L’impenetrabile contesto politico cinese per decenni è stato fonte di scetticismo. Basta il ricordo di piazza Tienanmen per suscitare perplessità su cosa sia davvero il potere a Pechino. Tuttavia, l’epocale crescita economica del dopo Mao ha proiettato il grande dragone oltre la Guerra fredda e l’annunciata “fine della Storia”, rendendo la Cina una potenza globale. Nell’attuale disordine multipolare quello cinese potrebbe essere un modello da seguire? In caso affermativo, bisogna tenere conto del prezzo da pagare, che potrebbe essere molto alto.
Il 1° ottobre del 2019 la Repubblica Popolare Cinese ha festeggiato i suoi primi settant’anni. L’imponente parata militare di Pechino pone, di fondo, due considerazioni in particolare. I tempi in cui la Cina si poteva considerare un eterno cantiere geopolitico dal futuro indecifrabile appartengono agli storici delle relazioni internazionali. Il dragone non è più mero oggetto di contesa tra superpotenze nel mondo bipolare, ma assoluto protagonista dell’attuale “era multipolare” di tutto rispetto, con una sua precisa direzione. La seconda considerazione è di quella appena descritta: dalle immagini che hanno fatto il giro del mondo pare evidente l’entusiasmo collettivo verso un progetto espansionistico a tutto campo (culturale, diplomatico e economico; in altre parole, soft power) che riposa nel volto rassicurante del presidente Xi Jinping. Quest’ultimo, in occasione del 2° China International Import Expo (CIIE), svoltosi lo scorso novembre, ha pronunciato parole molto rilevanti sull’aspetto soft della politica estera cinese, alla presenza di alcune importanti personalità internazionali (tra cui spiccava il presidente francese Emmanuel Macron). Xi ha tracciato la strada per il futuro nelle tappe dell’apertura e della cooperazione (il tema dell’evento era proprio New Era, Shared Future), enfatizzando come sia la globalizzazione economica lo strumento per ridurre le difficoltà dell’economia mondiale. La domanda sorge spontanea: come ha fatto un paese che all’indomani della sua proclamazione si era trovato stretto tra fame e povertà, a diventare oggi una potenza economica mondiale (seconda solo agli Stati Uniti)? È davvero merito del millantato “modello cinese”?
La risposta forse sta nella lungimiranza del riformista Deng Xiapong, che dinanzi a un mondo in piena trasformazione mise da parte la rigida impostazione maoista per ricostruire il volto di una nazione uscita a pezzi dagli eccessi ideologici del Grande Timoniere. Un modello, quello cinese, che negli ultimi anni è divenuto oggetto di interesse da parte di studiosi, esperti e persino leader politici, al punto da porsi concretamente come un’alternativa nelle modalità d’esercizio della governance globale. Può, quindi, l’ascesa cinese degli ultimi quarant’anni giustificare una seria contrapposizione tra il “socialismo con caratteristiche cinesi” e quello che resta dell’ordine internazionale liberale? Quest’ultimo fin dal secondo dopoguerra ha visto nell’asse nordatlantico il suo cardine, contrapponendosi con successo alla rivale way of life rappresentata da tutto ciò che c’era al di là della cortina di ferro. Alla fine degli anni Quaranta quindi, da un lato le due sponde atlantiche collaboravano per dare inizio a quella che poi sarebbe passata alla storia come la loro Golden age; dall’altro, URSS e Cina facevano i conti con le loro territorialità immense, ma altrettanto problematiche. Il boom economico occidentale era il miglior biglietto da visita possibile per quel nuovo modello costruito sull’asse libertà-capitalismo, lontano anni luce dai terribili piani quinquennali staliniani e dai faticosi “balzi in avanti” cinesi.
