Se divisi siam canaglia,
stretti in fascio siam potenti;
sono il nerbo delle genti
quei che han braccio e che han cor.
[Inno dei Lavoratori]
Nel 1866, in sede dell’Internazionale, si rilancia uno slogan, destinato alla fortuna: 8 hours labour, 8 hours recreation, 8 hours rest. La sua origine si registra nelle proteste operaie australiane, quando i lavoratori urlano la loro richiesta per le strade della città di Melbourne. È il 21 aprile 1856: gli stonemasons e altri operai dell’edilizia smettono di lavorare, e fieri si lanciano lungo i viali, marciando verso il Parlamento locale. L’idea è che non si può più tollerare di lavorare 10-15 ore al giorno; è una mostruosità. Gli australiani vincono. Quel momento segna il punto di non ritorno. La conquista non sembra più un miraggio, una di quelle cose per cui il padrone sia legittimato a dire «non si può, è il mercato che ce lo chiede»; diventa un obiettivo comune, globale. Fuochi di protesta si accendono ad intermittenza lungo ogni continente, infiammando le grandi città del mondo. A Toronto, nel 1872, è la volta dei tipografi, scesi in strada per rifiutare una settimana lavorativa oltre le 58 ore. Le proteste durano dei mesi, i sindacati si uniscono e chiamano a raccolta altre forze. Le proteste si espandono. I lavoratori vengono picchiati, i loro leader arrestati. La polizia grida alla “conspiracy”, la legge legittima gli aguzzini. A suon di proteste – prima in nome della settimana lavorativa più breve, poi in nome di coloro che si battevano per questo e infine in nome degli arrestati e malmenati – si riesce nell’intento. Malgrado le reticenze, la legge viene rivista e la settimana lavorativa si stabilizza sulle 54 ore. Se gli australiani sono stati un grande esempio, lo stesso si può dire delle proteste sorelle indette dai lavoratori americani. L’episodio più influente e con più eco nel mondo, per cui poi si scelse la data fissa del Primo maggio, è senza dubbio quello avvenuto a Chicago, ad Haymarket Square. Il 1° maggio 1886 in America sciopera quasi mezzo milione di lavoratori, con il motto «eight-hour day with no cut in pay». Le proteste continuano nei giorni successivi sino a che il 4 maggio, nella famosa piazza, accade il disastro: la polizia avanza inquadrata con intento di disperdere la folla, ma qualcuno lancia verso di essa, a intralciarne la marcia, un ordigno rudimentale. La polizia, di tutta risposta, attacca furiosamente, sparando; i manifestanti controbattono, per quel che possono. Il tumulto svanisce in pochi minuti e la folla si dilegua. Finito il caos, rimangono soltanto i morti e i feriti stesi a terra. La conseguenza è una repressione inaudita da parte delle autorità politiche, poliziesche e giudiziarie, che attaccano ferocemente le organizzazioni sindacali. Per “risolvere” l’episodio – come accadrà ancora nella storia – sono stati scelti dei colpevoli fra gli anarchici. Quattro di loro sono impiccati in carcere.
Proprio in memoria di quelle giornate si sceglie la data del 1° maggio come universale. Per questo motivo, la Seconda Internazionale lancia la parola d’ordine:
« Una grande manifestazione sarà organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente in tutti i paesi e in tutte le città, nello stesso giorno, i lavoratori chiederanno alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare ad effetto le altre risoluzioni del Congresso di Parigi. »
È così che il Primo maggio suggella il simbolo della lotta dei lavoratori. Dal 1889 diventa la giornata in cui tutti i lavoratori del mondo scendono in piazza per gridare le loro rivendicazioni. Non ovunque viene permesso, chiaramente. Anzi, spesso non verrà concesso ancora per molto tempo. In Russia, per esempio, nonostante le aspre lotte, non si ottiene mai il riconoscimento della Festa dei Lavoratori prima della Rivoluzione d’Ottobre, benché venisse regolarmente celebrata:
« Alle 4 del pomeriggio... è stata issata una bandiera rossa e in piazza della Lubjanka hanno iniziato a risuonare canzoni rivoluzionarie. Allora, contro i dimostranti si sono mossi in gran numero gendarmi e poliziotti schiumanti di rabbia. Sono iniziati gli scontri e gli operai hanno iniziato a lanciare pietre contro la polizia. » (Rossijskaja Gazeta, 1914)
E da noi? In Italia, nel 1890, ancora non c’è il PSI, né la CGdL, ma le folle si muovono lo stesso. Al governo c’è Crispi e, ai primi volantinaggi in vista della giornata “pericolosa”, la stampa è in subbuglio, i proprietari inquieti. Crispi decide di vietare ogni assembramento per la data dell’1 e del 4 maggio, ma senza successo. Sorprendentemente, i lavoratori si mobilitano: ovunque in Italia si sciopera. Labriola esulta, Engels è certo che «lo spettacolo di questa giornata» avrà il suo seguito.
