Il filosofo ginevrino è ben noto per la versatilità della sua opera. Egli ha affrontato svariate tematiche e, di conseguenza, ha messo in luce profonda conoscenza per numerosi ambiti. Siamo di fronte ad un uomo di sterminata cultura: politica, etica, pedagogia sono solo alcuni degli interessi del pensatore. Non ho usato l’avverbio “solo” in modo casuale, perché voglio porre l’accento sulla sua esperienza religiosa.
Jean Jacques Rousseau nasceva trecento anni fa, precisamente nel 1712, ma siamo di fronte ad un filosofo che ci parla ancora. Un filosofo che ha vissuto appieno la sua epoca illuminista e proprio per questo è considerato dalla critica uno dei suoi maggiori esponenti. Il 1700 non è stato certo il periodo storico di maggior splendore per la religione in generale, mettiamola così. Ciò non significa che la fede delle persone si sia spenta o che siano degne di nota solamente concezioni materialistiche dell’esistenza.
Rousseau era uomo solitario e oserei direi fortemente spirituale. In un’epoca come quella dei Lumi nella quale andava quasi di moda professarsi atei e celebrare il trionfo della ragione, il filosofo svizzero non resta affatto indifferente alla fede. Egli parla di uno spirito religioso che nasce naturalmente in ogni essere umano: «La sua esperienza religiosa va seguita su vari piani: il contatto personale con sacerdoti e fedeli di confessione calvinista o cattolica; […] l’aspirazione a una fede totale, vissuta al livello della sensibilità e delle emozioni, e la conseguente esigenza di un credo razionale» (Paolo Casini, Introduzione a Rousseau). Il rapporto con la religione ha vissuto di tanti intrecci e sfumature, che lo hanno portato all’elaborazione di una sua metafisica, di una prospettiva esistenziale avente al centro il problema del male e della giustificazione di Dio. Non vanno dimenticati poi gli accesi conflitti con la gerarchia cattolica e protestante, con l’istituzione Chiesa e le sue rigidità.
Entrando nel vivo della questione, è naturale porsi una domanda. Secondo Rousseau qual è il rapporto tra fede e ragione? La fede dev’essere legittimata con l’uso della ragione. Una sua opera ora ci viene in aiuto. Nell’Emilio o dell’educazione, noto romanzo pedagogico pubblicato nel 1762, e in particolare nel quarto capitolo (Professione di fede del vicario savoiardo), troviamo la risposta. Il vicario interpella la ragione affinché esamini le opinioni della fede e alla fine il filosofo accetterà solo quelle che avranno dimostrato la massima verosimiglianza. Rousseau, dunque, elabora la sua idea religiosa e la basa sulla coscienza, una sorta di istinto divino, con cui ogni essere umano sente, percepisce la presenza di Dio nella propria vita. La relazione tra uomo e Dio è al centro dei suoi pensieri. Celebre è l’affermazione secondo cui l’uomo nasce buono, ma poi la società lo corrompe. Rousseau è convinto di ciò: c’è una pura natura umana che poi viene contaminata dalla complessità del mondo sociale. Allo stesso modo, c’è un Autore da cui proviene solo bene e un uomo le cui mani sono causa di degenerazione. Il cuore umano tende alla giustizia, all’ordine e il suo destino non è quello di essere salvato, redento ma semplicemente ricondotto, dopo la corruzione sociale, alla sua purezza originaria.
Il Rousseau-uomo è ovviamente presente nel Rousseau-religioso, per così dire. E allora in lui convivono la sua inclinazione illuminista e un certo preromanticismo: la ragione “collabora” con il sentimento, illuminando ciò che esso esprime e incanalando l’uomo verso lo smarrito equilibrio naturale. La figura di Rousseau può essere davvero lo spartiacque tra Illuminismo e Romanticismo, il tramonto del primo e l’alba del secondo. La razionalità rousseauiana è una razionalità in grado di aggregare criticamente sentimenti e istinti interiori: egli fu grande difensore di una morale fondata su virtù interiori. E allora si può sostenere che le basi su cui poggia il pensiero religioso del filosofo ginevrino non siano altro che una solida fede in un Dio creatore e una profonda conoscenza dell’uomo.