Lo sfascio dell’URSS, la nascita dell’Unione europea e il momento di apparente onnipotenza statunitense sembravano davvero scrivere la fine della Storia. L’Occidente a guida a stelle e strisce era l’unica way of life sensata, sembrava. Il nuovo millennio però, aveva altri piani. Il frutto delle modernizzazioni denghiane iniziava a intravedersi, così come la risolutezza del nuovo zar Vladimir Putin, che con mano ferma risolse alcuni dei problemi lasciati per strada dalla confusa stagione di Boris Eltsin. Ma il cambiamento più grande fu quello che piombò come un meteorite sull’asse nordatlantico. Non solo le conseguenze epocali dell’11 settembre, ma anche un sodalizio europeo che, seppur in fase di ampliamento nella forma, nella sostanza iniziava a sentirsi compresso. Tutto ciò, sullo sfondo del profondo mutamento economico-ideologico che aveva riguardato tutto l’Occidente. A partire dagli anni Settanta i postulati su cui la società della Golden age si era retta si sgretolarono sotto i colpi una nuova “ragione del mondo” che fino ad allora pareva essere solo materia per accademici: il neoliberalismo. L’asse democrazia-capitalismo saltò a favore del secondo, con buona pace delle conquiste sociali e sindacali frutto di intense lotte di classe. Se l’esperimento cileno dei Chicago boys di Milton Friedman era giustificato dalla feroce dittatura che poco spazio lasciava alle critiche, l’avvento della Thatcher prima e di Reagan subito dopo cambiò definitivamente l’anima della società occidentale. Quel modello, che secondo Roosvelt avrebbe dovuto garantire le nobili four freedoms cedette il passo al discutibile trickle down reaganiano. Una sorte simile toccò a quell’ambizioso Welfare state che, nelle parole di Beveridge, doveva occuparsi dei cittadini inglesi “from the cradle to the grave”. La Thatcher invece, passerà alla storia per aver addirittura negato l’esistenza di una cosa come la società.
Sicché le contraddizioni interne alla società occidentale, trascurate nell’ebbrezza della vittoria sui sovietici, vennero brutalmente a galla con l’inizio del nuovo millennio. Un susseguirsi di tensioni economiche a partire dai primi anni 2000 troverà il suo apice tra il 2007-2008, mettendo gran parte delle economie occidentali in ginocchio. Un problema che ha appena sfiorato la rampante economia cinese, mostrandola al mondo come un interessante modello da considerare, almeno sotto quest’aspetto. Un po' come accadde con la crisi del 1929, quando dall’estero alcuni esperti si recarono in terra sovietica per carpire i segreti della misteriosa economia comunista. Il successo cinese che oggi porta il volto del “nuovo Mao” si deve, come accennato, allo spartiacque rappresentato dalla graduale apertura economica verso l’esterno promossa a suo tempo da Deng Xiapiong. L’odierna leadership di Xi Jinping, - per garantire la quale si è andata persino a riformare appositamente la costituzione nel marzo 2018 - e i suoi progetti “imperiali” (Belt and Road Initiative in primis) possono essere visti come una sorta di seconda fase dell’esplosione economica avviata dalle celebri quattro modernizzazioni risalenti alla fine degli anni Settanta. La grande trasformazione cinese ha dato a un popolo di quasi 1,4 miliardi di persone la convinzione tangibile che finalmente è arrivato anche per loro il momento di scrivere da protagonisti la storia del mondo. Non va dimenticato che la Cina tra la prima guerra dell’oppio (1839-42) e la vittoria comunista (1949) subì un secolo umiliante, nel quale gli stranieri provenienti da Ovest, emissari dei grandi imperi dell’epoca, aggredirono quelle immense terre e i popoli che da millenni le vivevano.
