Miseri piaceri privatistici di oggi sacrificano il piacere di imprese future e di un mondo nuovo, verso il quale solo la forza temeraria del pensiero filosofico può muovere.
Gli elementi fondamentali della concezione economica del capitalismo sono due: l'implementazione del proprio capitale, il libero mercato. Il libero mercato è concepito come il confronto – lo scontro – tra chi ha capitali per aumentare ulteriormente il proprio capitale. La ricompensa per il proprio sforzo è il conseguimento di ciò in cui consiste il valore supremo della nostra società: il denaro. La motivazione allo sforzo sta nel riconoscimento che si ottiene nel raggiungimento di ciò che maggiormente è stimato, nel riscontro sui risultati ottenuti con la propria impresa.
Ma per ottenere il riconoscimento – anche proporzionalmente a quello degli altri – non è necessario impossessarsi delle ricchezze del mondo e neppure ottenerle a qualunque altro costo. Produrrebbe lo stesso effetto la distribuzione di primati e riconoscimenti che rispecchino gerarchicamente il proprio contributo. Se la società si strutturasse in tal senso, il libero mercato diverrebbe il luogo della concorrenza non più per l'aumento della ricchezza personale, ma per l'incremento della ricchezza generale; e all'interno del libero mercato si verrebbe tanto più premiati quando più vi si contribuisse. La ricchezza generale allora non sarebbe più un obiettivo accidentale, ma precipuo. La ricchezza prodotta in termini di proprio profitto non cozzerebbe contro la ricchezza effettiva complessiva della nazione poiché il proprio conto in banca non comporterebbe la sottrazione di mezzi ad altri, come ora avviene.
Difatti, in che cosa consiste la ricchezza? Dalla produttività, determinata da vari fattori come la divisione del lavoro, l'allargamento dei mercati, lo sviluppo tecnologico. Se la produttività aumenta significa che produciamo gli stessi beni di prima con minor lavoro, significa che, quindi, abbiamo più capacità lavorativa a disposizione per produrre altri beni.
La società capitalista non è organizzata in modo tale che l'aumento della produttività liberi lavoro per fare dell'altro, ma lascia nella disoccupazione. La società capitalista non si preoccupa di mettere a frutto le capacità, le potenzialità lavorative dei suoi membri. Esse sono alla mercé accidentale e limitata del desiderio dei singoli che, avendo capitale da investire, si prodigano con lo scopo fondamentale di incrementarlo. L'assurdità di questa situazione è resa con efficacia da Keynes in suo saggio del 1933, Autosufficienza economica:
« Nel secolo XIX si sviluppò fino a un livello stravagante il criterio che, per brevità, possiamo chiamare del tornaconto finanziario, come test per valutare l'opportunità di intraprendere un'iniziativa di natura sia privata che pubblica. Ogni manifestazione vitale fu trasformata in una sorta di parodia dell'incubo del contabile. Invece di utilizzare l'immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, si crearono i bassifondi; e si pensò che fosse giusto e ragionevole farlo perché questi, secondo il criterio dell'impresa privata, «fruttavano», mentre la città delle meraviglie sarebbe stata, si pensava, un atto di follia che avrebbe, nell'imbecille linguaggio di stile finanziario, «ipotecato il futuro». Ma nessuno può credere oggi che l'edificazione di opere grandi e belle possa impoverire il futuro a meno che non sia ossessionato da false analogie tratte da un'astratta mentalità contabile. Eppure ancora oggi passiamo il nostro tempo, in parte invano ma in parte, devo dire, con successo, nel cercare di convincere i nostri connazionali che l'intero paese sarebbe sicuramente più ricco se il macchinario non utilizzato e gli uomini disoccupati fossero impiegati per la costruzione delle case di cui c'è bisogno piuttosto che ricevere un aiuto per rimanere oziosi. Infatti le menti di questa generazione sono ancora così offuscate da calcoli fasulli che esse non si fidano di conclusioni che sarebbero ovvie, se non si desse credito a un sistema di contabilità finanziaria che mette in dubbio il «rendimento» di tali iniziative. Dobbiamo rimanere poveri perché non «rende» essere ricchi. Dobbiamo vivere in stamberghe non perché siamo incapaci di costruire palazzi ma perché non possiamo «permetterceli».
