Una ricerca archeologica, quella condotta da Matteo Negro nel suo nuovo saggio, che esamina le possibilità della dialettica tra politico e religioso nell'epoca post-secolare.
Rintracciare attraverso una ricerca filosofica archeologica i momenti decisivi della dialettica tra immanenza e trascendenza e perciò tra politico e religioso è la missione che Matteo Negro, professore ordinario di filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Catania, si riserva di compiere nelle pagine del suo ultimo libro dedicato all’intreccio tra Spazio pubblico e trascendenza (Studium, Roma 2020, pp. 176, euro 16,50).
Punto d’inizio per la ricerca è il pensiero di Thomas Hobbes che col suo Leviathan (1651) ha senza dubbio contribuito a dare forma politica alla modernità. Non è così un caso che le prime due parti del libro siano dedicate proprio a Hobbes e ai suoi maggiori studiosi e critici, tre nomi su tutti: Carl Schmitt, Norberto Bobbio, Leo Strauss. La terza e ultima parte si concentra invece a sviscerare alcune declinazioni d’intensa attualità di questa dialettica tra politico e religioso, e occorre segnalare per visione e profondità le pagine che indagano il tema del razzismo, dell'antirazzismo e dell'universale politico che chiudono il volume.
Proficua e notevole è l’intuizione che spinge Negro a procedere a una ricognizione minuziosa dei maggiori testi di Hobbes per evidenziare i punti di contatto esistenti tra questi e le posizioni della filosofia aristotelico-tomista, in particolare l’autore trova che
« [l]e analogie con Suárez […] sono davvero impressionanti e inattese, se solo si consideri che il teologo gesuita è stato uno dei più convinti difensori dell’ortodossia cattolica in aperto contrasto con la corona inglese. »
Analogie che
« si concentrano sul ruolo della legge naturale e della legge civile, sulla teoria dello stato e sulla figura del sovrano, senza trascurare alcuni passaggi cruciali relativi al diritto naturale dominativo. »
È attorno ai concetti di legge naturale e diritto naturale che è possibile cogliere i punti di congiunzione e così portare a riemersione il nucleo teoretico del pensiero del filosofo di Malmesbury.
Ancora più esattamente è nel riconoscimento del «valore negativo e limitativo della legge naturale» che per Negro possiamo scoprire o sarebbe meglio dire ri-scoprire un Hobbes «in piena sintonia con la formulazione scolastica d’ispirazione tomista». Intuizione questa avvalorata dallo studio di Hamilton del 1978 che ci consegna un Hobbes che nella biblioteca di Hardwick Hall ebbe l’occasione di entrare in contatto diretto e non mediato con l’opera di Tommaso d’Aquino.
La categoria di complexio oppositorum che pare dominare l’intera opera di Hobbes è per Negro anche una chiave ermeneutica, essa consente infatti una «compenetrazione costante di elementi irriducibili» e proprio questo permette all’autore di cogliere ed esporre un momento germinale di quella dialettica tra Politico e Religioso così caratteristica dell’epoca moderna.
Hobbes non nega la trascendenza della legge naturale anche se ovviamente la intende in maniera diversa rispetto a Tommaso e perciò Negro annota: «ciò che per Tommaso è il bene in quanto fine ultimo e non strumentale della vita umana, per Hobbes è la conservazione della vita individuale».
Impossibile ignorare il fatto che entrambe le posizioni abbiano in questo aspetto il proprio punto di convergenza e pongano così la legge naturale (anche se ridotta e concentrata come nel caso di Hobbes) come principio-limite al potere.
Per questa ragione Hobbes è per Negro è un “cattivo anti-metafisico” e sempre per lo stesso motivo è possibile individuare una continuità tra legge naturale e legge civile. Continuità che è chiaramente manifesta nella dialettica tra potentia absoluta e potentia ordinata e infatti non è certo un caso che è proprio nella figura del sovrano che la potenza acquista «parvenza di trascendenza». Non bisogna però mai dimenticare che il potere assoluto del sovrano promana dal pactum subiectionis e non è mai precedente ad esso.
