Il rapporto fra la verità e la violenza è una questione dibattuta da secoli, i cui ultimi sviluppi postmoderni sembrano evidenziare la necessità di abbandonare la presunzione di esser nel vero per raggiungere una società pacifica e libera da prevaricazioni. Tale posizione non è scevra da contraddizioni e da ricadute sull'etica individualista che affligge la nostra società.
« Un’immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio, e questo sembrava ripetercela inesorabilmente. » (Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche)
Abbandonare la Verità significa abbandonare la Violenza? La radice della Violenza sta nella Verità? Sono due domande che, in soldoni, riassumono una tesi postmoderna che aleggia, in differenti forme, nel dibattito filosofico da ormai diversi anni. In questo breve scritto si vuole dimostrare come questo spettro filosofico pecchi di almeno due errori prospettici, che rendono quantomeno inefficace la “strategia” dell’abbandono della Verità come presupposto per una società “pacifica”.
La tesi della radice quasi intellettualistica della violenza nasce guardando agli orrori causati dalle ideologie e dalle pseudo-scienze (come quella nazista) del Novecento. La Verità genererebbe una distanza abissale tra chi la detiene e chi non la detiene, e tale distanza è il presupposto e la legittimazione per la prevaricazione. L’idea è dunque quella di sostituire il pensiero “forte”, centrato sulla ricerca di verità universali, con un pensiero “debole”, indifferente al richiamo dell’universalità. Non si tratta di abolire il pensiero ma di ridefinirne lo statuto epistemico in modo tale da minare ogni pretesa legittimità di un qualsiasi atto prevaricatorio nei confronti di chi è designato come “nemico”, “inferiore” o comunque “altro” dal pensiero stesso.
Qui risiede il primo problema: la carica prevaricatoria, che pure esiste, del pensiero, risiede nei suoi contenuti e non nel suo statuto epistemico. Il pensiero della superiorità razziale, tanto per fare un esempio, ha in sé una “pericolosità” che prescinde dalla forma che prende, sia essa quella di opinione, di verità storica, di verità razionale-teoretica, di verità fideistica e così via. La forma dell’opinione può bastare e avanzare per legittimare atti sopraffattori, e anzi può fungere da scudo per il pensiero nel caso di obiezioni razionali. Non si tratta solo di esporre una possibilità empirica, bensì di evidenziare che il focus attentivo del nostro obiettivo polemico, la lettura postmodernista della violenza, è completamente sfalsato rispetto alla reale radice dell’atto violento. Anche nella sua veste esistenziale scettica, ossia quando inteso come base prettamente ermeneutica dell’attività nel mondo, il pensiero non perde la carica violenta di cui sopra, o meglio non vi è alcuna garanzia che la perda. D’altronde, considerando la Verità per come la grammatica filosofica tradizionale ce l’ha consegnata, e per come il pensiero postmoderno la rigetta, essa è una condizione descrittiva, non normativa. Se intendiamo la Verità come corrispondenza di pensiero e fatto (intendimento che accettiamo per motivi storiografici, non per altro), è comunque un transitus de genere ad genus l’attribuire all’attività predicativa sul mondo, che, seguendo la grammatica che abbiamo deciso di adottare, è l’attività di “generazione” della Verità, una connotazione normativa. Descrizione e normazione sono due discorsi da tenere assolutamente separati, anche nella critica. È possibile partire da una medesima asserzione descrittiva (o sistema ordinato di asserzioni descrittive) e giungere a normazioni differenti, contraddittorie, o anche all’assenza di normazioni, pur conferendo ogni volta lo stesso statuto epistemico alle suddette asserzioni. La radice della nostra critica in questo aspetto è, in fondo, la famosa questione della legge di Hume: come scriveva il filosofo scozzese nel suo Trattato sulla natura umana, «in ogni sistema di morale […] tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule “è” e “non è” incontro solo proposizioni che sono collegate con un “deve” o un “non deve”; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza». Il punto è che è la normazione, che viene dunque dopo quell’attività “generativa” della Verità (l’attività descrittiva), a pre-determinare l’atto. Possiamo dire che, in questo senso, la Verità è muta, e così la pretesa di Verità, perché non possiamo dedurne nulla su cosa fare, su come agire.
