Il governo in questi giorni sta emanando una serie di decreti molto restrittivi: siamo obbligati a rimanere a casa, a spostarci solo per lavoro, per la spesa o in casi di emergenza. Ad alcuni sembra quasi di essere stati privati della propria libertà, e non accettano tali restrizioni. Ma è davvero così? Si può davvero parlare di privazione della propria libertà? No, perché essere liberi non vuol dire fare ciò che vogliamo, ché nel momento in cui non possiamo più farlo ci sentiamo privati della nostra libertà, ma sta nel riflettere e comprendere chi siamo.
Quello che il dolce Pascoli avrebbe descritto come “il nido”, per alcuni oggi sta diventando la prigione più aspra dal momento che si sentono privati della libertà di cui prima godevano e increduli si domandano come sia possibile che in Italia avvenga ciò. L'Italia: un paese libero, indipendente, che è riuscita, lottando, ad ottenere tanti diritti.
Sì, è vero, in passato si è lottato per tutto questo ma il problema, che costoro non vedono, è che oggi abbiamo condannato la libertà all'abitudine. Non lo credete? Non siamo forse abituati ad essere liberi? O meglio, a ritenerci liberi? Siamo abituati a fare quello che vogliamo e possiamo farlo perché qualcuno prima di noi, dando la vita, per ideali in cui credeva, ci ha permesso di vivere nella comodità. Ma non era certo quello che si aspettava! E proprio adesso che questi diritti ce li abbiamo, non cerchiamo di comprenderli!
Essere liberi non vuol dire fare quello che si vuole, ma comprendere ciò che si è. Prima di questa “reclusione” eravamo davvero abituati a una storpiatura di libertà e viziati da quello che altri prima di noi avevano guadagnato.
Abituati a una storpiatura di libertà e viziati perché il consumismo faceva da padrone e l'io si credeva al centro del mondo. Continueremo a parlare ancora di tutto questo al passato o, finita l'epidemia, torneremo a usare il presente?
È necessario comprendere in profondità ciò che accade, e non solo perché ci accade. Vivere in prima persona qualcosa, può aiutare, ma se non la si analizza, non la si può comprendere davvero e quella cosa non verrà mai risolta.
È palese che se riteniamo essere la libertà, fare ciò che vogliamo, nel momento in cui questo ci viene negato pensiamo di non essere più liberi. Ecco perché questo periodo dovrebbe aiutarci, potrebbe aiutarci nell'analizzare, più di prima, chi siamo. Quanto appaiono ora importanti, fondamentali i rapporti tra individui? Quanto siamo bisognosi del contatto fisico, della viva presenza dell'altro? E quanto ci stanno mancando gli amici, il semplice ed essenziale fatto di vedere altre persone camminare per la strada, salutarsi, sorridere? Quanto ci stanno mancando gli abbracci, i baci? E questo a riprova del fatto che siamo legati ad altri, del fatto che non c'è solo il nostro io al centro del mondo. Ricordiamo una delle frasi più celebri del film Cloud Atlas:
« La nostra vita non è nostra. Da grembo a tomba siamo legati ad altri, passati e presenti. E da ogni crimine e ogni gentilezza generiamo il nostro futuro »
Pochi mesi fa respingevamo uomini, della nostra stessa sostanza, dalle nostre spiagge. Quanti morti per un egoismo incomprensibile e quanti morti tutt'ora! Ci sono bambini che muoiono da profughi, assiderati, nel 2020. Noi, cittadini, invece, che di sopravvivenza non abbiamo problemi, ci permettiamo di non comprenderci come uomini, provocando morti su morti. Oggi abbiamo la possibilità di riflettere su ciò che siamo. Non dare aiuto a un altro uomo, pensare di essere slegati dagli altri, significa alienarsi da se stessi, perché non riconosciamo l'altro della nostra stessa sostanza, e quindi, anche noi, diventiamo estranei a noi stessi. Heidegger in Sentieri interrotti, nel saggio Perché i poeti, commentando alcuni versi di Hölderlin, afferma che siamo talmente mancanti oggigiorno che non ci rendiamo nemmeno conto di questa mancanza. Siamo vuoti.
