Per una fondazione archeologica della socialdemocrazia. Manifesto del concretismo politico.

 

Gli italiani ereditano dai loro antenati speculativi una visione politica ancora tutta da realizzare: in vista dei tempi che verranno, in onore di quelli che furono, per rispetto di quelli che ci accingiamo a vivere.

 

Francesco Hayez, “La meditazione” o “L'Italia del 1848”
Francesco Hayez, “La meditazione” o “L'Italia del 1848”

 

In tempi di crisi, è bene che l’Italia impari finalmente a evitare di prestare il fianco a fatali errori di unilateralità politica. È bene che lo impari perché lo ha già fatto, e le è andata male. Ma è bene soprattutto perché le unilateralità non le si confanno. Forse non si confanno all’umanità intera, ma all’Italia men che meno.

 

Essa dovrebbe evitare sia l’astrazione del liberalismo classico anglosassone, che si traduce nel pericolo neoliberista, sia quella del socialismo di matrice germanica, che si traduce nel pericolo totalitario. Dovrebbe imparare cioè ad essere se stessa.

 

Tuttavia, entrambe le tradizioni richiamate hanno indiscutibili meriti. La prima ha infatti posto in risalto l’insopprimibile esigenza della pluralità, non solo nel senso della reciproca (cioè relativa) irriducibilità dei soggetti giuridici, ciascuno col suo diritto inalienabile (Hobbes, Locke), ma anche in quello della necessaria diversificazione dei poteri dello Stato. Al rischio però di insistervi a tal punto che l’unità politica ne risulterebbe smarrita, e con essa la possibilità di una concreta realizzazione dei diritti di ciascuno (il bambino con l’acqua sporca). A un’altezza speculativa, ciò è accaduto soprattutto nelle derive individualistiche e capitalistiche sette-ottocentesche (Smith, Spencer). A un’altezza storico-effettuale, ciò si sta realizzando adesso. L’altro rischio è che, come denunciato da Hegel [1], si possa confondere la “divisione” dei poteri con la loro “contrapposizione”, come se uno ostacoli l’altro e dovessero perciò combattere (Berlusconi?).

 

La seconda ha posto in risalto l’altrettanto insopprimibile esigenza dell’unità, cioè del carattere inevitabilmente organico e onnicomprensivo del “patto sociale”. Anche qui in due sensi: nel senso per cui l’irriducibilità di ciascun soggetto è tale di fronte a tutti gli altri soggetti considerati come individui, ma non lo è “di fronte” allo Stato, in quanto questo è esattamente ciò che costituisce, e salvaguarda, ciascun diritto individuale. Perciò quest’ultimo si erge non “di fronte” allo Stato, ma “nel” e “per” lo Stato. E nel senso per cui la triadicità dei poteri non può essere intesa come una numerazione discreta, ma piuttosto come il consustanziarsi dei tre momenti in qualità di dimensioni a un tempo distinte e saturanti l’intero organismo politico [2]. Due sono anche i rischi corrispondenti: che si insista a tal punto sulla “riducibilità” dell’individuo allo Stato da dissolvervelo, attentando alla condizione irrinunciabile della pluralità; e che si finisca con il fondere a tal punto i poteri da non riuscire più a distinguerli, o si sottometta a uno solo di essi (in genere l’esecutivo) gli altri due. Nel primo caso, lo Stato dimentica che le differenti motivazioni di ciascun individuo costituiscono la sua stessa motivazione, che invece viene astrattamente dedotta da quella di un gruppo di governanti (l’élite di partito) o da uno solo di loro (un Führer o un Fratello Numero 1) e dalle loro ideologie [3]. Accade quello che denunciava Carabellese allorché paragonava lo Stato comunista a un Moloch «unico soggetto, che annulla tutti gli altri soggetti» [4]. Nel secondo caso, l’esecutivo fagocita il legislativo e il giudiziario, governando senza più alcun limite. Accade quello che ha denunciato Agamben con particolare riferimento a Weimar e all’ascesa di Hitler [5] (Salvini?), ma che già succedeva a Hegel quando individuava nel monarca il «momento assolutamente decidente», la sovranità priva di fondamento [6]. Aspetto fortemente criticato da Marx.

