La difficoltà nel districare il concetto di realtà dalla materialità di quest’ultima dovrebbe far riflettere rispetto all’inscindibile connessione tra i due concetti. Privilegiando la realtà materiale o quella spirituale si cade infatti in astrazioni che inficiano il tentativo di cogliere la realtà complessivamente.
Nella società postmoderna il concetto di giustizia viene spesso affiancato a quello di legge. Se la connessione tra i due concetti è spesso rimarcata, la differenza tra i due non è quasi mai individuata.
I punti di vista che esemplificano la posizione del senso comune rispetto alla differenza tra giustizia e legge sono prevalentemente due: coloro che ritengono che la legge è congruente alla giustizia, e coloro che affermano che la legge e la giustizia sono differenti.
Il terzo punto di vista sarebbe quello rappresentato da coloro che negano l’esistenza della legge e della giustizia, ma come vedremo più avanti, questa concezione può essere assimilata alla prima posizione.
La giustizia non è altro che la legge vigente in un determinato luogo e tempo: è questo il rapporto tra i due concetti sostenuto dalla prima posizione. La giustizia e la legge si relativizzano: è impossibile distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Sostenendo questa posizione ci si ritrova nell’assurdità di dover affermare che la servitù personale è giusta tanto quanto lo è il suffragio universale.
Se è importante ribadire che ogni concetto dipende dal determinato contesto storico in cui è stato formato, contemporaneamente bisogna evitare di relativizzare i concetti che vengono presi in esame. Ogni pensiero dipende dal contesto in cui si sviluppa, ma il ragionamento veritiero che sottende al concetto sviluppato è valido indipendentemente dal periodo storico in cui si è formato. Le ragioni che rendono la schiavitù contraddittoria nel 2020, ci permettono di giudicare ingiusta la schiavitù anche nell’antica Grecia. Il fatto che fosse impossibile per i greci capire la contraddittorietà della schiavitù, dato il contesto storico in cui vivevano, non ci proibisce di dire che quella pratica era ingiusta.
Il primo punto di vista preso in esame finisce per coincidere con il terzo concetto di giustizia. Chi sostiene la relatività della giustizia e delle leggi è in realtà un sostenitore dell’impossibilità della giustizia. La giustizia è effettivamente tale solo se ci dà la possibilità di distinguere le azioni contraddittorie da quelle valide. Se ogni concetto di giustizia è valido in base al luogo e al tempo in cui si è formato, si deve affermare che il concetto di giusto che ha un criminale ha lo stesso valore delle leggi dello Stato.
Coloro che affermano che la giustizia e la legge sono due concetti differenti, molto spesso non riescono ad esplicitare in che cosa consista la divergenza. Ma allora dove è possibile trovare questa differenza?
« Spesso giudichiamo che la Legge non realizza completamente la Giustizia; la nostra idea di Giustizia ci fornisce uno standard con il quale confrontiamo le leggi effettive, e le giudichiamo giuste o ingiuste. » (Henry Sidgwick, I Metodi dell’Etica)
La giustizia è vista come un ideale che sta al di sopra delle leggi positive stabilite dall’uomo, qualcosa che riesce a trascendere la particolarità delle leggi di uno Stato. Chi sostiene questo pensiero introduce l’universalità come caratteristica fondamentale della giustizia, in contrapposizione con la particolarità delle leggi positive.
Il problema con questo secondo modo di vedere il rapporto è che si perde la connessione tra i due concetti, questo collegamento veniva invece parzialmente colto dal primo punto di vista . Se il concetto di giustizia viene idealizzato si perde ogni contatto con la realtà, ciò che è giusto diventa qualcosa di puramente astratto.
L’idea risente anch’essa del contesto storico in cui è stata pensata, credere che i concetti siano opposti alla realtà che devono spiegare è una contraddizione che rende i pensieri vuoti. Cercando di superare la particolarità delle leggi positive attraverso l’idea, si ricade nella stessa unilateralità che si cercava di oltrepassare.
Tutti e due i punti di vista sono in definitiva contraddittori perché partono entrambi dalla differenza inconciliabile tra ideale e reale. Questa separazione tra i due ambiti non è possibile. L’idea si forma nel contesto della realtà, e la realtà non è mai qualcosa di esterno e separato dai pensieri dell’uomo che l’abita. La realtà non prescinde mai dal pensiero che l’individuo ha della realtà, il mondo non è mai qualcosa di esterno e di separato dall’uomo che lo interpreta. Nemmeno il pensiero può prescindere dalla realtà: il concetto è l’interpretazione del mondo, se viene a mancare l'oggetto del pensare il concetto non ha senso di esistere.
