Contro il mito dei diritti civili.
Tempi di crisi e di rivolgimenti sociali possono, se affrontati in modo razionale e con il necessario discernimento, mostrare come il velo di una nuova mitologia, abitata da altrettante divinità fittizie, copra e confonda il reale nel mondo post-industriale.
Fino a pochi anni fa, la nostra epoca era incardinata sulla convinzione dell’assoluta e incontrovertibile efficacia del carattere pacificatorio e regolamentatore dell’economia (con derive metafisiche come l’ipotetica “mano invisibile del mercato”) nell’avanzamento della civiltà. Credere acriticamente nel “progresso” implica quindi un’accettazione tacita di questo assioma e la rimozione di ogni critica intesa, rimanendo fedeli all’etimologia della parola, come superamento di un paradigma.
In questo contesto si invitavano gli individui a lasciare da parte i valori e le convinzioni (si pensi solo ai processi di secolarizzazione e al mantra della “fine delle ideologie”, divenuto a sua volta ideologia distintiva del postmoderno), nella persuasione sofistica, priva di qualsiasi carattere dialettico o aderenza al reale, che il reciproco arricchirsi che è posto alla base del pensiero liberal-capitalista, avrebbe tacitato ogni dissapore nel nome del commodum, dell’utile. E dove inizia l’utilitarismo materialista finisce lo spazio e il tempo del ragionare filosofico; all’interno dell’orizzonte totalizzante del do ut des, la meditabonda attesa del pensare critico si rivela essere un ostacolo, un fardello non necessario per i meccanismi della società mercantilistica.
Ai nostri giorni, ed eventi recenti lo ribadiscono con forza, la crisi endemica dell’economia mondiale, originatasi dall’iper-capitalismo e dal dogma della finanza pura (la parabola della cosiddetta “New Economy” e la bolla speculativa negli anni Novanta ne sono un esempio lampante), ha già in parte raffreddato, se non dissolto del tutto, questo ottimismo che, sempre con maggiore frequenza, mostra il proprio carattere irrazionale.
Tuttavia, il sistema, per perpetuare la propria idolatria senza la quale cesserebbe di esistere, sembra avere trovato un nuovo campo nel quale sostenere la fede aprioristica nel progresso: l’evoluzione del politicamente corretto rappresentata dall’ideologia dei diritti civili.
Là dove l’economia ha fallito nell’unire gli esseri umani mediante una redistribuzione della ricchezza che si è rivelata non solo illusoria ma divisiva ed iniqua, si sta spingendo una certa giurisprudenza piegata all’ingegneria sociale nella formalizzazione, ipertrofica e totalitaria, di sempre più pervasivi diritti che vanno a regolamentare tutti i campi dell’esistenza, inclusi molti terreni limite per l’uomo in quanto tale (l’eutanasia, l’aborto, il matrimonio omosessuale, l’identità di genere, etc). Questo spostamento di assetto dal piano economico a quello etico-giuridico sarebbe, secondo coloro che lo propugnano, il mezzo per creare una società più giusta, fondata sul dialogo e sull’incontro così da superare finalmente le divisioni e le discriminazioni.
Tuttavia, risulta subito evidente che tale passaggio fornisce all’individuo un’eguaglianza degradata, di “seconda mano”, quasi consolatoria là dove non si è riusciti in alcun modo a creare un sistema economico autenticamente ugualitario. In questo senso, usando una metafora, i diritti civili sono la proverbiale foglia di fico volta a coprire la nudità del tecno-capitalismo avanzato e il suo peccato originale: l’essere un sistema basato sulla sopraffazione e sull’egoismo. Il punto in questione, si badi bene, non è affatto la legittimità o meno di tali rivendicazioni bensì l’idea, ormai sclerotizzata, che occorra sempre affidarsi ad una presupposta neutralità dello strumento tecnico – l’economia prima, il diritto ora –, il tutto sullo sfondo della altrettanto aprioristica neutralità delle scienze empiriche in generale.
Assistiamo quindi ancora una volta, sempre a causa dell’accusa di obsolescenza e lentezza, alla squalifica della filosofia come mezzo di indagine concettuale in favore di una nuova religione, la tecnica, che assume qui caratteri metafisici e fideistici.
Eppure, la filosofia, proprio perché mai dogmatica, è in grado di seguire il filo stesso della ragione, ricostruendone tutte le tappe, partendo da principi evidenti a tutti e giungendo a conclusioni condivise, senza mai arroccarsi in posizioni predeterminate o volte a salvaguardare lo status delle cose.
Pertanto, le divisioni, di qualunque tipo esse siano, così come i pregiudizi, le discriminazioni e le ingiustizie che ne derivano, possono essere elaborate e metabolizzate dalla società non mediante imposizioni di carattere tecnico, a loro volta sorrette dalle stampelle delle scienze empiriche bensì mediante una persuasione autentica che segua una verità necessaria e non contingente.
L’unica forma di convincimento in grado di reggere agli urti della storia, e dunque l’unica pace sociale realizzabile e duratura, è quella che segue una dimostrazione o una confutazione ottenute per mezzo di ragioni evidenti e non perpetrata aprioristicamente attraverso una giurisprudenza che si fa legge draconica. Questo processo, apertamente avverso al nichilismo che pervade il moderno, presuppone la pazienza, la fatica e la lentezza della buona e autentica filosofia.
Se si dimostra che qualcosa è indubitabilmente vera, comprovata dal cammino della ragione, sarà quindi necessario crederci. E l’unico modo per non essere sedotti dagli idoli è proprio credere a ciò che è vero e no a ciò che viene imposto.
15 maggio 2020
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