Come esplicita Wittgenstein, «Il lavoro filosofico è propriamente – come spesso in architettura – piuttosto un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose. (E su che cosa si pretende da esse)».
Dopo la pubblicazione del Tractatus logico-philosophicus, Ludwig Wittgenstein, convinto di aver risolto definitivamente i problemi della filosofia, si allontanò per diversi anni dalla speculazione filosofica. Nel 1929, anno del suo “ritorno alla filosofia”, Wittgenstein iniziò a comporre il Big Typescript, un’opera che si inserisce nella seconda fase del suo pensiero, in quanto gli servì come base di riflessione durante la stesura delle Ricerche filosofiche (Rf). Essa fu in parte pubblicata postuma nel 1969, dove vennero esclusi quattro capitoli, tra i quali uno intitolato Filosofia. Questo capitolo, pubblicato solo nel 1989, è un ampio e rilevante agglomerato di considerazioni su ciò che la filosofia è e sui metodi da essa adottati.
Nella Filosofia (F) – come in tutto il “secondo” Wittgenstein – viene proposto un nuovo modo di concepire l’attività filosofica. Wittgenstein non darà mai una descrizione dettagliata del suo metodo, ma si riferirà ad esso perlopiù tramite metafore: tra cui quelle del “mettere in ordine”, del “ricordare e recuperare” e del “mettere cartelli indicatori”.
La filosofia, in questo nuovo metodo, è un’attività – non una dottrina – e ha una funzione puramente descrittiva, infatti egli sosteneva che «Ogni spiegazione dev’essere messa al bando, e soltanto la descrizione deve prendere il suo posto» (Rf, 109). Essa deve quindi esporre chiaramente i fatti linguistici. Le varie espressioni dell’uso del linguaggio devono essere poste a confronto, evidenziando tutti i modi in cui tali espressioni sono usate in base al contesto o alla circostanza. Questi diversi modi di utilizzo di una espressione sono chiamati da Wittgenstein giuochi linguistici (Sprachspiel, -e): essi, all’interno del nuovo metodo, sono «termini di paragone, intesi a gettar luce, attraverso somiglianze e dissomiglianze, sullo stato del nostro linguaggio» (Rf, 130). I giochi linguistici sono modi semplici e completi di utilizzare le parole: essi evidenziano un particolare modo di intendere e di servirsi dei componenti del nostro linguaggio, sottolineandone il contesto di attività. Un gioco linguistico, inoltre, rimanda a un sistema di regole, il quale, appunto, delimita – anche se non necessariamente in modo definitivo – l’uso delle parole all’interno di un gioco linguistico.
Esistono innumerevoli giochi linguistici ed ognuno di essi permette di mettere in risalto un certo uso delle parole da confrontare con l’uso all’interno degli altri giochi. Questi usi non hanno un elemento fondativo in comune tra loro: vi è, piuttosto, una sorta di parentela, somiglianza. Tale somiglianza, ci suggerisce Wittgenstein, è la stessa che intercorre tra tutto ciò che noi definiamo “gioco”:
« se li osservi [i vari giochi], non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie. Come ho detto: non pensare, ma osserva! – » (Rf, 66)
Ciò costituisce tra i giochi linguistici una somiglianza di famiglia (Familienähnlichkeit, -en). Concludendo, i giochi linguistici, all’interno del nuovo metodo di Wittgenstein, moltiplicano i nostri modi di guardare al linguaggio e ce lo mostrano nella sua molteplicità.
In tal modo la grammatica delle espressioni linguistiche – il loro uso, e quindi il loro significato – sarà esibita chiaramente, al fine di ottenere una rappresentazione perspicua (übersichtliche Darstellung).
Il vantaggio di questo metodo è duplice: permette di vedere chiaramente il funzionamento del linguaggio, mettendo in risalto le distinzioni che solitamente trascuriamo e, contemporaneamente, dissolve i problemi filosofici sorti dalla nostra confusione. Inoltre, essendo un metodo descrittivo che non pretende di individuare un’essenza, la filosofia può ora progredire tranquillamente, e fermare il suo elenco di giochi linguistici quando preferisce. Ciò significa che la filosofia non ha un limite definitivo, ma, per Wittgenstein, «La vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio» (F, p. 75).