Ragion per cui teologico e politico nell’opera di Hobbes stanno sempre dentro uno schema circolare al contempo dinamico e vitale.
«La norma naturale è propriamente norma per l’agire, non norma dell’agire» perché attraverso il pactum subiectionis i sudditi non rinunciano al proprio potere ma più esattamente lo trasferiscono e così facendo per quanto possa sembrare paradossale essi si trovano nella condizione di poter finalmente disporre efficacemente della libertà che non è inibita ma “potenziata”.
Grazie a questo trasferimento il sovrano aumenta esclusivamente il potere dominativo e non quello precettivo e resta infatti limitato come i sudditi, dalla legge di natura.
Nello spazio pubblico che consegue al patto, legge di natura e diritto naturale che nello stato di natura si muovono parallelamente, finalmente si incontrano in una dialettica circolare tra auctoritas e potestas e così la trascendenza può non solo conservare il suo posto nel mondo, quanto soprattutto essere il fondamento metafisico dell’obbligazione perché:
« [i]l cuore della norma, il suo contenuto, è offerto dalla natura, ed è come risaputo, il bonum sibi. Il soggetto comanda a sé stesso il proprio bene, quel bene che nell’ambito dell’immanenza cui la ragione ha accesso è costituito dalla conservazione della vita del corpo. Questa non è un dovere perché è un fine dell’agire, ma è un fine dell’agire perché è il contenuto di un’obbligazione normativa. In questo senso la legge naturale non è regola di prudenza, né procede dall’immanenza dell’esperienza. La norma naturale è pertanto trascendente e, per analogia, ha la forza di un comando divino […]. »
Matteo Negro riesce così a mostrarci l’altra faccia del Leviathan di Hobbes e cioè la sua anima trascendente e il pregio della sua interpretazione è che è tanto più originale proprio nella misura in cui è capace di riannodarsi alla tradizione della metafisica.
La modernità è invece lo spazio in cui ogni riferimento alla trascendenza è pian piano immanentizzato in un processo progressivo in cui il Politico tenta di espellere o assorbire il Religioso, anche se «[i]l massimo distacco dal religioso che la modernità ha saputo realizzare è […] collegato alla risemantizzazione della laicità, cioè ad una presa di significato di segno negativo, che non fuoriesce dal perimetro del pensiero cui si oppone».
Ogni tentativo di riassorbimento o di espulsione del Religioso è così vano, perché «nella modernità il teologico è la radice stessa del politico».
L’ultima parte del volume di Negro raccoglie tre saggi su potere, trascendenza e secolarizzazione e muove proprio dalle constatazioni sopra menzionate, mostra inoltre con inesorabile lucidità il rischio conseguente alla progressiva e apparentemente inarrestabile spoliticizzazione della religione che per converso radicalizza il fenomeno religioso e lo porta a trovare inedite alleanze con quelle «realtà che oggi più che mai sono generate e potenziate dalla crisi del politico».
Col secolarismo assistiamo infine per Negro a una «metamorfosi ontologica» e in questione non sono solo i temi supremi della filosofia ma le nostre stesse esistenze perché il pericolo è quello di restare impigliati nella ragnatela totalitaria dell’immanenza in cui l’alterità non potrebbe più essere rappresentata come differenza.
Senza una riattivazione della dialettica tra immanenza e trascendenza che resti in equilibrio nella complexio oppositorum per tenere in una relazione di vitale dinamismo sia il Religioso che il Politico e di conseguenza alterità e pluralità nella totalità è probabile che il processo di immanentizzazione della post-secolarizzazione possa sfociare in processi caratterizzati da una violenza progressiva quanto lo stesso processo e assolutamente incontrollabile, illimitabile e inimmaginabile.
Un esito catastrofico che è possibile evitare coltivando il pluralismo che è figlio legittimo della secolarizzazione e che riesce a mantenere attiva la nozione di trascendenza seppur soltanto quando essa sia incarnata nella forma storica dell’immanenza.
9 luglio 2020
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