Il lavoro del filosofo

 

Quante volte chi frequenta un corso di filosofia si è sentito rivolgere la famosa e classica domanda su che professione vuole svolgere? Infatti, a differenza delle altre professioni, in che cosa consista il "lavoro filosofico" rimane spesso indeterminato. Cercheremo di rispondere qui brevemente a questa questione.  

 

di Alessandro Tosolini

 

"Testa del Filosofo", Museo archeologico di Reggio di Calabria (450-400 a.C.)
"Testa del Filosofo", Museo archeologico di Reggio di Calabria (450-400 a.C.)

 

Quante volte chi frequenta un corso di filosofia si è sentito rivolgere la famosa e classica domanda su che professione vuole svolgere? Infatti, a differenza delle altre professioni, in che cosa consista il "lavoro filosofico" rimane spesso indeterminato. Cercheremo di rispondere qui brevemente a questa questione.

 

Partiamo da Il mestiere di pensare di Diego Marconi, un piccolo libretto del 2014. In questo breve saggio, Marconi tenta di rispondere a molte domande sulla natura del lavoro filosofico. Il punto di partenza per la riflessione di Marconi è il crescente specialismo della ricerca filosofica. Secondo Marconi, non può più darsi il filosofo come "genio creativo", ma, data la crescita quantitativa dei filosofi e delle proposte, solo il professionista della filosofia, che si occupa di un campo necessariamente ristretto di tematiche. Sarebbe infatti impossibile per una sola persona dominare l'attuale campo della ricerca.

 

Marconi però riesce a cogliere anche i lati negativi di questo fenomeno, ovvero l'incapacità di una filosofia di questo tipo di esercitare un'influenza culturale. Pur essendo anche'egli un filosofo analitico, ammette che il tipo di ricerca specialistico che i filosofi analitici svolgono risulta in questo modo non solo inaccessibile al pubblico, ma anche alle stesse "élite culturali" o agli specialisti di altre discipline. Purtroppo la sua proposta per superare quest'impasse si limita ad una richiesta di un maggior impegno dei filosofi nella divulgazione. E anche in questo modo la filosofia rimarrebbe, per Marconi, un'attività destinata comunque solo ad élite culturali e quindi inaccessibile alle masse.

 

Un altro problema dello specialismo è «lo smarrimento del quadro dei problemi in cui si inserisce la propria ricerca». Ovvero, Marconi non può non notare come lo specialismo della filosofia analitica, oltre a rendere la filosofia inaccessibile al pubblico, fa perdere anche il senso generale della propria ricerca. Proprio quel conferimento di senso e quella visione generale che dovrebbe essere il cardine della filosofia.

 

Tuttavia, anche in questo caso, Marconi non è in grado di fornire una soluzione soddisfacente. A nostro parere, non può fornirla in quanto pur cercando di superare e dare un senso alla filosofia che sia ulteriore alla mera ricerca specialistica, rimane prigioniero di due "dogmi" sostanziali:

1) Ritiene che il processo di crescente specialismo nella filosofia sia un fenomeno inarrestabile, dato dalla stessa evoluzione della ricerca scientifica e filosofica e che bisogna piuttosto accettare e cercare di migliorare (appunto attraverso la divulgazione).

2) Ritiene che la filosofia sia comunque un'attività elitaria, che non possa dunque rivolgersi alle masse, se non in quella che lui disprezza (non senza qualche ragione) come "filosofia mediatica".

Riteniamo che questi due "dogmi" siano tutt'altro che scontati.

 

Ora però, per necessaria parcondicio, ci rivolgeremo ad un testo di uno degli acerrimi nemici del filosofo analitico, un filosofo "continentale". Il testo si chiama Dopo Heidegger. Filosofia e organizzazione della cultura di Mario Perniola. Questo testo, molto più datato di quello di Marconi in quanto è stato scritto nel 1982, ci permette di ampliare il nostro orizzonte, spostando il problema del lavoro filosofico da un'astratta ricerca della verità al rapporto con l'organizzazione della cultura, e quindi con la politica e la società.

 

Perniola, oltre a fornirci un quadro storico molto più dettegliato di quello di Marconi, lega anche indissolubilmente il ruolo del filosofo con l'organizzazione culturale. Per Perniola ci sono sostanzialmente cinque modi di intendere il rapporto tra filosofia e organizzazione della cultura.

 

Il primo è quello proprio della metafisica, che si esprime poi a livello politico-culturale nell'organizzazione ecclesiastica. La metafisica, secondo un'interpretazione classicamente heideggeriana, pensa l'essere come l'ente, allo stesso modo di come l'organizzazione ecclesiastica pensa la società in maniera rigida, annullando le differenze.

 

La seconda modalità è quella dell'umanismo, che ha come suo referente politico-culturale il partito. Che sia un partito liberale, cristiano o financo comunista, questi hanno sempre come riferimento filosofico un concetto di umanità universale.

