L’uomo crede di poter prevenire o limitare qualsiasi sciagura; quindi se un aereo cade, un treno deraglia, un terremoto determina una quantità spropositata di vittime, è necessario quanto automatico andare alla ricerca del colpevole e punirlo, così da dare un senso all’accaduto. La medesima logica si presenta in caso di epidemie: il Coronavirus non è percepito a livello sociale in termini di punizione divina, ma comune è il desiderio di scovare il colpevole, un altro da sé da accusare.
di Benedetta Norelli
La pandemia di Covid-19 sferra un grave colpo all’uomo surmoderno, che improvvisamente sente la terra tremare sotto i piedi, e le redini del controllo scivolare via dalle proprie mani, mentre un’onda gigantesca lo travolge verso le sponde dell’ignoto. Dopo essersi autoproclamato re della natura, il solo avente il diritto di consumare, plasmare, strumentalizzare, contaminare le cose e le specie; egli si era persuaso di padroneggiare in modo assoluto il destino di sé stesso e del mondo esterno.
Già il terrorismo, in tempi recenti, aveva fatto vacillare le sue granitiche certezze, scoppiando in momenti imprevedibili e con modalità sconosciute, generando la messa in discussione del confine che limiterebbe la zona di sicurezza comunitaria: il nemico è fra noi, potrebbe essere tanto un immigrato giunto nel nostro Paese soltanto un mese fa, quanto il nostro vicino di casa, nato e cresciuto qui, o ancora un amico, un familiare, un compagno di studio dell’università. Eppure, di fronte al vortice del terrore, l’uomo bianco non ha osato mettere in discussione la propria persona, rispondendo a responsabilità e doveri storici, ma ha preferito piuttosto ergersi a portatore della Verità, unica e universale, da diffondere come messaggio evangelico o da imporre con la forza a livello globale, impegnandosi al contempo nel prevenire e frenare la diffusione del virus del fondamentalismo islamico.
Grande ottimismo e fiducia nelle potenzialità umane si ripropongono oggi, che il pericolo non è causato da un nostro simile (almeno, non direttamente), ma da un microrganismo, la cui curiosa immagine ci trova impreparati e ci lascia un po’ spaesati. Ma la soluzione – di questo siamo certi – c’è, o comunque, ci sarà: l’uomo domerà e sconfiggerà anche questo essere, per tornare a condurre la sua vita precedente, riprodotta in maniera impeccabile ed automatica, eludendo qualsiasi tentativo o tentazione di dubbio. Perlomeno, questo è quanto si deduce seguendo la logica abitudinaria: ogni problema tecnico ha una soluzione altrettanto tecnica, se si è in grado di salvare un cuore in caso di crisi cardiaca, effettuando una stimolazione con pacemaker o addirittura trapiantando un cuore nuovo; saremo senz’altro in grado di scovare farmaci alternativi per sconfiggere un batterio che prolifera nei polmoni. Ci si chiede quando sarà messo a punto il vaccino, quando, e non se.
Dove nasce e quali sono le fondamenta della logica contemporanea? Il Sistema, così lo definisce Marc Augé, è sorto dalla sintesi fra il libero mercato e la democrazia rappresentativa, e si basa sul rifiuto della storia: il passato non conta più, il pensiero del futuro è intollerabile perché contiene in sé il rischio della messa in discussione dell’equilibrio della nuova ideologia; tutto ciò che conta, quindi, è il presente. Non a caso, presente, certezza immediata e globalità sono i termini che riassumono l’ideologia del Sistema, ed è a loro che rimanda ciascun segmento della vita quotidiana degli individui che esso incorpora.
Il “troppo pieno” caratterizza i luoghi che attraversiamo, le nostre giornate, le nostre menti. La società stabilisce cosa sia la felicità e pretende che tutti i suoi componenti siano felici, il che equivale a dire che siano dei consumatori compulsivi. Se la felicità è il consumare, la disgrazia è il non consumare; e perché sia possibile il consumo, ovviamente, è necessaria la produzione. Allora, la vita di ognuno si gioca interamente fra questi due poli: consumare e produrre; non c’è spazio per altro. La difficoltà nel dare un senso alla realtà, a causa del sovraccarico di fatti, informazioni e avvenimenti che ci sovrastano; la possibilità di spostarsi velocemente da un punto all’altro del globo; la tendenza a porre la propria individualità come punto di riferimento costante a scapito della collettività: tali aspetti delineano la figura dell’uomo surmoderno. Il “triplo eccesso” – di tempo, di spazio e di ego – descrive, dunque, la surmodernité: termine coniato da Augé per indicare la società a partire dal XX secolo. La surmodernità, o sovramodernità, si pone come alternativa alla postmodernità lyotardiana: se quest’ultima porta con sé l’idea che oggi non vi siano più legami con la modernità; la definizione dell’antropologo francese, invece, rimanda alla concezione del presente nei termini di un’accelerazione dei fattori che hanno costituito l’epoca precedente.
