Nel mondo nel quale viviamo si può affermare che anche l’attuale crisi di potere che attraversa la società è il segno più evidente di una potestas che è manchevole dell’auctoritas, laddove quest’ultima è vista come qualcosa di liberante, di forza generatrice e, come tale, superiore alla potestas, che invece ha il solo scopo di “contenere”, “tenere”, "conservare”.
Il principio di autorità è quello che ha fatto grande l’antica Roma ed il suo impero. La grandezza romana è basata sulla triade religione-autorità-tradizione. Tutta la vita dell’uomo romano ruotava intorno al legame con la tradizione e con il suo passato. L’evento unico e irripetibile della fondazione dell’Urbe la stella polare di tutto il cammino storico successivo. La parola patria ricava proprio dalla storia di Roma tutto il suo significato. Essa esprime il forte legame con la terra (cosa di cui erano sprovvisti i greci, per i quali la polis poteva essere ovunque) e l’attaccamento a due divinità profondamente romane: Giano, dio del principio, e Minerva, dea della memoria. La santità del focolare e della casa costituiva il contenuto profondamente politico della religione romana. La religione non è pietà connessa alla presenza diretta degli dei, come in Grecia, ma a Roma significa religare (come ci spiega Cicerone) cioè essere collegati al passato, essere legati al padre fondatore per l’eternità. Questa venne poi inglobata dalla Chiesa, la quale divenne appunto “romana” adeguandosi in tutto e per tutto alla mentalità romana, facendo della morte e resurrezione di Cristo la pietra angolare di una nuova fondazione.
Il mondo moderno ha visto una progressiva perdita di autorità ed a questa perdita è correlata la crisi che lo ha travolto. Quando Hannah Arendt riflette su questa “mancanza” nella contemporaneità, ha bene in mente che nei regimi totalitari si è fatta confusione tra autorità ed autoritarismo, con tutte le deleterie conseguenze che questo ha comportato, e prende atto che un sano principio di autorità, quale era stato formulato a partire dall’esperienza romana, non è stato più ristabilito da nessuna rivoluzione. Anzi, alle rivoluzioni sono seguiti solo periodi di tirannide. Alla fine del lungo saggio dal titolo Che cos’è l’autorità?, incluso nella raccolta Tra passato e futuro, la Arendt prende concisamente atto del vuoto lasciato dal tramonto dell’autorità:
« E vivere nella sfera pubblica senza l’autorità (e quindi senza la consapevolezza della trascendenza della fonte di tale autorità rispetto al potere e ai detentori di questo) significa trovarsi ad affrontare daccapo, senza più fede religiosa in un principio consacrato, e senza la protezione offerta da criteri di comportamento tradizionali, e perciò assiomatici, i problemi più elementari suscitati dall’umana convivenza. »
È il 1954 quando questo saggio viene pubblicato ed alla luce dei recenti avvenimenti storici in esso è dato trovare una vitalità ed attualità che non possono che lasciarci ammirati.
Un primo ambito nel quale l’autorità è oggi messa in discussione è quello dello Stato. Prima del Covid-19 abbiamo assistito ad una tensione pressoché giornaliera tra l’Italia e l’Ue, a proposito di politiche migratorie, emblematica della necessità di un ripensamento, non solo dei rapporti internazionali fra Stati, ma della ridefinizione dei rispettivi ambiti di autorità. Nell’era del Covid lo Stato sembra essere impotente rispetto ai bisogni e alle aspettative della gente, piegata dalla crisi economica che essa ha portato, fiaccata nella resistenza dello spirito, mentre i politici fanno passerella e dispensano parole rassicuranti, cui fanno seguire i famosi “Stati Generali” di cui si parla tanto in questi giorni, forse dimentichi che tale dicitura in epoca illuminista portò male al sovrano francese e gli costò la testa.
Un altro ambito di applicazione delle riflessioni della Arendt è quello relativo all’attuale crisi di autorità che investe il mondo della scuola, sempre più depotenziata della sua autorevolezza, sminuita ad una funzione meramente aziendalistica, impoverita dei suoi contenuti culturali. Su queste tematiche abbiamo a disposizione una letteratura sempre più vasta e autorevole, che analizza i motivi di questa deriva. Ernesto Galli della Loggia, ad esempio, nel volume L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, auspica proprio un ritorno a un sano concetto di “autorità” come centro del rapporto educativo e formativo tra insegnante e allievo e cita a tale proposito Giovanni Gentile come l’unico artefice di un modello avanzato per la scuola italiana del Novecento e baluardo contro l’impoverimento culturale che sarebbe ripreso a partire dagli anni Sessanta. Maurizio Bettini, invece, in A che servono i Greci e i Romani?, analizza il lessico aziendalistico che caratterizza la scuola di oggi, mentre Martha Nussbaum a più riprese ha analizzato l’impoverimento dei saperi umanistici in atto nella scuola, soprattutto in Coltivare l’umanità, e Non per profitto.
