L’attualità pone nuovi problemi di caratura globale che nessuno Stato può pensare di risolvere singolarmente: l’agire singolarmente non può più risolvere problematiche plurali. Di fronte a tali sfide, sarebbe necessaria una politica trans-nazionale, che sia capace di preservare il rapporto interno-esterno.
“Voi G8, noi sei miliardi” è lo slogan che caratterizzò il famoso G8 di Genova del 2001. Sono parole forti, quelle di migliaia di giovani che nelle piazze genovesi urlavano contro le 8 maggiori potenze, le quali cercavano di controllare il futuro di 6 miliardi di persone. Parole tanto forti da connotare la comune convinzione che il futuro del mondo fosse nelle mani di poche e privilegiate comunità nazionali, come se ci fosse un comune destino, un unico impero e 6 miliardi di colonizzati. Eppure Lorenzo Marsili, nel 2019, scrive: «il controllo sul futuro scivola di mano non già a qualche potenza in declino, ma a sette miliardi di esseri umani divisi nelle loro impotenti comunità nazionali» (L. Marsili, La tua patria è il mondo intero).
Sono parole ancor più forti quelle di Marsili che capovolgono la presa di coscienza espressa nello slogan del G8 e descrivono una realtà silenziosa in cui si assiste alla provincializzazione del mondo. Tale provincializzazione si estende su due livelli, uno orizzontale e uno verticale.
Nel primo assistiamo ad uno spostamento del baricentro mondiale, di cui ne è un esempio il tramonto dell’Europa: la realtà attuale è ben diversa da quella immaginata dal progetto storicistico ed eurocentrico dell’Occidente, il quale ha cercato, attraverso la globalizzazione, di portare la modernità europea nel Terzo Mondo. In virtù della visione di un mondo globalizzato, tale progetto «confinava gli indiani, gli africani e le nazioni altrettanto “rozze” in un’immaginaria sala d’aspetto della storia. Ciò finiva per trasformare in una sala d’aspetto anche la storia stessa» (D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa). Il risultato che si è ottenuto, contrariamente a ciò che ci si sarebbe potuti aspettare, non è stato il punto d’arrivo della storia con un mondo omogeneo ed eurocentrico, ma anzi, l’inizio di un nuovo capitolo che ha visto la provincializzazione dell’Europa con un ribaltamento tra colonizzatore e colonizzato, tra centro e provincia e un rafforzamento del rapporto interno-esterno. Basti pensare al rapido progresso asiatico o al vertiginoso incremento demografico africano per rendersi conto di come l’Europa e l’Occidente, nel giro di pochi decenni, occuperanno un ruolo marginale sullo scenario globale.
Il secondo livello di provincializzazione, quello verticale, di cui Marsili si fa portavoce, descrive come a diventare provincia non è «solamente l’Occidente, ma il mondo intero» (L. Marsili, La tua patria è il mondo intero). Il mondo intero diventa provincia in quanto gli stati nazionali non sono più in grado di garantire soluzioni alle sfide cui andiamo incontro se non a costo di sacrificare la propria sovranità: pensando al disastro ambientale o all’odierna pandemia, essi richiedono soluzioni ben più comunitarie e sofisticate di quelle proposte dai singoli stati sovrani. L’agire singolarmente non può più risolvere problematiche plurali.
In quest’ottica, l’attuale pandemia dovrebbe invitarci a riflettere sulla necessità di accantonare la relazione interno-esterno, affinché sia possibile, dinnanzi a problematiche globali, superare i limiti imposti dalle sovranità nazionali.
« La crisi globale del nostro tempo vede un complesso di sfide […] che nessuno Stato nazionale è più in grado di governare. Il risultato è una straordinaria provincializzazione delle nostre forme politiche rispetto alle prove che l’umanità si trova ad affrontare » (L. Marsili, La tua patria è il mondo intero).
È un campo molto delicato quello su cui ci muoviamo, perciò riteniamo opportuno fare una precisazione: il rapporto interno-esterno è indispensabile per la salvaguardia della diversità, dei multiculturalismi, dell’affermazione e riconoscimento individuale. Per riprendere una massima spinoziana, ampiamente discussa da Hegel, «omnis determinatio est negatio», ogni determinazione è una negazione: solo negando ciò che non si è, diventa possibile riconoscersi; in altri termini la nostra individualità, per determinarsi, necessita conoscere ciò da cui è diversa, necessita l’esistenza della sua negazione. Nel rapporto con l’altro intravediamo la negazione dell’io, nel senso che l’esterno si presenta come diverso dall’interno: l’altro è tale in quanto diverso da me. Annullando il rapporto interno-esterno dunque correremmo il rischio di perdere le nostre individualità, le nostre storie, insomma perderemmo quegli infiniti universi simbolici che costituiscono l’unicità di ogni individuo. La società che si prospetterebbe allora sarebbe una società che getti gli individui in una condizione di subalternità, ognuno di noi diventerebbe un automa omologato e legato ad un unico destino, senza una storia e senza un futuro.
Tale rischio d’altronde è già stato ampiamente denunciato dai Post-Colonial Studies i quali, durante la fase di decolonizzazione, intravedevano nella globalizzazione una minaccia che rischiava di gettare in una condizione di subalternità le culture del Terzo mondo precedentemente colonizzate. Pertanto, possiamo affermare che annullando completamente il rapporto interno-esterno ci muoveremmo allo stesso modo di come si è mosso l’eurocentrismo storicista, confinando la nostra storia in un’ulteriore sala d’aspetto. Per questo, riteniamo che sia indispensabile salvaguardare la diversità almeno quanto l’eguaglianza; in questo senso si potrebbe parlare di diversità egualitaria, al fine di protendere verso una società di «eguali che vogliono essere riconosciuti come diversi» (F. Fistetti, La svolta culturale dell’Occidente).
Ma allora, come possiamo superare la provincializzazione degli stati nazionali di fronte a problematiche globali, salvaguardando il rapporto interno-esterno, e dunque le nostre identità? Di fronte a questa problematica, in cui «la globalizzazione appare sempre più fuori dal nostro controllo, preda di forze che non possiamo influenzare, [..] la nostra reazione può essere quella di una chiusura, di un tentato ritorno ad un’unità più piccola che riteniamo possa ancora ascoltare le nostre preoccupazioni» (L. Marsili, La tua patria è il mondo intero), Marsili propone un’attività politica trans-nazionale, capace di portare l’esterno nell’interno e viceversa: «non si tratta di contenitori stagni, ma di diverse istanze in un unico movimento, di un continuum, di quella striscia di Möbius in cui il fuori si riversa nel dentro» (L. Marsili, La tua patria è il mondo intero).
Pertanto, l’attuale pandemia ci fornisce l’esigenza di riflettere su un nuovo internazionalismo: una cooperazione globale che preservi il rapporto interno-esterno.
28 maggio 2020