« Quando ho proposto il concetto di "surmodernità" per definire la situazione attuale, l'ho fatto appunto per situarla in relazione all'epoca della modernità. In effetti, quella è il prolungamento di questa, ma è soggetta all'influenza di molteplici fattori, complessi e talvolta contraddittori, che ne rendono difficoltosa l'analisi. Si tratta di una situazione "surdeterminata", […] ed è in questo senso che essa è surmoderna. » (M. Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo)
Mentre il compito della scienza non è rassicurare, ma misurarsi col misterioso, abbattere o scontrarsi con i limiti umani; le sue stesse applicazioni, le tecnologie, sono invece in grado di semplificare la nostra esistenza, consegnare nuove certezze, proteggerci dall’imprevisto, e se l’imprevisto accade, allora fornirci gli strumenti per interpretarlo e ricondurre l’evento a-normale all’interno di un ordine condiviso di senso. È per questo motivo che si parla di “cosmotecnologia”, come la nuova ideologia nella quale si inscrive il Sistema: se, come narrava Le Goffe, nel Medioevo le campane delle chiese scandivano le giornate dei fedeli, attualmente quel compito è affidato ai programmi TV e alle dirette Instagram, costruttrici di nuovi rituali che aiutano a significare in qualche modo la nostra quotidianità, rimodulando la sua intrinseca complessità in termini di semplicità.
In una società premoderna, come quella europea medievale, una catastrofe ambientale o l’esplosione di un’epidemia, avrebbero causato, accanto a paura e sofferenza, una forte reazione culturale di rassegnazione, dettata dalla consapevolezza dell’inferiorità dell’uomo di fronte all’onniscienza e all’onnipotenza di Dio. Nel ventunesimo secolo, l’atteggiamento risulta pressoché capovolto: l’uomo crede di poter prevenire o limitare qualsiasi sciagura; quindi se un aereo cade, un treno deraglia, un terremoto determina una quantità spropositata di vittime, è necessario quanto automatico andare alla ricerca del colpevole e punirlo, così da dare un senso all’accaduto. La medesima logica si presenta in caso di epidemie: il Coronavirus non è percepito a livello sociale in termini di punizione divina, ma comune è il desiderio di scovare il colpevole, un altro da sé da accusare. E la caccia al colpevole infatti è già in atto: i diversi Paesi si attaccano vicendevolmente, le parti politiche interne alle singole nazioni fanno altrettanto, gli atti discriminatori contro persone asiatiche sono in vertiginoso aumento (in Australia, ad esempio, sono riportate in media 12 accuse al giorno sin dai primi di Aprile), e non manca neppure chi punta il dito contro gli immigrati o chi si erge a “sceriffo dal balcone”. Indipendentemente dal volto del nemico individuato, ciò che accomuna gli accusatori è la convinzione di trovarsi dalla parte della giustizia, della moralità, della verità assoluta, contro tutti coloro che invece hanno agito male, non hanno capito niente, hanno sottovalutato la situazione.
La ricerca ossessiva del colpevole rappresenta l’ultimo, disperato tentativo che il cittadino della “surmodernità” compie per fuggire la storia e la natura: guarda all’esterno, per evitare l’incontro col proprio riflesso, che inevitabilmente apparirà stanco, sbiadito, immagine della sua debolezza e fallibilità.
Aristotele concepiva l’essere umano come entità da un lato abile e razionale, dall’altro vulnerabile e indigente, la cui sopravvivenza dipende tanto dal soddisfacimento dei bisogni primari (procacciarsi cibo e trovare riparo), quanto da una molteplicità di pratiche e attività per realizzare se stesso (potersi esprimere, interagire, provare emozioni). Nel corso del tempo, però, pare che l’uomo abbia tentato con tutte le forze di sopprimere la dimensione fragile della propria individualità, parte integrante della sua essenza. L’evento che da sempre e in maniera tremendamente evidente mostra la vulnerabilità umana è la morte. In un primo momento, gli uomini si sono impegnati nell’investire la morte di cariche positive: l’aldilà rappresenta per le religioni tradizionali la vera fonte di significato della vita terrena, per cui (almeno, in teoria) un buon credente (cristiano, musulmano, induista) addirittura auspica la propria fine, nel paradiso infatti riceverà ciò che gli spetta e verrà ripagato di tutti i sacrifici compiuti in terra. Con il sopravvento della Rivoluzione scientifica, poi, la morte si è trasformata da decreto divino in mero problema tecnico, perdendo all’improvviso la sua aurea metafisica, e vedendo i suoi messi venire rapidamente spodestati da medici e scienziati. A partire dal XVIII secolo, le ideologie non parlano più di fine corporea e/o spirituale, se ne disinteressano completamente, lasciandola in disparte, priva di significato. L’indifferenza ha portato man mano alla repulsione e alla negazione della morte, che si traduce nel complesso senso di disgusto che si prova alla vista dei suoi simulacri: i disabili, gli anziani, i malati, i poveri, gli emarginati, gli omosessuali, in una sola parola, i “diversi”, ovvero coloro che in un modo o nell’altro si distanziano da quell’ideale artificiale e arbitrario che definiamo normalità. Facendo riferimento al pensiero dell’antropologo Charles Gardou, la nostra normalità è una pagina grigia, che teme e rifiuta quella vasta gamma di colori, che nel loro insieme, richiamando l’immagine di un magnifico arcobaleno, formano lo spettro dell’umanità.
