determinato e l’indeterminato non c’è rapporto di mera trascendenza, ma l’indeterminato è lo stesso determinato appreso indeterminatamente. La distinzione è dunque solo gnoseologica. » (Ivi)
Ammettendo una distinzione tra ordine logico e ordine ontologico, la quale deve emergere dal contenuto del conoscere, è possibile sostenere che la determinatezza ignota della realtà divina è implicata da quell’aspetto per il quale essa realtà mi è nota. Di Dio possiamo dire che «conosco indeterminatamente ciò che non conosco determinatamente» (Ibid.). In questo modo il conoscere è superato dallo stesso conoscere: negare l’ignoto è negare anche ciò che è noto, cioè vorrebbe dire negare il conoscere stesso.
Conoscere indeterminatamente «significa conoscere insieme parzialmente e totalmente […], in quanto il modo stesso della totalità pone come suo stesso contenuto il modo della parzialità.» (Ivi). In questo modo l’attualità del mio conoscere non è riconosciuta da un altro atto, ma dallo stesso. L’attualità dell’ignoto non è al di là della conoscenza, ma interna alla conoscenza, in quanto è noto che c’è dell’ignoto.
1° giugno 2020
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