In ogni caso, tornando alla questione pragmatica dell’insufficienza “strategica” della lettura postmoderna, bisogna segnalare la possibilità dell’obiezione per cui un superamento della forma di Verità incontrovertibile ed universale potrebbe, tendenzialmente, indebolire la legittimazione che sottende ogni atto, se non eliminarla. Questa obiezione, segnalata per lealtà più che per significatività, è palesemente debole in quanto poco stringente e in quanto, per sussistere, deve appoggiarsi tautologicamente sulla convinzione che esista una corrispondenza tra il “grado di verità” di un discorso e il “grado di legittimità” che questo discorso conferisce all’atto, convinzione a dir poco arbitraria e, probabilmente, ancorata alla contingenza storica, nello specifico alla critica del razionalismo moderno.
Il secondo problema della correlazione (o meglio della causazione) Verità-Violenza è un problema etico che si palesa meglio tramite una chiarificazione linguistica. Il problema etico è che la prevaricazione, e, se vogliamo, l’immoralità, non nasce per ferocia idealistica ma per puro egoismo. Se possiamo, ad esempio, passare giorni a contare tutti gli orrori che sono stati commessi in nome di Dio, questa operazione sarebbe impossibile per tutti gli orrori commessi in nome dell’Io. La chiarificazione linguistica di cui si accennava ci è offerta da Helmut Plessner nel suo breve saggio Disumanità, contenuto in Al di qua dell’utopia. In quel saggio, Plessner sottolineava utilmente la differenza che c’è tra un generico “male”, la sofferenza inferta ad altri per i più svariati motivi riconducibili alla volontà personale, e la “disumanità”, la sofferenza inferta ad altri in nome di una causa astratta, ideale. Nella lettura postmoderna domina, parallelamente alla problematizzazione del secondo fenomeno, una de-problematizzazione del primo. Questo squilibrio è pressoché un inedito storico, dato che il problema dell’immoralità, per come inteso almeno dalla nostra tradizione (ma si potrebbe azzardarsi a parlare dell’umanità intera, anche solo a livello tendenziale), è il problema della ricomposizione dei contrasti tra l’Ego e l’Altro. Il Diavolo della tradizione giudaico-cristiana non dice “fai il male” ma “fai ciò che vuoi”, “senza curarti degli altri” aggiungiamo noi. Se la letteratura filosofica dell’ultimo periodo si è concentrata sui rapporti tra diverse culture, giustificando questa “virata” con le sfide di convivenza di tradizioni diverse che ci propone una società globalizzata, e dunque l’attuale momento storico, sembra invece essersi dimenticata di un problema a-storico e culturalmente trasversale. Il problema del rapporto tra volontà dell’Io e necessità dell’Altro è un problema che si dà col darsi stesso dell’Uomo. Se questa seconda problematica sembra essere “secondaria” (si perdoni il gioco di parole), nel senso che pare trattarsi di un semplice disimpegno intellettuale, possiamo in realtà vederne gli effetti nel nostro contesto attuale. La società occidentale del XXI secolo sembra essere abbastanza recettiva alle suggestioni postmoderne. Non è importante qui capire se si tratti di un percorso parallelo, di un mondo che genera le idee o di idee che “plagiano” il mondo: forse c’è un po’ di tutto. Ciò che è importante constatare è che, in effetti, quella attuale sembra essere una società ben armata e vaccinata contro ogni forma di disumanità, che, come abbiamo potuto capire con Plessner, è il vero, circoscritto, obiettivo polemico della narrazione che qui critichiamo. Certo, si tratta di una terapia lunga e non priva di arretramenti, e tuttavia pare che la direzione tendenziale sia quella di una società che abbia escluso o quantomeno marginalizzato ogni disumanità. Ogni atto di prevaricazione culturale, così come ogni tentativo di mortificazione dell’Altro per motivi ideologici, difficilmente passa inosservato, tanto che alle volte capita che si voglia scovare un atto di questo tipo laddove non c’è. Diversamente, si fa strada la legittimazione dell’egoismo, nella forma insidiosa dell’eliminazione di ogni idea di responsabilità verso l’Altro. La più evidente manifestazione di questo abito di pensiero è quella che potremmo definire “l’estetica del male”, ossia le rappresentazioni artistiche (soprattutto cinematografiche) di atti o personaggi genericamente “immorali”. Ovviamente la scelta dell’argomento è qui metodologica: usiamo questa “estetica del male” come epifenomeno per indicare le tendenze culturali, in materia etica, del nostro tempo, e fare dunque del criticismo culturale.
