L’opera di Primo Levi e la lettura del racconto dell’esperienza di Auschwitz che egli articola, assegnandole connotazioni e ruoli disparati all’interno dei suoi scritti più conosciuti, può aiutarci ad indagare nel profondo, tra le pieghe della nostra identità. La drammaticità esasperata e radicale vissuta dal chimico-scrittore e descritta in testi come Se questo è un uomo, I sommersi e i salvati e Il sistema periodico viene consegnata al lettore sotto forma di trattato scientifico. Primo Levi sa che per raccontare Auschwitz, quel complesso e destabilizzante laboratorio umano, è necessario vestire i panni dello scienziato che descrive l’andamento del più crudele degli esperimenti, ribadendo con fermezza la necessità di conciliare due componenti di una sola anima: il chimico e il letterato lavorano all’unisono, si mescolano fino a creare il fluido indistinto di un’identità ibrida che, proprio perché tale, è destinata a consegnarci l’immagine potente e oggettiva di un’oscurità assoluta come quella del Lager.
La potenza delle immagini raccontate attraverso l’osservazione al microscopio che solo un chimico può proporre, si manifesta nell’opera di Primo Levi, un autore che ha consegnato, alla letteratura italiana contemporanea e alla memoria della Shoah, pagine intense e ricche di quegli spunti di riflessione stimolati dall’assenza di qualsiasi forma di coinvolgimento emotivo e arricchiti di una lucidità spiazzante, l’unica in grado, secondo Levi, di offrire l’analisi pura e oggettiva di ciò che Auschwitz ha realmente rappresentato: un gigantesco laboratorio di deformazione dell’umanità che, contorta e degradata dall’orrore assoluto e dalla violenza inutile, ha portato l’intera cultura occidentale a ridefinire quei parametri morali che sembravano, fino ad allora, incrollabili.
Nel racconto della deportazione nel campo, descritta in Se questo è un uomo, Primo Levi fa molte volte riferimento alla presenza di questa sua identità fluida: la professione di chimico sarà per lui garanzia di salvezza, poiché, all’arrivo a Monowitz, dopo il tempo trascorso a svolgere le “ordinarie” mansioni lavorative del Lager, verrà spostato all’interno del laboratorio della fabbrica di prodotti farmaceutici presente in quel luogo.
Essere un chimico era un privilegio perché gli aveva permesso di difendersi dalla fatica, dalla sofferenza del lavoro fisico e, soprattutto, dal freddo dell’inverno polacco; proprio per questo, la restituzione di quell’esperienza non poteva definirsi solo un prodotto letterario. La testimonianza di Levi è l’esemplificazione della complessità di un’anima ibrida che si serve di competenze apparentemente distanti dalla sfera puramente narrativa, per arricchirla e consegnarci la relazione scientifica di una parentesi storica che deve essere guardata dall’esterno, in modo tale da avvicinarsi ad una comprensione mai del tutto possibile.
Il racconto dell’uccisione dell’Ultimo, presente nell’omonimo capitolo di Se questo è un uomo, è una fotografia nitida, una relazione carica di una razionalità disarmante sull’annullamento della condizione umana che sfuma progressivamente giorno dopo giorno. In quell’urlo straziante che anticipa l’impiccagione del ribelle, in quelle precise parole “Kameraden, ich bin der Letze!” [“Compagni, io sono l’Ultimo”] c’è la concretizzazione di un progetto, c’è l’orgoglio umano dell’Ultimo di fronte ad una folla di visi chinati che non conservano nulla di umano, ma che si sentono ormai parte di quel traguardo concreto e tangibile che lo sterminio si era prefissato di raggiungere.
Tutto nel Lager doveva tendere all’eliminazione di qualsiasi traccia di umanità e il linguaggio, che rappresenta forse la più compiuta espressione delle capacità umane, era il mezzo privilegiato attraverso il quale il piano doveva compiersi. In un’ intervista che Primo Levi rilascia durante il suo primo viaggio di ritorno ad Auschwitz nel 1983, quaranta anni dopo la deportazione, egli si sofferma, con la sua consueta capacità analitica, sulle particolarità del linguaggio del campo.