La stessa regola autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni altro aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Probabilmente saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo. Londra è una delle città più ricche nella storia della civiltà, ma essa non si può «permettere» programmi più ambiziosi, alla portata dei propri cittadini, perché essi non «rendono». Se fossi oggi al potere cercherei subito di dotare le nostre principali città di tutto ciò che è connesso all'arte e alla civiltà al più alto livello raggiungibile da ciascun cittadino, convinto che sarei in grado di affrontare le spese di tutto ciò a cui darei vita; e fiducioso che il denaro così speso non solo sarebbe più opportuno di ogni sussidio di disoccupazione ma renderebbe inutile tale sussidio. Perché con quello che abbiamo speso in sussidi di disoccupazione dalla fine della guerra avremmo potuto rendere le nostre città le più grandi opere dell'uomo sulla faccia della terra. »
Questo perché – dicevamo – la società non è organizzata per far sì che la liberazione della capacità lavorativa sia impiegata. Tale problema è legato al precedente: capacità lavorativa liberata significa che una nuova organizzazione o una nuova tecnologia si sostituisce con maggior efficacia al lavoro svolto precedentemente, significa quindi che il costo del prodotto si riduce. Ma cosa accade? Che il suo prezzo non cala proporzionalmente, perché nell'aumentata differenza tra il costo di produzione ed il prezzo del prodotto consiste l'aumento del profitto dell'impresa. Questa è la fonte delle disuguaglianze.
Allora chiediamoci: ha senso che l'ideazione di una nuova organizzazione produttiva o la possibilità di acquisto di macchinari comporti la miseria di tanta parte dell'umanità? Evidentemente no. La motivazione non verrebbe meno se ci fosse un riconoscimento proporzionale ai propri meriti – in termini di guadagni, onori, ecc. – nell'aver aumentato la produttività e quindi aumentato la ricchezza generale, e potenziando la capacità lavorativa.
Oggi non è centrale studiare, controllare, regolare il rapporto tra l'aumento della produttività e il prezzo del bene prodotto. Sì che il prezzo può rimanere sostanzialmente invariato o subire delle modificazioni arbitrarie anche se diminuisce il lavoro necessario per produrre quel bene. I guadagni sono dunque proporzionali alla produttività, ma in modo tale che il consumatore paghi il prodotto come se la produttività non fosse aumentata.
L'assurdità del capitalismo è che non fa sì che, per esempio, in caso di aumento di produttività, le 20 persone impiegate lavorino meno o 10 di esse siano impiegate a fare qualcos'altro: esse rimangono semplicemente disoccupate. Se invece la società fosse regolamentata per verificare l'aumento della produttività, essa premierebbe bensì il merito di chi apporta tale contributi, ma non favorirebbe che chi ha avuto tale merito si faccia pagare per quel che non fa più e per una sottrazione della ricchezza generale.
Insomma, la remunerazione ha senso se avviene per ciò che si fa e per le idee che migliorano il proprio fare e quello degli altri. Mentre nel capitalismo ogni idea – prodotto del proprio lavoro di ricerca – è potenzialmente la confisca del lavoro degli altri.
Non solo: poiché l'obiettivo è proprio tale confisca – su cui si costituisce l'implementazione del proprio profitto, scopo del capitalismo –, da esso dipende il riconoscimento del proprio successo. Il fatto che si sia fatto qualcosa di buono o di cattivo per la comunità è del tutto accidentale rispetto al riconoscimento di avere avuto un'idea su come fare profitto. Per questo l'economista John Kenneth Galbraith, sintetizzando ironicamente la politica economica neoliberista, segnatamente quella reganiana, in un articolo apparso il 4 febbraio 1982 sulla “New York Review of Books” ebbe a dire:
« I poveri non lavorano perché hanno un reddito troppo alto; i ricchi non lavorano perché non è abbastanza alto. Espandi e rivitalizzi l’economia dando di meno ai poveri e di più ai ricchi. »
Questa logica paradossale del liberismo è possibile proprio perché, essendo lo scopo delle imprese quello di incrementare sempre il profitto e il tasso di profitto, se il bottino prospettato non è lauto rispetto all'esistente, la motivazione allo sforzo scema. Tale logica sostiene quindi che poveri e ricchi non si prodigano nel ricercare un lavoro perché stanno bene come stanno, e che il modo per rinnovare la motivazione consiste nel consentire ai ricchi di arricchirsi ulteriormente, poiché la concorrenza che consente di aumentare la produttività è riservata solo ai ricchi.
Logica che palesa a questo livello un altro paradosso: se da un lato la produttività può essere aumentata con la creazione di nuovi prodotti e quindi un aumento dell'occupazione, dall'altro – come abbiamo visto – il vero scopo del capitalista non è quello di liberare energie per una maggiore produttività, ma di imprigionarle per un maggiore profitto.
La vulgata liberista sostiene che nel sistema così delineato la concorrenza delle forze in gioco dovrebbe far sì che si abbassino i profitti perché i soggetti in competizione tenderanno ad abbassare i prezzi affinché vengano acquistati i propri prodotti e non quelli dei rivali: il congenito e reciproco ladrocinio dovrebbe consentire che esso si attenui; la volontà di ladrocinio dovrebbe invece consentire che la forza-lavoro abbandonata, superflua venga assorbita altrimenti. Non sarebbe invece il caso di ripensare il sistema economico affinché esso non abbia come base una rapina e uno sperpero di capacità e ricchezza?