Il Primo maggio non rimane la lotta per le otto ore, ma via via incarna rivendicazioni differenti. Il simbolo delle conquiste dei diritti è anche monito che ricorda come, a ben vedere, la giustizia non si ottiene per decreto. Il decreto viene – certo – ma in un secondo momento. Senza le masse che impediscono il regolare svolgimento degli affari, che impensieriscono il padronato, il governo e tutta la schiera di ammiratori dell’ordine costituito, non è possibile avanzamento. È una giornata pericolosa, senz’altro, al punto che il fascismo arriva a vietarla, come vieta gli scioperi e cerca di inquadrare i lavoratori entro le strutture corporative, nella speranza di spegnere ogni conflittualità. Non vi riuscirà neppure lui poiché, lo ricordiamo, la Resistenza trova uno dei suoi punti di forza negli operai. Nel nord Italia, infatti, tra il ’43 e il ’44 scoppiano numerosi scioperi col fine di bloccare la produzione destinata alla Germania. La fame che impensieriva i lavoratori evolve ben presto in idea politica. L’organizzazione capillare comunista ha i suoi frutti, e nella primavera del 1944 sono oltre 300.000 i lavoratori a scendere in piazza. La repressione che ne segue è molto dura, perché i fascisti reagiscono con deportazioni e arresti; eppure non c’è tregua. Nelle fabbriche si ospitano le Brigate e da lì nascono i partigiani.
La stessa forza si registra nelle battaglie degli anni ’60 e ’70, che sfociano nella conquista dello Statuto dei Lavoratori – ora ampiamente “tradito”. Non possiamo dimenticare Mirafiori, i cortei interni alle officine, le assemblee, le vendette di Agnelli. In quel contesto, i lavoratori scavalcano i sindacati e i partiti di sinistra e spiegano: «vogliamo tutto». La nostra storia però non si limita a questo, e troviamo altri casi in cui, per così dire, la classe supera il partito o il sindacato di riferimento. È avvenuto negli anni de L’Ordine Nuovo e di Gramsci, quando l’autonomia dei lavoratori si spinge alla completa autogestione, nella stagione dell’occupazione delle fabbriche. Gramsci registra entusiasta i progressi fatti dagli individui, che, se fino a un attimo prima erano curvi e fiaccati dalla vita, si rianimano e organizzano il lavoro e il tempo libero, recitano, si divertono – finalmente vivono! Purtroppo il PSI era troppo “timido” ed eterogeneo per comprendere che da lì e soltanto da lì poteva nascere la riscossa, e, forse, se si fosse seguita quella via, si sarebbe anche potuta evitare la tragedia fascista. Lo stesso è avvenuto durante la Resistenza, quando i partigiani, ben oltre le prospettive della pacificazione togliattiana, avevano cominciato a progettare delle repubbliche libere. In tutte queste circostanze sono scesi in campo attori diversi, con metodi diversi e scopi specifici diversi; eppure ciascuno di essi, con uno spirito analogo, aveva in mente di sovvertire l’ordine presente, dando l’esempio di vita che voleva. I lavoratori, collettivamente, si organizzavano e la progettavano. La storia ci insegna che solo così, con le masse che premono dal basso, ogni avanzamento è possibile. Quando la classe si fa avanguardia non c’è scusa che tenga, le giustificazioni di chi mantiene in piedi vecchie regole vanno alla malora. Ed è questa la lezione da riprendere. Ci aspetta un futuro immediato orrendo, segnato da crisi e tagli di diritti. Questo c’era anche prima, con le riforme dei governi di destra e sinistra, che negli ultimi decenni hanno smantellato il welfare. Ora sarà peggiore. Bisogna riaprire i giochi. La verità è che dipende da noi, da come ci strutturiamo e da come gestiamo quel contropotere che, noi tutti, possiamo generare. Che questa non sia una giornata di ricordo, ma di slancio verso l’avvenire.
1° maggio 2020
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