Rivolgendoci, da profani, al cinema, notiamo come, sebbene esista una lunga tradizione di rappresentazioni cinematografiche di criminali, che vanno da “Borsalino” fino a “Escobar”, ben meno numerose o comunque meno di successo sono le rappresentazioni di fanatici et similia, di coloro che compiono atti generalmente “immorali” in nome di un’idea o comunque appellandosi ad una legittimazione astratta. Non è l’immoralità di per sé a fare scandalo quanto i motivi che si celano dietro di essa. O, più precisamente, la violenza commessa per raggiungere i propri scopi individuali, quella violenza che non nega il dialogo ma nega la volontà stessa del dialogo, è una violenza con la quale il soggetto contemporaneo, più o meno segretamente, si può immedesimare, con la quale è a suo agio. Onde evitare fraintendimenti, è necessario rilevare come non sia assolutamente un male che esista una simile cinematografia, come non è assolutamente un male che l’uomo contemporaneo non ne sia scandalizzato. Senza questa cinematografia avremmo perso opere d’arte meravigliose e il giusto rapporto con determinati argomenti non passa certo per lo scandalo e il perbenismo. È da notare, tuttavia, che non siamo una società totalmente libera dai tabù, anzi. L’immediato presente vede lo sviluppo di nuovi tabù comportamentali, linguistici, culturali, tutti legati alla condanna, spesso intesa come censura comportamentale più che come convincimento dialogico, di qualsiasi atto motivato da quella “prevaricazione di radice intellettuale” di cui stiamo parlando. L’attenzione, spesso ossessiva, al politicamente corretto, che è un “pubblicamente corretto”, denota come il corrente processo moralizzatore abbia spesso molto a che vedere con l’istituzione di un nuovo comportamentismo, e dunque con l’istituzione dei tabù, piuttosto che con la decostruzione razionale di quei pericolosi nuclei concettuali (primi tra tutti il razzismo e il sessismo) che pure sono ancora presenti, anche se fortunatamente in declino, nella nostra società. Anche qui non si tratta di fornire valutazioni sul movimentismo che sta combattendo qualsiasi forma di prevaricazione che, rispettando la semantica che abbiamo deciso di adottare, dovremmo riportare entro la categoria di “disumanità”: non è questo l’intento né la sede. Si vuole solo analizzare come il mondo occidentale sembra riprodurre gli squilibri della narrazione con la quale ci siamo qui confrontati, problematizzando il proprio rapporto con la violenza intellettuale ma normalizzando il proprio rapporto con la violenza volontarista, e ciò non per una generica anomia sociale che genera la morte di ogni tabù ma per un preciso difetto posturale. Non è necessario soffermarsi ad esaminare le cause di tale difetto: si vuole fornire una critica concettuale, non storica. Resta tuttavia necessario segnalare il bisogno di un’etica che raccolga la sfida “satanica” dell’obbedire solo a se stessi, al fine di rifondare (o di recuperare) un’etica che non sia solo un’etica del lontano, del diverso, ma anche un’etica del vicino e del simile. È necessario, ora più che mai, riprendere la sfida di un’etica della prossimità e della censura dell’egoismo.
10 agosto 2020
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