 

La terza modalità è quella della scienza, che si esprime nella prassi politico-culturale come organizzazione scientifico-professionale. Ovvero la scienza, che, secondo Perniola, pensa l'essere in quanto oggettività, non può che esprimersi a livello dell'organizzazione della cultura in una razionalizzazione sempre più oggettiva del lavoro, che è data dalla sua crescente professionalizzazione.

 

Il compimento di tutte queste tre modalità giunge con la quarta, che è quella dialettico-statale. La dialettica è il culmine di scienza, umanismo e metafisica, e riesce ad unificarle e superarle tutte in una visione storica e mutevole della realtà. Essa trova la sua espressione nella Stato moderno inteso come suprema e più razionale forma di governo, che è compimento di tutte le forme organizzative precedenti e si giustifica da sé attraverso la sua razionalità e le sue leggi.

 

Tuttavia vi è un ulteriore e finale compimento nel rapporto fra filosofia e organizzazione della cultura, che è quello nichilistico-populistico. Per Perniola infatti il nichilismo, che pensa la volontà di potenza come origine di ogni filosofia o organizzazione della cultura, è indissolubilmente legato col populismo, che pensa il popolo come supremo giudice di ogni dottrina, cultura o filosofia. Questa nuovo nesso filosofia-organizzazione culturale rende obsolete tutte le forme di organizzazione culturale precedenti, compresa quella dialettica-statale.

 

Questa lettura storico-metafisica di Perniola è sicuramente interessante nel tenere insieme il legame tra filosofia e organizzazione della cultura. In essa infatti il filosofo non viene pensato, come con Marconi, come un astratto ricercatore di verità, ma il suo lavoro viene anche legato ad una prassi politico-culturale concreta. I difetti però di questa lettura sono molti. Infatti questo rapporto viene inteso in maniera sostanzialmente "destinale" e heideggeriana, ovvero ogni filosofia è necessariamente destinata a produrre quella determinata organizzazione della cultura e viceversa, senza vedere i processi e i legami contraddittori tra l'una e l'altra.

 

Un altro difetto di questa impostazione è il suo retroterra postmoderno, come si vede anche nella soluzione proposta da Perniola. Infatti, contro le pretese della filosofia e dell'organizzazione della cultura «di imporre la loro identità socio-razionale», si propone un pensiero dell'origine e della differenza, un sincretismo che assimili la realtà senza dominarla. Questa visione, che abbandona proprio l'interessante connubio tra filosofia e organizzazione della cultura che era stato inizialmente posto, dà per scontata e assume come irreversibile l'isolamento del filosofo rispetto al suo contesto sociale, in piena linea con il Pensiero Debole dominante in quegli anni.

 

Partendo dall'impostazione di Perniola, potremmo abbozzare una diversa conclusione sulla filosofia e l'organizzazione della cultura attuali. Potremmo affermare che la filosofia attualmente dominante è quella postmoderna, mentre l'organizzazione politico-culturale corrispondente è quella neoliberale-capitalistica. Il capitalismo, nell'attuale stadio, prentende di fare a meno del lavoro filosofico, rendendolo sempre più subordinato e irrilevante. A questo quindi corrisponde una filosofia che si vuole "spontanea", quella postmoderna, che da una parte giustifica il sistema esistente eternandolo, dall'altra propone una visione della filosofia come "gioco" o come astratta consolazione.

 

Ne potrebbe conseguire, da questo punto di vista, che il ruolo del filosofo dovrebbe consistere nel superamento e nella critica di questi due modi di intendere la filosofia e l'organizzazione della cultura. Ciò non può accontentarsi di un lavoro specialistico e al massimo divulgativo, di cui parlava Marconi, ma anzi deve superare la visione ristretta ed elitaria della filosofia per rivolgersi alle masse. Solo attraverso questo processo il filosofo può superare l'ambito ristretto e subordinato in cui la cultura postmoderna e il capitalismo lo relegano e collegare la filosofia con un'effettiva prassi sociale.

 

Per non rimanere meramente nell'astratto, il lavoro filosofico potrebbe partire e trovare una sua prassi concreta nella resistenza all'aziendalizzazione e alle riforme neoliberali all'interno delle istituzioni scolastiche, come ad esempio l'alternanza scuola-lavoro, e nella critica alla sempre più crescente precarizzazione; tutte questioni che supererebbero il mero solipsismo e l'isolamento del filosofo e lo metterebbero in contatto con le masse (lavoratori precari della scuola, studenti, insegnanti ecc.).

 

In questa maniera la filosofia cessa di essere quell'impotente consolazione filosofica a cui ci hanno abituato il postmoderno e il "counseling filosofico" per ritrovare, come nelle migliori filosofie del passato, una sua effettività pratica, che riesce a sposarsi con il lavoro quotidiano di insegnante o perfino ancora di studente, che sia nelle università o nelle scuole secondarie.

 

18 maggio 2020

 




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