 

L’Italia si pone per così dire “in mezzo” a queste due tradizioni, quella liberale e quella socialista, e più che la sua storia (in misure e contesti diversi piegatasi alle ragioni dell’una o dell’altra) a farne fede è la sua cultura: l’Italia ha scoperto il senso moderno e veritiero della democrazia, cioè del concretismo politico. Dante, Vico, Gioberti, Mazzini, Carabellese (forse anche altri, come Croce e Gentile, o forse no). Non che altri paesi non abbiano contribuito a questa scoperta, o al suo approfondimento: il “Nuovo Liberalismo” inglese, per esempio, che con Mill, Green e Ritchie si pose nei termini di un vero e proprio liberalsocialismo, appare assai prossimo al concretismo italiano, ma dovette contrapporsi a un’assodata tradizione autoctona, finendo col rivelarsi un’esperienza breve (per quanto non del tutto fallimentare), ben presto soppiantata da altre visioni. Così anche il socialismo liberale di un Bernstein, di Salvemini, di Rosselli, di Calogero. Le possibili verifiche di storiografia politica, in questo senso, sono tutte da svolgersi. Qui però non sono appena in questione i singoli movimenti o le singole personalità. Si tratta piuttosto di mettere a fuoco l’esistenza di una vera e propria tradizione di metafisica politica [7], che ha cioè abbracciato forme di concretismo per precise ragioni di ordine speculativo e non per revisionismi, ripensamenti, attenuamenti, correzioni di canoni allogeni. Concretismo, anche in sede esclusivamente teoretica, significa equivalenza e indispensabilità dell’uno e degli uni, dell’essere e degli esseri, del vero e degli sguardi che non si limitano a indagarlo ma lo incarnano.

 

Il concretismo è pienamente e autenticamente democratico, perché controbilancia l’enfasi unitaria del kratos con la vitalità plurima del demos [8]. Questo, immesso in tale relazione dinamica con quello, si fa demos veracemente “sociale”, sottratto alla dispersione competitiva dell’economicismo; e insieme il kratos smette di essere brutale forza di regime per acquisire carattere di vigore dei popoli che vivono per onorare le proprie consuetudini, compiere i loro uffici e ottemperare alle proprie missioni. Il concretismo onora così passato, presente e futuro: non è né nostalgico, né miope, né utopico. Esso è perciò socialdemocrazia (non in senso anzitutto storico-politico, ma teoretico), dove il demos è il termine medio, direi anzi il termine di incontro tra l’istanza della pluralità e quella della unitarietà.

 

Il concretismo è stato forse l’unico programma politico mai veramente attuatosi, se non forse per brevissimi e isolati lassi di tempo, nel corso della storia. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che, a rigor di termini, non è esattamente un programma, ma l’essenza della politica. Esso è stato adombrato da eminenti pensatori, e tuttavia rimasto solo sperato, invocato, al più riconosciuto come uno degli apporti più interessanti e potenzialmente salvifici della cultura italiana, ma sempre sostanzialmente irrealizzato. E ciò perché molto spesso l’Italia stessa lo ha tradito, smarrendosi negli opposti astrattismi di cui sopra, anche se nei secoli ha saputo indicare la via. Per questo l’Italia, molto più che altre nazioni, è stata “terra di conquista” (ahi serva Italia!): ha seguito sempre, pur conservando un barlume della peculiarità che le è propria, canoni rispondenti alle altrui tradizioni. Ha perseguito politiche allotrie. Questo l’ha condotta alla rovina in passato, e può tornare a farlo in futuro. È per questo che è lecito sospettare che, oltreché come espressione geografica, l’Italia esista solo come espressione filosofica, e cioè soltanto nelle sue vette speculative e nella misura in cui vi si riconnette. Questa, più che quella del 1861, è la sua Unità. Il suo vigore. Per tutto il resto, e molto più di altri paesi occidentali, essa è disunita. Questa disunione è la sua ricchezza e vitalità, ma anche la sua potenziale dispersione.

 

Va detto poi che il concretismo politico è l’unico a pensare l’uomo davvero come uomo, nella sua specificità e irripetibilità di soggetto ragionevole, cioè di persona, per ciò solo degna di rispetto morale. Giacché né, come nel liberalismo britannico, lo pensa come “raffinata” bestia in perenne guerra – sia essa fisica od economica non importa – coi suoi simili; né, come nel socialismo tedesco, lo pensa come mero membro della specie (Gattung, precorritrice della Rasse e della Klasse), dotato di valore solo in quanto ad essa appartenente e finché vi appartiene, da ultimo sostituibile in qualità di mero esemplare. Insomma, soltanto il concretismo sa pensare fino in fondo l’umanità dell’animale-uomo, ciò per cui esso è da ultimo assolutamente separato dalle altre creature della Terra. Il concretismo è pieno Umanesimo: cioè pensiero che colloca l’uomo al suo giusto posto nell’universo. Sovraordinato rispetto al resto della natura e subalterno rispetto alla santità del suo Dovere, alla incommutabilitas dell’Essere. Non umanismo, che pensa l’uomo come puro vertice della natura: nient’altro che il fratello maggiore delle bestie.