La modernità ha dissolto quanto restava dell’autorità, dopo che il mondo romano aveva fondato su di essa la propria grandezza. Sul tale crollo analizzato dalla Arendt hanno poi prosperato i nuovi regimi totalitari, mentre nel mondo nel quale viviamo si può affermare che anche l’attuale crisi di potere che attraversa la società è il segno più evidente di una potestas che è manchevole dell’auctoritas, laddove quest’ultima è vista come qualcosa di liberante, di forza generatrice e, come tale, superiore alla potestas, che invece ha il solo scopo di “contenere”, “tenere”, "conservare”. La stessa radice latina della parola ci illumina su questo termine. “Autorità” deriva dal femminile “augeo”, cioè “accresco”, “genero”, “sviluppo”, “do la vita”. Combinando i due termini, il potere è tale solo se contiene l’auctoritas, cioè se si approssima all’altro e fa di tutto per liberarlo, cioè porlo nella condizione di seguire la propria strada. Non si approssima per diventarne padrone. Tutt’altro. L’autorità non è esercitare il potere o la violenza. Come spiega la Arendt, essa:
« esclude qualsiasi coercizione esteriore: dove s’impiega la forza, l’autorità ha fallito. »
Ma l’autorità rifugge anche argomenti di persuasione, perché quest’ultima presuppone due cose: l’uguaglianza ed un processo di argomentazione:
« dove si impiegano argomenti di persuasione, l’autorità è messa a riposo. »
La persuasione poggia su un ordine egualitario. L’ordine dell’autorità è, invece, gerarchico. L’autorità, dunque, non è esercizio di violenza o persuasione. Non è coercizione.
Qual è, dunque, l’origine del concetto di autorità?
Hannah Arendt lo ravvisa nella speculazione di Platone, il quale cercava di introdurlo nella conduzione degli affari pubblici della polis, e quindi prospettava un’alternativa rispetto alla persuasione, che era il modo in cui i greci sbrigavano gli affari interni, ed alla violenza, che era invece il loro modo di trattare gli affari esteri.
Storicamente la fine dell’autorità è il processo conclusivo di un percorso che ha minato le basi sia dell’autorità che della religione, fino a giungere, nell’età moderna, ad estendere il dubbio generalizzato anche nel campo della politica.
Lo smarrimento della tradizione, del tramandare conoscenze e valori da una generazione all’altra, l’oblio della memoria, cioè di ciò che ci rende umani, ci fa perdere di vista ciò che è veramente importante nell’esistenza umana. Tratto tipico di questo scenario fortemente mutevole, oggi, è la volatilità della memoria nell’universo dei social, dove ciò che si scrive e si posta viene cancellato dalla memoria collettiva nell’arco di pochi giorni, se non di poche ore, anche perché facciamo fatica a trattenere la quantità immane di informazioni che ci subissano ad ogni secondo, in quest’era di vita liquida, per dirla con Bauman.
A partire dall’Illuminismo la religione è stata travolta da una critica radicale e tutte le sue verità fatte oggetto di dubbio, tant’è che il credente oggi deve difendere dai dubbi le proprie convinzioni. Tuttavia, si affretta a specificare la Arendt, se i dogmi della religione istituzionale possono essere rifiutati, ciò non implica anche una perdita o una crisi della fede, in quanto religione e fede non sono identificabili. Ma anche la fede, così tanto protetta dalla religione per tanti secoli, viene esposta a grave pericolo da quella che di fatto è solo una crisi della religione istituzionale.
L’autorità così tanto rifiutata a partire dai tempi nei quali Hannah Arendt ne scrive fino ad oggi, è stata proprio quell’elemento che ha reso il mondo durevole in quanto l’uomo, creatura effimera e vana più di ogni altra, ne ha sempre avuto bisogno.
La perdita dell’autorità ha rimesso in discussione le fondamenta solide su cui la vita degli umani si basava. Se leggiamo oggi le parole profetiche della Arendt, non possiamo che registrare gli esiti di questa perdita di cui ella parla: e cioè quella liquidità di vita prima ricordata, che ci costringe a vivere in un mondo in perenne trasformazione e suscettibile di trasformarsi in qualsiasi cosa.
Anticipando Bauman, la Arendt parla di «perdita della continuità e della solidità del mondo», in concomitanza con la fine dell’autorità in campo politico (op. cit.).
Ma l’autrice in questo ritrova anche una nota di speranza. Si perdono i valori di riferimento, le tradizioni ma non si perde il talento dell’uomo di costruire, conservare e avere a cuore un mondo che gli possa sopravvivere, che possa essere un luogo ospitale per i suoi discendenti.
Se la Arendt nel Novecento ha descritto la crisi dell’autorità di Roma ed il tramonto dei valori che l’hanno reso grande (religione-autorità-tradizione), come va nell’epoca della «società liquida», dove tutto è oggetto di un perenne fluire, le certezze saltano, il consumismo divora rapidamente tutto anche nell’ambito dei rapporti sentimentali e la comunicazione viaggia sui social a velocità stellari, impedendo spesso anche ai ricordi di stratificarsi?
