Una fondamentale conseguenza implicita nell’impostazione di un dialogo costruttivo è che si è disposti a comprendere le ragioni dell’altro e a riconoscere, in un certo qual modo, il proprio torto.
« Chi vuole comprendere, non potrà fin dall’inizio abbandonarsi alla casualità delle proprie presupposizioni, ma dovrà mettersi […] in ascolto dell’opinione del testo […]. Chi vuol comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi dire qualcosa da esso. Perciò una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all’alterità del testo. Tale alterità non presuppone né un’obiettiva “neutralità” né un oblio di sé stessi, ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie presupposizioni e dei propri pregiudizi. Bisogna esser consapevoli delle proprie prevenzioni perché il testo si presenti nella sua alterità e abbia concretamente la possibilità di far valere il suo contenuto di verità nei confronti delle presupposizioni dell’interprete. » (H. G. Gadamer, Verità e metodo, parte seconda, II, 1, A, a; Bompiani 2019, pp. 558)
Si converrà con chi scrive (o almeno è ciò che si spera) riguardo alla modesta opinione per cui, quand’anche l’oggetto specifico dell’analisi condotta dal Gadamer nel contesto argomentativo in cui è presente il passo sopra citato fosse il “testo” nella sua alterità nell’ambito delle scienze dello spirito, è tuttavia possibile tentare di assurgere il tema ermeneutico del rapporto con l’altro ad un più generale problema di natura etica. Le implicanze, a modesto giudizio di chi scrive, sarebbero molto felici.
Nel dialogo avviene un fatto fondamentale, a cui tuttavia non si presta sempre attenzione: che due o più persone discutono e, nel farlo, si confrontano. Nel confronto con un “tu”, agisce in modo sotterraneo un insieme di credenze, «pregiudizi» (Gadamer) sotterranei all’ “io”, costitutivi di questo: potremmo spingerci più in là e dire che ogni persona è sostanzialmente un mondo culturale di valori, idee, credenze provenienti da una «tradizione», completamente “soggettive” e quasi naturalmente tendenti all’ espulsione di un’alterità.
La specificità del dialogo sta, quindi, nel confronto fra due “mondi” culturali, due universi interpretativi diversi (dià + lògoi nella lingua greca antica indica proprio questa com-presenza). Ora, va da sé che un dialogo può essere “costruttivo” o “distruttivo”: colui che dialoga potrebbe non essere disposto, avvolto nelle credenze che ha già – e che presuppone nel momento del dialogo –, ad accogliere la totalità di credenze che l’altro, come lui, già sempre presuppone. Ne scaturisce un’incompatibilità. Si potrebbe osservare che, data l’immancabilità del pregiudizio, tale insondabile differenza sia inevitabile.
È possibile, infatti, che, anziché essere disposti a mettere da parte i pregiudizi, li si voglia imporre. Definiamo questo approccio “distruttivo”, in quanto tendente all’annullamento delle ragioni dell’altro e, in questo, alla demolizione dei presupposti di un dialogo. Non essere disposti a mettere da parte le proprie idee e, anzi, imporle all’altro senza ascoltare significa distruggere il fondamento di un dialogo e negare a sé stessi l’occasione di una crescita. E’ in questi casi che non si può parlare tanto di “dialogo”, quanto piuttosto di “comunicazione”. Ad essere necessario (questa è la verità) nella vita di un uomo non è il dialogo, ma la comunicazione. Potrei vivere 100 anni senza aver mai dialogato con qualcuno. Al contrario, la comunicazione è spontanea, immediata, necessaria, ci azzarderemmo a dire “fisiologica”. Una dimensione puramente comunicativa e non dialogica non presuppone necessariamente che i comunicanti vogliamo comprendersi in modo reciproco.
Ed è su queste basi che possiamo dire che, quando due approcci distruttivi comunicano, non c’è dialogo: poiché l’uno non vuole comprendere l’altro, ma annullarlo, negarlo, distruggerlo. E’ in questi casi che due comunicanti, come si suol dire, “si fanno la guerra”.
Potremmo fermarci qui, oppure tentare di andare ancora più a fondo e chiederci che cosa significhi, di fatto, voler “imporre” le proprie credenze all’altro. Questa imposizione implica, com’è ovvio, un misconoscimento dell’altro. Tale misconoscimento non è altro che la negazione della possibilità della propria ignoranza (su cui torneremo in seguito), negazione che equivale, per contro, all’affermazione dell’ignoranza dell’altro. L’altro è “ignorante” e pertanto va “educato”: l’ “imposizione” delle proprie credenze si rivela essere una pretesa di “superiorità” rispetto all’altro, termini, questi, che ad un orecchio esperto suonerebbero familiari.
Non è però necessario che il rapporto con l’altro si risolva, hegelianamente, nella volontà di negarlo nella sua totalità – e questo è un punto cruciale. Si può infatti fare in modo che queste credenze, pur essendo presenti, non ostacolino la comprensione del messaggio che l’altro ci vuole comunicare. Fare questo significa rendersi disponibili all’ascolto, nel modo della «sospensione» dei pregiudizi. La sospensione di questi può avvenire solo mediante un loro «riconoscimento»: ciò permette al Gadamer di affermare che essere sensibili all’alterità e , in questo modo, disponibili all’ascolto, non significa essere «neutrali» né «obliare sé stessi», ma più semplicemente essere coscienti dei propri pregiudizi. E’, questa, d’altronde, la grande lezione che proviene da Essere e tempo (e che Gadamer esplicitamente recepisce e fa propria) dell’Heidegger, in cui si spiega che l’Esserci, nell’ “Altro”, percepisce «un doppione del se-Stesso» (Essere e Tempo, par. 26).
Questa disponibilità all’ascolto è un andare incontro all’altro, comprenderlo ed in tal modo “costruire” qualcosa. E’ in questo senso che parliamo di dialogo “costruttivo”, e che Gadamer parla di «fusione di orizzonti», un unicum essenziale nel quale si mantengono tuttavia inalterate le identità particolari.
Ascoltare l’altro essendo disponibili a sospendere i propri pregiudizi senza però obliarli (e con essi sé stessi) significa avere un approccio costruttivo. Una fondamentale conseguenza implicita nell’impostazione di un dialogo costruttivo è che si è disposti a comprendere le ragioni dell’altro e a riconoscere, in un certo qual modo, il proprio torto. In questo contesto, si è cioè disposti a “sapere di non sapere”: questo è, forse, il più grande insegnamento che Socrate e Platone ci abbiano tramandato, e a cui Gadamer vuole dare nuova polpa vitale in un secolo (Verità e metodo viene pubblicata nel 1960) caratterizzato dalla dimenticanza (nella prima metà del secolo) dell’importanza di un dialogo costruttivo tra gli uomini.
Sapere di non sapere è, in ultima analisi, quella condizione che permette la (ri)scoperta di un fondamento etico nel vivere-assieme (inter-individuale ma anche inter-nazionale, ma su questo punto qui non possiamo soffermarci). Nel dialogo con l’altro sono dunque disposto a riconoscere costruttivamente la mia ignoranza. Il riconoscimento di questa istanza, se presente sia da una parte che dall’altra, diviene occasione di una crescita spirituale di tutti coloro che partecipano a questo simposio, e alla fin dei conti di tutta l’umanità.
25 maggio 2020