 

Umanesimo, quindi, il principio (archè) di questa tradizione nobilissima d’Italia: ad esso dovrebbe oggi rivolgersi un’archeologia della socialdemocrazia, per scrutarne le origini ed eventualmente individuarne gli antesignani. Ma soprattutto affinché il Rinascimento torni a essere realtà e non soltanto lettera morta e sepolta in polverosi libri di storia.

 


[1] Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 2005, § 272 A.

[2] Ivi, § 269 Z: «È la natura dell’organismo, che, se le parti non trapassano tutte nell’identità, se una si pone come autonoma, tutte devono andare in rovina».

[3] Gómez Dávila a tal proposito giustamente osserva che «Attribuire allo Stato una finalità diversa dalla imposizione del diritto vuol dire trasformarlo in agente dei capricci di chi comanda. […] La nozione di bene comune […] sarebbe valida solo se denotasse meramente il diritto. Infatti, il bene comune è solo ciò per cui si opta solidalmente. Vale a dire: il diritto.» (De Iure, ed. Zuppa, animAMundi, Vigonza 2018, pp. 163-164).

[4] P. Carabellese, L’idea politica d’Italia, Edizioni di F.V. Nardelli, Roma 1946, p. 316.

[5] In effetti, andando al di là di Agamben, si potrebbe leggere la storia dell’imporsi dello stato di eccezione attraverso la fondazione giuridica di una dittatura costituzionale (l’art. 48 della Costituzione di Weimar, l’art. 16 dell’attuale Costituzione francese, l’art. 77 della Costituzione italiana e la prassi della legislazione per mezzo di decreti d’urgenza etc.) come lo sviluppo e il trionfo novecentesco di quella “stortura” di matrice tedesca che Carabellese chiamava soggettivismo politico, nato con Fichte, proseguito con Hegel, Marx, Nietzsche, e poi tramutatosi in ducismo (Cfr A. Lombardi, L’Italia come problema filosofico. Meditazioni del disastro nel teismo politico di Carabellese, in “Il Pensare”, VIII, 8, 2019, pp. 135-162.). D’altra parte, con Agamben, si può far risalire tale sviamento germanico, e la “relativa” infatuazione latina, a quello francese della Rivoluzione (Cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 21-32), di cui non a caso Fichte e Hegel furono entusiasti sostenitori (cfr. D. Losurdo, Le categorie della rivoluzione nella filosofica classica tedesca, in Id., Rivoluzione francese e filosofia classica tedesca, QuattroVenti, Urbino 1993, pp. 343-358).

[6] Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 279.

[7] È ben per questo che la cosiddetta Italian Theory non può fornire un contributo decisivo al concretismo della politica. Essa, infatti, «risente della concezione narrativa (espressiva, non fondativa) e antimetafisica di molta filosofia contemporanea» (M. Berlanda, Verso una nuova egemonia della filosofia italiana?, in “Per la filosofia” XXVIII, 83, 2011, p. 89) e si caratterizza per una tendenza a pensare «che non esistono essenze di alcun genere ma solo eventi che vengono letti in modo sparpagliato e senza un quadro ricompositivo». Si può perciò legittimamente concludere che queste teorie «ci lasciano a secco per quanto concerne il piano normativo nel quale siamo posti ogni giorno nelle vicissitudini dell’agire» (V. Possenti, Il realismo e la fine della filosofia moderna, Armando, Roma 2016, p. 219).

[8] Già Dante sa perfettamente che, sebbene «il genere umano è assolutamente uno, quando è tutto unito in uno» e quindi «deve essere governato […] e guidato alla pace secondo una regola universale», non bisogna trascurare che «le nazioni, i regni e le città possiedono delle caratteristiche particolari, che è necessario regolare con leggi specifiche: la legge è infatti una regola che guida la vita» (Monarchia, Garzanti, Milano 2011, pp. 17, 35). In ciò Dante anticipa potentemente Mazzini, nel riconoscere come il principio democratico non funzioni soltanto per la politica interna, ma si applichi anche in un’ottica internazionale: esso ha sia il compito di realizzare «l’unità delle volontà» (la pax o concordia tra popoli e Stati, impossibile se essi non tendono a un unico fine) sia quello, parimenti importante, di rispettare la singolarità geografica, consuetudinaria, linguistica etc. di ciascun concordante – di salvaguardare, insomma, la pluralità.

 

12 maggio 2020

 








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