Le democrazie europee sono in affanno e la politica è teatro di scontri frequenti, legati, prima, alle tematiche migratorie ed economico-sociali, ora, invece, a tutte le problematiche legate alla pandemia in corso, e cioè a quel groviglio di questioni sanitarie ed economiche che attanagliano il nostro Paese e non solo il nostro.
Per riprendere Machiavelli, autore con il quale la Arendt ha concluso la sua disamina sull’autorità, è bene ricordare un suo pensiero: «È ben diverso tenere una città che conquistarla». Pensiero espresso nel Principe, opera del 1513, che significa sostanzialmente due cose: il potere è ciò che conserva una città, ma è legittimo nella misura in cui è auctoritas, cioè se non pone i cittadini in uno stato di sudditanza o infantilizzazione, ma ne garantisce la libertà di espressione democratica. L’auctoritas è ciò che rende maturo un popolo. Maturo nella libertà.
Oggi è innegabile che in alcune parti del mondo vi siano popoli hegelianamente non ancora maturi per la democrazia e la cosa è ben evidente tracciando una mappa dei vari focolai di guerra che costellano i vari Paesi del mondo. Come lo si evince anche dalle accentuate disparità di trattamento riservate, in alcune regioni del globo, all’universo femminile.
Vi sono, altresì, dei problemi planetari che deflagrano in tutta la loro drammaticità, ad esempio nelle varie statistiche e studi di settore che vi sono dedicati. Ad esempio il problema di un’alimentazione inadeguata e insana (“cibo spazzatura”) cui sono legati i problemi di obesità che riguardano due miliardi di persone nel mondo, unito al fatto che la piaga della fame nel mondo non accenna a diminuire (rapporto FAO 2019). O ancora il ritorno di malattie che si credevano debellate, come la sifilide, che, stando alle ultime rilevazioni, è in crescita vertiginosa soprattutto tra i giovani. Vi è un’emergenza perenne legata all’afflusso, ridotto ma non interrotto, dei migranti dalle coste africane all’Europa, in un intreccio problematico di: fuga dalle guerre, interessi di organizzazioni economiche varie, difficoltà logistiche legate all’accoglienza e alla redistribuzione nei Paesi europei. Vi sono relazioni umane sempre più problematiche e la tematica del femminicidio, neologismo coniato negli ultimi anni, sempre di triste attualità. Vi è un utilizzo sconsiderato nell’utilizzo dei social, che arriva ad episodi estremi, come quello degli hikikomori o delle morti causate da un utilizzo sconsiderato dello smartphone – come la mania di riprendere se stessi mentre si fanno prodezze al volante – o da mera distrazione.
Allora ha certamente ragione la Arendt quando dice che il termine autorità è sempre più sfumato in una pletora di diversi significati, o Bauman quando rileva che i sentimenti più diffusi in tempi di società liquida sono tristezza, inadeguatezza, senso di precarietà.
Proprio il vuoto di autorità nella vita delle nazioni, ha lasciato spazio alla contrapposizione tra populismo e globalismo, che ha ormai sostituito quella obsoleta tra destra e sinistra.
Al di là di tutte le contingenze storiche, la perdita di punti di riferimento e lo scollamento dalle tradizioni, dall’autorità pongono l’uomo del XXI secolo nell’allettante prospettiva di creare un mondo completamente nuovo rispetto a quello degli antenati. Il colpo finale a tutta questa incandescente situazione planetaria lo ha dato il Covid-19, forse massima espressione di un mondo globalizzato dove si soffre tutti insieme, a causa dell’agghiacciante velocità con cui questa pandemia diffonde morte e dolore in ogni parte del pianeta. Eppure questa drammatica fase della storia sta evidenziando con prepotenza ciò che il filosofo Edgard Morin ha evidenziato benissimo: che per l’uomo è arrivato il tempo di ritrovare se stesso. Attraverso il recupero del senso di solidarietà e responsabilità, ovvero delle sorgenti stesse dell’etica. C’è bisogno di rimettersi religiosamente in ascolto delle ragioni stesse dell’esistenza, recuperando, appunto, quella forte tensione etica che portò alla fondazione di una Città ed alla creazione di civiltà, nel rispetto della memoria, della tradizione, dell’appartenenza ad un comune destino di uomini. Serve un risveglio molto forte della coscienza, a livello individuale, politico, collettivo. Non un vago desiderio di bontà che alcuni in maniera spesso melensa cercano di intravedere alla fine di questa emergenza, ma di sicuro una forte assunzione di responsabilità circa quello che abbiamo sin qui prodotto e del necessario cambio di rotta da intraprendere se vogliamo ancora far parte della famiglia umana.
29 giugno 2020