Dal discorso esposto emerge credo inequivocabilmente la sua totale estraneità ai dogmi religiosi ma allo stesso tempo la sua tolleranza religiosa. La gente si tormenta per seguire i dogmi, vive per aderire alla lettera ciò che la fede dice, Rousseau invece non vuole darsi pena: egli è fermamente convinto che la sua condotta non possa essere giudicata dal suo atteggiamento critico nei confronti dei dogmi. Si può sostenere che la sua religiosità ricalchi le tesi fondamentali del deismo tipicamente illuminista: è da escludersi ciascuna verità che venga rivelata in maniera dogmatica.
Un esempio? La risurrezione della carne, motivo d’essere per la Chiesa. Simbolo di Cristo, salvezza degli uomini, si tratta di una dottrina escatologica che non può essere accettata all’interno di una visione in cui la razionalità deve vagliare le convinzioni della fede. Mi viene da pensare al teologo Vito Mancuso, il quale oggi ci parla di un bisogno di spiritualità che va al di là di schemi e dottrine prestabilite, che non fanno altro che limitare la libertà umana.
« Rousseau è un temperamento religioso. Ha sempre grandi bisogni religiosi; diciamo che v’erano in lui, naturalmente, delle disposizioni religiose molto più ricche che nella maggior parte dei suoi contemporanei […]. È per questa potente virtualità religiosa che egli ha agito sul mondo; e quantunque egli sia troppo occupato solo di se stesso, troppo lunatico e troppo pigro per aver mai voluto assumere la responsabilità di un tal compito, egli è essenzialmente in realtà un Riformatore religioso. » (Jacques Maritain, Tre riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau)
Dalle sue parole traspare una certa vena polemica nei confronti del filosofo ginevrino. Qual è il misfatto compiuto da Rousseau? Aver snaturato il cristianesimo naturalizzandolo, arrivando quindi a trasformare le verità cristiane in semplici moti soggettivi di certo non basati sull’oggettività della fede. Il rapporto tra Rousseau e il cristianesimo fu particolare, non certo lineare e inquadrato, come si può facilmente intuire. Egli elogiò certamente la religione cristiana, prendendo però le distanze dal cristianesimo inteso come istituzione secolarizzata. Il filosofo ammira il credo cristiano delle origini: il messaggio di Gesù non aveva implicazioni culturali di alcun genere, andava dritto al cuore della gente.
Il fulcro della questione è il seguente: Rousseau accoglie la rivelazione come rivelazione interiore, che preserva le caratteristiche della religione naturale. Non ammette pertanto nessun tipo di rivelazione storica.
E di chi si professa ateo egli cosa pensa? Rousseau non contempla l’ateismo. Gli atei sono paragonabili a fanatici. A suo dire, i principi dell’ateismo non causerebbero agli uomini la morte, molto di più. Addirittura impedirebbero loro di nascere. Dunque, il fanatismo religioso è un eccesso che non fa altro che provocare vittime, ma l’ateismo, l’eccesso al polo opposto, porta a conseguenze forse ancor più drammatiche.
E allora cosa lascia ai noi oggi un filosofo come Rousseau? Il suo pensiero mi pare alquanto attuale. La vita che viviamo è fatta di individualismo ed è permeata di egocentrismo: la nostra è una società atomizzata, in cui assistiamo ai due estremi di cui parlavo poc’anzi, il fanatismo e l’ateismo. Entrambi lasciano poco spazio alla vera fede. Questo spazio è interamente occupato dal nostro Io, sempre al centro dell’attenzione, sempre sul piedistallo.
7 maggio 2020