Adesso che la morte ci tocca da vicino, incombendo sulle nostre città, e minacciando persone talmente prossime e simili a noi, che assimilarle a cifre astratte diventa un’operazione forse troppo ardua; la parte razionale, abituata a ricercare motivazioni semplici, logiche, si scontra con la complessità del reale. Come possiamo fare i conti con la morte, noi che ci siamo dimenticati di lei?
Certamente, è saggio lasciare agli esperti il compito di trattare un'epidemia, ma se la specie umana nella sua interezza avanza, diventando sempre più potente, acculturata e abile; è ancora, e forse quanto mai necessario, che i singoli individui non smettano di riconoscersi come esseri essenzialmente vulnerabili. Allora, il compito dell’uomo oggi è spogliare la vulnerabilità del valore negativo attribuitole dal Sistema, che, impegnato nella ricerca e nella celebrazione di una forza sfrenata e inumana, ha smarrito il senso della vulnerabilità, con le sue straordinarie potenzialità. Essere vulnerabili, infatti, vuol dire essere aperti, accogliere e lasciarsi sorprendere (non sopraffare) dall’inatteso; essere curiosi, avere il coraggio di esplorare, sia fuori che dentro di sé; vivere e riflettere sulle proprie emozioni, essendo in grado di riconoscerle, di amare appieno, soffrire appieno, di ammettere i propri errori, chiedere aiuto senza provare vergogna e aiutare l’altro liberi da pregiudizi e preconcetti. Una simile rivalutazione della vulnerabilità potrebbe addirittura rompere l’equivalenza felicità-consumo, ampliando le prospettive umane e mutando completamente le voci che rientrano attualmente nella categoria di “successo”.
Anche se un giorno gli scienziati scoprissero l'elisir per la vita eterna, è molto probabile che, ad eccezione di qualche multimiliardario, noi gente comune continueremmo a perire. Pertanto, forse, tornare a riflettere sulla morte, potrebbe rendere la sua vicinanza un po’ meno terribile, e la nostra vita più significativa, perché libera dal costante sforzo di scongiurare il tempo che passa (sforzo, tra l’altro, destinato ogni volta, inevitabilmente a fallire, nonostante la chirurgia estetica e il velo che usiamo per coprire i corpi che riportano a galla il fantasma della fine).
Aldo Masullo, filosofo della coscienza, studioso di teoretica e professore emerito di Filosofia morale presso l’Ateneo federiciano, scomparso il 24 Aprile dell’anno corrente, afferma che l’uomo, diversamente dagli altri viventi, è intrinsecamente tempo: egli istituisce il tempo nel senso che collega gli avvenimenti in serie, riconducendoli a sistemi oggettivi di riferimento, ma ancor più radicalmente l’uomo è tempo in quanto avverte i cambiamenti del mondo esterno soltanto in relazione al proprio modificarsi. I due concetti non sono ascrivibili: il cambiamento è il continuo avvicendamento di differenze, il tempo è l’avvertimento interiore di tale cambiamento, e insieme l’avvertimento di sé attraverso il cambiamento. Il desiderio, secondo il filosofo partenopeo, è il gemello siamese del tempo: attraverso la perdita dell’amato/a (rappresentante più elevato dell’oggetto del desiderio) si perde difatti una parte di sé, quella parte che guarda con speranza il futuro, e che rende il presente ricolmo di gioia. La perdita amorosa, dunque, significa sperimentare da vivi il morire, scontrarsi con la realtà dialettica della vita, che è sempre pienezza e fuga, pienezza del presente che è, e che mentre è, si dissolve e si trasforma nel divenire. L’uomo, pur pervaso dal cambiamento, ha il privilegio di poter dimorare nel tempo; «solo scegliendo di abitare il tempo, l’uomo si trova finalmente presso di sé» (A. Masullo, Il tempo e la grazia.Per un’etica della salvezza)
Se non possiamo sconfiggere la morte, allontanandola dagli occhi e cancellandola dai nostri vissuti, cosa ci resta da fare? Per appropriarsi della morte, scrive Ernesto De Martino, gli uomini devono abituarsi a piangere come morte le persone care mentre sono ancora in vita, riempiendo di malinconia l’affetto che li lega, per meglio prepararsi all’avvento del distacco. Anticipare il lutto permette di operare il lavoro del cordoglio, per cui superiamo la fase liminare e tratteniamo la memoria della persona scomparsa, mentre lasciamo al contempo che essa muoia in noi.
11 luglio 2020
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