Il tedesco degli ordini, che egli capiva perfettamente, era una lingua completamente diversa rispetto a quella appresa in ambiente accademico; le parole, distorte e deformate, esprimevano violenza, morte ed erano congeniali alla realizzazione di quella trasformazione del deportato in qualcosa di non umano. Levi fa riferimento, nell’intervista, al verbo “fressen” che quotidianamente sentiva nel Lager e con il quale si indicava il mangiare, mettendolo a paragone con “essen” che è il verbo che in tedesco si utilizza per indicare l’azione del mangiare compiuta dagli uomini. “Fressen” è il vocabolo che indica l’azione del mangiare dei cavalli, degli animali e rappresentava, secondo Levi, l’esempio quotidiano di quella costante operazione di degradazione dello spirito umano che Auschwitz stava realizzando.
Questi minuziosi e apparentemente insignificanti dettagli che sembrano stagliarsi sullo sfondo, ma che in realtà hanno caratterizzato la messa in discussione dei valori morali e culturali che Auschwitz ha portato con sé, vengono analizzati con l’attenzione maniacale che lo scienziato dedica alla descrizione dell’esito di un esperimento, rivelandosi come il vero punto di forza dello stile narrativo e dell’identità di Primo Levi.
In una preziosa intervista che egli concesse a Philip Roth e che fu pubblicata su La Stampa il 26 e il 27 novembre 1986, queste sono le parole con le quali Levi descrive la propria natura:
« Sono d’accordo con te sul fatto che “ho una sola anima senza saldature”, e ancora una volta ti ringrazio. La mia affermazione che “due anime sono troppe”, è per metà uno scherzo, ma per l’altra metà allude a cose molto serie. Ho vissuto in fabbrica per quasi trent’anni, e devo ammettere che non c’è contraddizione fra l’essere un chimico e l’essere uno scrittore: c’è anzi un reciproco rinforzo. Stare in fabbrica, anzi, dirigere una fabbrica, significa molte altre cose diverse e lontane dalla chimica: assumere e licenziare personale, litigare col padrone, con clienti e con fornitori. […] Tutti questi affari sono brutalmente incompatibili con lo scrivere, che esige una certa pace dell’anima; perciò mi sono sentito veramente “nato una seconda volta” quando ho raggiunto l’età della pensione ed ho potuto dare le mie dimissioni, rinunciando così alla mia anima numero uno. » (Intervista di Philip Roth a Primo Levi, La Stampa, 26 e 27 novembre 1986)
La complessità, chiamata in causa durante la restituzione di un’esperienza come quella di Auschwitz, già di per sé difficile da rendere chiara al lettore, sentiva la necessità delle lenti dello scienziato: Levi sapeva perfettamente che il progetto nazista avrebbe ridisegnato lo scheletro delle convinzioni morali della civiltà occidentale, sino ad allora mai completamente intaccate. Nelle dinamiche interne al campo fatte di zone grigie, di rovesciamenti di ruoli che si presentano come illusori biglietti per la sopravvivenza, quel famoso imperativo di Kant “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” sembra dissolversi al cospetto di un magma complesso e indistinto che rimette tutto in discussione.
Di fronte a queste continue difficoltà, un chimico-scrittore cerca di guidare passo dopo passo il lettore, presentando la realtà dei fatti senza ricorrere ad elementi portatori di ulteriore angoscia e turbamento o in grado di interferire con una narrazione analitica. Per perseguire questo scopo, Primo Levi è consapevole di dover far lavorare la sua “anima sola priva di saldature”, facendoci comprendere quanto l’identità di ognuno di noi sia complessa e non si riduca a definizioni semplicistiche o a continue catalogazioni.
Essere ibridi, possedere un’anima sola, non scissa è una ricchezza della quale ci si deve prendere cura e con la quale è necessario filtrare e comprendere ciò che ci circonda: per raccontare l’inferno di Auschwitz si è rivelato importante essere uno scrittore, ma altrettanto fondamentale è stato ricordarsi di essere uno scienziato che scompone l’oggetto che ha davanti, analizzandolo con la maggiore chiarezza possibile.
L’identità di Primo Levi, descritta da lui stesso come ibrida e per questo privilegiata, non si pone come un unico blocco purissimo: tutto è fluido, felice di contaminarsi e di dedicarsi alla ricerca di una profondità propensa a non concepire il pensiero come un cassetto chiuso a chiave.
L’autore di Se questo è un uomo ci fa comprendere quanto il confronto con una realtà complessa, impossibile da spiegare nel suo caso, esiga un approccio totalmente critico e un pensiero che non lavori a compartimenti stagni, ma confluisca in un unico sforzo d’analisi che si rivela profondo proprio perché si serve di sfaccettature inaspettate.
30 luglio 2020