Ciò comporta una ristrutturazione radicale del sistema economico attuale a partire proprio dalle sue categorie fondamentali, dai suoi princìpi. Solo una filosofia che metta in discussione il paradigma dominante può aprire una prospettiva alternativa entro la quale le scienze economiche e politiche possano ricalibrare e ripensare il proprio sapere. La posta in gioco è altissima e complessissima e richiede una profonda comprensione dell'ingiustizia e dell'assurdità dell'attuale sistema economico-sociale che sia compenetrata dalla conseguente volontà di perseguire il suo superamento impiegando le proprie energie su come coltivare e attuare in tutti gli aspetti particolari della nostra società quella prospettiva. Fintantoché non si penseranno seriamente le assurdità, le drammatiche contraddizioni del capitalismo che hanno caratterizzato questi due ultimi secoli, la volontà sarà impotente a intraprendere e a perseverare nell'ambizione di pensare e creare un capitolo nuovo del mondo. Una volontà misera, povera di sentimento e di pensiero continuerà ad obiettare – come siamo soliti sentire – beh, e come credi che...?, come se chi cerchi e inizi a pensare un nuovo mondo debba già avere tutte le risposte e abbia in sé racchiuso il filosofo, il filosofo politico, l'economista, l'economista politico, il finanziere, il politico, l'amministratore, l'imprenditore, ecc., e come se il fatto che non le abbia dimostri che questo sia il migliore dei paradigmi possibili. Oh povertà della volontà, oh miseria dell'ambizione, oh debolezza del pensiero! Si deve avere un pensiero forte affinché esso consenta di far fronte alle difficoltà che si incontrano nel proprio cammino e affinché le sconfitte momentanee non lo facciano desistere dalla conquista futura, affinché il suo sapere mostri di non mutare schizofrenicamente alle contingenze. Il coraggio è la capacità di osare per trovare, per provare soluzioni. La codardia è l'impotenza che arresta il pensiero, che abbandona la vita alla condizione in cui si trova. Detta all'inverso, con le parole di Wittgenstein:
« Si potrebbe fissare un prezzo per i pensieri. Alcuni costano molto, altri meno. E con che cosa si pagano i pensieri? Credo con il coraggio. »
Pensare in grande è pensare un grande futuro e il pensiero è tanto più forte quanto più resiste alle miserie che il presente gli fa innanzi.
«A parer mio – dissi –, il coraggio è una certa capacità di conservazione».
«Che tipo di conservazione?»
«Quella del criterio, generato in noi dall'educazione, delle cose che si devono temere, della loro e del loro carattere. E ribadisco quanto dicevo: “conservazione di questo criterio in ogni condizione”, in quanto lo si deve tener saldo, sia quando si è nei dolori, sia quando si è nei piacere o in preda alla paura, né va mai rigettato […]» (Platone, Repubblica, IV, 429C).
Una tale forza del pensiero è quella propria della filosofia che vede l'insieme e così abbraccia le possibilità future, muovendo dalle conquiste che il passato le ha mostrato possibili, superando le assurdità del presente. Bisogna allargare quanto più possibile lo sguardo, per non sacrificare la crescita delle possibilità future alla diminuzione delle certezze presenti. Senza filosofia si sceglierà la strada più facile, che però può essere e spesso è quella più funesta. Disposti a tutto per un vantaggio immediato e per eludere lo sforzo del pensare, ignari dell'inferno che si prepara. Ma affinché lo sforzo del pensare sia anche il piacere del pensare, c'è bisogna educarsi ad esso: esso deve divenire lo scopo sostituendosi allo scopo del profitto. Investire sul pensiero significa allora investire veramente sul profitto, quello futuro ed esteso a tutti, in cui le capacità di tutti vi contribuiscono per una ricchezza collettiva diffusa; investire nel profitto significa di contro limitarsi alla prospettiva limitata del proprio pensiero attuale, che garantisce un profitto ristretto a discapito delle possibilità future; e che per paura di perdere quel che ha è disposto a perdere qualsiasi cosa in una china spaventosa, di cui gli ultimi secoli sono stati testimoni: dai totalitarismi alle guerre mondiali, dai colonialismi alle catastrofi ambientali. È successo e continua accadere quanto 150 anni fa aveva compreso Burckhardt e annotato nelle sue Considerazioni sulla storia universale nel marzo del 1873:
« Il primo grande fenomeno che osserviamo […] è ancora l'aumento straordinario del senso del profitto […] un numero infinito di fonti di guadagno e di valori viene sfruttato, utilizzato, messo in azione; e tutto ciò è accompagnato con l'imbroglio e la frode connesse allo slancio della intrapresa economica. […]
Le masse vogliono vivere tranquille e far guadagni; se la repubblica o la monarchia può garantir loro queste cose, le masse staranno con la monarchia o con la repubblica; se no, i popoli daranno il loro favore e il loro aiuto, senza pensarci troppo, alla prima forma di Stato che prometta loro quei vantaggi. »
Solo la filosofia può far risvegliare dal sonno dogmatico e far vivere la realtà di un mondo migliore.
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Per approfondire questi temi e la filosofia
che soggiace allo sviluppo del capitalismo liberista.
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19 luglio 2020
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