La difficoltà nel districare il concetto di realtà dalla materialità di quest’ultima dovrebbe far riflettere rispetto all’inscindibile connessione tra i due concetti. Privilegiando la realtà materiale o quella spirituale si cade infatti in astrazioni che inficiano il tentativo di cogliere la realtà complessivamente.
Ritornando alla questione sulla giustizia, si potrebbe dire che entrambi i punti di vista effettuano una separazione astratta tra realtà e pensiero. Il primo punto di vista crede che la realtà sia da tener più in conto del pensiero, perché più concreta; il secondo si perde in astratti pensieri che perdono di vista la realtà in cui questi concetti si formano.
L’astrazione propria sia del primo che del secondo punto di vista può essere osservata nell’importanza che assume il concetto di abitudine nello stabilire ciò che è giusto o legale da ciò che non lo è.
Il concetto di abitudine può aiutare a chiarire il rapporto tra legge e giustizia, molto spesso infatti ciò che stabilisce il giusto e il lecito, non è altro che la consuetudine.
John Stuart Mill è uno di coloro che afferma l’importanza che la consuetudine assume nello stabilire le leggi di uno Stato. Anche una legge che deriva dalla consuetudine deve però aver avuto all’inizio un fondamento. L’abitudine è il protrarsi nel tempo di una decisione, ma questa decisione è un rompere la consuetudine precedente. Ma da dove deriva la necessità di rompere la consuetudine?
Se le leggi dell’uomo sono una manifestazione della legge del più forte, allora la decisione non è altro che la constatazione dei nuovi rapporti di forza presenti.
« Le leggi e i sistemi politico-sociali nascono sempre dal riconoscimento dei rapporti tra gli individui così come li trovano già in essere. Quel che era un mero fatto fisico, lo convertono in un diritto legale, gli conferiscono la ratifica della società e mirano principalmente a sostituire lo scontro basato sulla forza fisica, privo di regole e di leggi, con qualche strumento pubblico e organizzato capace di affermare e tutelare quel diritto. Così, chi doveva già obbedire per forza, deve poi obbedire per legge. » (J.S. Mill, L’asservimento delle donne)
La legge viene quindi vista come il proseguimento attraverso le istituzioni di consuetudini consolidate. Anche a coloro che credono che la legge del più forte sia qualcosa di tramontato, il filosofo inglese ricorda come ci siano delle leggi e delle istituzioni che fondano ancora il proprio potere sulla forza.
« Non ci si rende conto di quanto sia grande la vitalità, la resistenza di quelle istituzioni che pongono il diritto dalla parte della forza; della tenacia con cui vi si sta abbarbicati; di come le propensioni e i sentimenti, sia quelli buoni sia quelli cattivi, di coloro che hanno in mano un potere si vadano progressivamente a identificare con il mantenimento di quel potere; non ci si rende conto di quanto sia lento il cammino per far sparire queste istituzioni, […] e di come sia estremamente raro che chi ha ottenuto un potere legale perché prima ne aveva uno fisico, se lo sia mai lasciato sfuggire dalle mani fino a quando il potere fisico non è passato nelle mani degli avversari. » (Ivi)
Alla fine della citazione ritroviamo la situazione descritta prima: una consuetudine viene spezzata solo quando il potere dato dalla forza cambia “padrone”.
Secondo Mill, la consuetudine non ha a che fare solamente con le leggi dello Stato, ma regola anche alcune delle leggi che regolano l’economia. Per fare un esempio, il filosofo inglese osserva come la consuetudine abbia regolato la distribuzione del prodotto per un lungo periodo.
« Nel sistema della proprietà privata, la divisione del prodotto è il risultato di due fattori determinanti: la concorrenza e la consuetudine. […] Quanto più risaliamo indietro nella storia passata, tanto più vediamo tutte le transazioni e le obbligazioni sotto l’influenza di consuetudini stabilite. » (J.S. Mill, Princìpi di economia politica)
Se abitudine significa dimenticare le motivazioni per cui si fa o si pensa qualcosa, allora il compito della filosofia, e dell’uomo in generale, dev’essere quello di emanciparsi dai comportamenti e dai concetti che vengono ritenuti validi solamente perché nessuno li ha mai messi in discussione.
« Una causa, per un verso sorretta da una consuetudine universale e per l’altro verso da un sentimento popolare preponderante, si penserà sempre che abbia al proprio attivo qualche implicazione profonda, superiore a qualsiasi convincimento possa mai risultare da un appello alla ragione in qualunque intelletto. » (J.S. Mill, L’asservimento delle donne)
11 maggio 2020