Wittgenstein, per l’elaborazione di questo nuovo metodo, si ispirò a due famosi autori tedeschi: Johann Wolfgang von Goethe e Oswald Spengler. Goethe infatti utilizzò un simile metodo – da lui definito “morfologico”, per la sua stessa struttura – nello studio dei fenomeni naturali, mentre Spengler lo adottò per l’analisi dei fatti storici nel suo Tramonto dell’Occidente. Entrambi gli autori ruppero con la tradizione: Goethe si contrappose al meccanicismo newtoniano, Spengler alla storiografia evoluzionista. Anche Wittgenstein, si può osare dire, contrappose la sua visione filosofica e il suo nuovo metodo a tutta la filosofia a lui precedente e contemporanea – soprattutto al “se stesso” del Tractatus.
Per Wittgenstein questo “metodo morfologico” è l’unico che permette di mostrare la logica del linguaggio: esso non formula una teoria del linguaggio, ma si limita a descriverlo. I termini di paragone adottati da Wittgenstein sono i giuochi linguistici.
L’“immaginare” è un altro nuovo metodo di Wittgenstein. Esso consiste nell’inventare usi nuovi delle parole, ovvero nuovi giochi linguistici, che fungeranno da “membri intermedi” e saranno poi confrontati con i giochi linguistici che siamo soliti usare. Così facendo, il problema (l’illusione) che si crea nel momento in cui si pensa di essersi impadroniti dell’uso di una parola, viene eliminato, poiché esso viene esteso a tutti i suoi casi di utilizzo e l’illusione viene dissolta nel momento in cui tale estensione si mostra chiaramente. Un nuovo gioco linguistico ci costringe a considerare un determinato caso in modo differente. L’immaginazione orienta quindi la nostra attenzione a ciò che è per noi invisibile in quanto abituale, ovvero a regole, immagini e concetti base.
Il nuovo metodo di Wittgenstein è però un metodo tutt’altro che agevole. La sua difficoltà principale risiede nel fatto che
« gli aspetti filosoficamente più importanti delle cose //del linguaggio// sono nascosti dalla loro semplicità e quotidianità. (Non riusciamo a notarlo perché l’abbiamo sempre (aperto) davanti agli occhi.) » (F)
Il linguaggio ci è quindi tanto famigliare quanto estraneo e l’errore di tradire il compito descrittivo della filosofia per un’elaborazione di qualche teoria linguistica è dietro l’angolo. Inoltre, tutti noi possediamo un’immagine troppo semplificata del linguaggio. L’errore è dovuto alla grammatica superficiale, ovvero alla parte più visibile del linguaggio: pertanto il fraintendimento si perpetua continuamente. Ciò causa l’immobilità della filosofia, la quale viene privata di ogni tipo di progresso. Ogni risultato che la filosofia guadagna nei confronti del fraintendimento linguistico dovrà essere di volta in volta riconquistato da ognuno di noi.
« La ragione è che il nostro linguaggio è rimasto lo stesso e che ci induce a porre sempre ancora le stesse domande. […] gli uomini incapperanno sempre nelle stesse misteriose difficoltà, e si fisseranno su ciò che nessuna spiegazione sembra poter rimuovere. » (F, p. 57)
La filosofia del “secondo” Wittgenstein è, per così dire, una autoterapia. La malattia che non cessa di diffondersi è il “problema filosofico”, generato dalla nostra confusione nei confronti della complessità del linguaggio e dei suoi giochi linguistici. La cura è la filosofia “descrittiva”, ovvero l’attività filosofica proposta da Wittgenstein, la quale individua – tramite l’utilizzo dei giochi linguistici – l’origine del malessere e corregge la “sgrammaticatura”, riportandola a una forma corretta. In tal modo lo stesso problema filosofico, passando dalla disorientante «forma: “non mi ci raccapezzo”» (Rf, 123), svanisce nel nulla. Tale terapia però non potrà mai risultare definitiva, poiché è come se essa si trovasse a combattere un virus che, a mano a mano, diviene invulnerabile alla cura precedentemente proposta, rinforzandosi e costringendo il medico-filosofo a riprendere in mano la situazione. Wittgenstein scrive infatti: «Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire, differenti terapie» (Rf, 133). Tali terapie consistono nel riportare «le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano» (Rf, 116), ovvero riportare il linguaggio dall’erronea “unica” concezione al molteplice contesto del suo uso, senza presumere di aver scoperto nulla. La filosofia è quindi intesa da Wittgenstein sia come malattia portatrice di paralizzanti grattacapi, sia – se bene utilizzata – come possibilità di cura e strumento con cui liberarsi dall’incessante malessere.
4 luglio 2020