Adesso, ci sta aiutando quest'esperienza nel sentire cosa vuole dire “mancanza di qualcuno” ma questo ci deve servire quando questa mancanza non ci sarà più, quando avremo la presenza di qualcuno, quando un altro essere umano ci sarà presente; sarà in quel momento che non dovremo dimenticarci di ciò che abbiamo vissuto solo perché siamo tornati alle vecchie comodità. La libertà, i diritti non sono comodità, non sono un letto soffice su cui vegetare, ma è ciò che ci serve per essere cittadini, per essere uomini. È necessario ragionare su quello che abbiamo e non prenderlo come dato di fatto perché poi quando una situazione cambia, non sappiamo cosa abbiamo tra le mani e cadiamo nella banalità.
Primo Levi, in Se questo è un uomo racconta di quando, a un certo Pikolo, tentò di insegnargli l'italiano, ma avevano poco tempo, un'ora, neanche. L'unica cosa che gli viene in mente è il Canto di Ulisse in Dante, e prova a tradurlo in francese a Pikolo, fino a quando non giunge ai versi celeberrimi. Il passo è un po' lungo ma vale la pena di riportarlo:
« Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza,
Come se anch'io sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec'io sì acuti...
...e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo “acuti”. Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. “... Lo lume era di sotto alla luna” o qualcosa di simile; ma prima? … Nessuna idea, “Keine Ahnung” come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
[…]
… Quando mi apparve una montagna, bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna,
Sì, sì, “alta tanto”, non “molto alta”, proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano... le montagne oh Pikolo, Pikolo, di' qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino! Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda. Darei la zuppa di oggi per saper saldare “non ne avevo alcuna” col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: “… la terra lagrimosa diede vento...” no, è un'altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Tre volte il fe' girar con tutte l'acque
Alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giù, come altrui piacque...
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell'intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui...
Siamo ormai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. -Kraut un Rüben? -Kraut und Rüben-. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: - Choux et navets. - Kaposzta és répak.
Infin che 'l mar fu sopra noi richiuso. »
Una grande lezione, questa di Primo Levi, di come, attraverso le parole di Padre Dante – il poeta di una grande impresa – in un'ora, in una condizione di schiavitù, tentò di riconquistare la libertà perduta, la vera libertà: tornare a essere uomini.
E i versi di W. Szymborska ci aiutano a commentare la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, tragedia che con altri attori ancora oggi continua a verificarsi sul palcoscenico del mondo:
CERCO LA PAROLA
Voglio con una parola
descriverli.
Prendo le parole quotidiane, dai dizionari le
rubo,
misuro, peso e scruto.
Nessuna corrisponde.
Le più ardite – sanno di codardia,
le più sdegnose – ancora sante,
le più crudeli – troppo compassionevoli,
le più odiose – troppo poco violente.
Questa parola deve essere come un vulcano,
che erutta, scorre, abbatte
come terribile ira di Dio,
come odio bollente.
Voglio che questa unica parola
sia impregnata di sangue,
che come le mura tra cui si uccideva
contenga in sé tutte le fosse comuni.
Che descriva precisamente e con chiarezza
chi erano loro – tutto ciò che è successo.
Perché questo che ascolto,
perché questo che si scrive
è ancora troppo poco.
La nostra lingua è impotente,
i suoi suoni all'improvviso poveri.
Cerco con lo sforzo della mente
cerco questa parola
ma non riesco a trovarla.
Non riesco.
(tr. it. Di Maciej Bielawski)
Ecco, noi non ci troviamo in queste condizioni, nessuno ci sta privando della nostra più intima sostanza, piuttosto prima di questa epidemia eravamo noi stessi ad esserci estranei, eravamo noi stessi a compiere una delle più potenti contraddizioni, alienarci, essere altro da noi perché l'altro era un estraneo. Ora stiamo percependo la mancanza dell'altro, ma dobbiamo analizzare in profondità questo concetto per essere pronti dopo l'epidemia ad avere nuove visioni e a far sì che le nobili parole dei classici possano essere l'ossigeno per il futuro...
25 marzo 2020
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