Tale cambiamento ha imposto una riconsiderazione di ciò che è diventata la Cina anche da parte degli altri attori internazionali (in primis gli Stati Uniti). Penetrante e accorta diplomazia di stampo anche culturale ed economico (soft) e una componente orgogliosamente militare (hard) sono le due gambe sulla quale cammina la Cina moderna. Il primo aspetto ha avuto così tanto successo che ormai parlare di lingua, storia, letteratura, politica e persino cucina cinese all’estero è diventata la normalità, così come recarsi in Cina per studio o lavoro; uno scenario impensabile fino a qualche decennio fa. L’altra parte del power cinese invece prevede un miglioramento di risorse e capacità militari grazie agli ingenti investimenti degli ultimi anni e alla rinnovata ambizione sul controllo dei mari vicini, interessantissimo punto messo al centro dell’agenda cinese da Xi (che oltre ad essere capo del PCC e presidente cinese, ricopre anche la carica di presidente della Commissione militare centrale), come confermato dal varo in pompa magna della Shandong, la prima portaerei interamente costruita in Cina. Una visione egemonica quella sui mari (Sea power) necessaria per aspirare al ruolo di grande potenza non più solo economica e diplomatica. La Cina sta rafforzando i propri legami commerciali, politici e militari soprattutto con quei paesi dalla posizione strategicamente rilevante che si affacciano sull’Oceano Indiano. Alcuni autori la chiamano “strategia del filo di perle” ed è dalla tenuta di queste relazioni che dipende il futuro delle pretese cinesi su quest’immensa area marittima e sulle sue redditizie rotte commerciali, in un quadro più ampio che comprende il Mar Cinese Meridionale (e le sue isole contese).
Un discorso questo che, se unito alla rapidità con cui si è arrivati a tali impressionati risultati, fa velocemente dimenticare a quale prezzo si siano raggiunti. La Cina è diventata il primo consumatore di petrolio e di energia al mondo, ma spesso i media ne sottolineano l’avanguardia nel settore delle energie rinnovabili. I progressi raggiunti dall’edilizia, nelle infrastrutture, nella tecnologia e nei trasporti erano impensabili alla morte di Mao, ma quanti milioni di lavoratori hanno sofferto per strada? Tuttavia il modello di governo cinese attrae e affascina, col suo atavico richiamo rappresentato dal capo indiscusso al comando e dall’immaginario che questo fattore oggi comporta in alcune democrazie europee, alle prese con governi instabili e difficoltà economiche strutturali. Un fascino che in alcuni casi coinvolge anche figure simili come quelle di Trump e Putin.
Soppesare in nome del successo economico alcuni dei princìpi tipici delle democrazie occidentali, quali la libertà economica privata e le regolari elezioni dei governanti, con quelli insiti nel modello cinese di tutt’altro respiro, vuol dire anche mettere in discussione gli stessi diritti sottostanti a questi postulati. Il rischio, già ampiamente sperimentato in parte con la neoliberalizzazione, è che certi diritti si considerino “negoziabili”, quasi come fossero una zavorra al progresso. Per il momento la differenza, non da poco, sta in quello che accadde a piazza Tienanmen trenta anni fa. L’apertura cinese a forme di economia di mercato controllata non si accompagnò ad un avvicinamento sulle garanzie democratiche. Deng giustificò a posteriori quel massacro in nome della stabilità economica. Un caso estremo, ma non diverso dal prezzo che, spalmato negli anni, molti paesi europei hanno pagato in termini di divario e miseria sociale, per rispettare bilanci e patti economici basati sui dogmi della crescita e della competitività. Non meno rilevante è l’opulenta società statunitense, tra le più diseguali al mondo.
Il successo epocale cinese è arrivato alla fine, avallando a posteriori le parole di Deng sui fatti dell’89. I movimenti euroscettici e populisti che stanno prendendo sempre più piede in Europa spesso reclamano una leadership forte e autoritaria, che possa azzerare le lungaggini delle catene decisionali tipiche delle democrazie parlamentari. A metà degli anni Settanta alcuni studiosi eccellenti parlarono persino di un “eccesso di democrazia”, la quale andando in sovraccarico per le troppe istanze dei cittadini non riesce a spiccare il volo. In altre parole, siamo arrivati al punto che non è fantascienza mettere sulla bilancia i due modelli e valutarne pregi e difetti. Un gioco, però, altamente pericoloso. Ogni progresso comporta un sacrificio; cosa vada giustiziato sull’altare della crescita e della stabilità politico-economica ce l’hanno detto già Washington e Londra negli anni Ottanta. Nonostante questo, almeno sulla carta e nella forma, la democrazia occidentale esiste ancora, seppur neoliberalizzata. Un passo più lungo della gamba, per avvicinarsi alla presunta governance vincente cinese, abbasserebbe ancora di più l’asticella delle garanzie democratiche, ormai già da tempo negoziabili. Andare oltre un certo limite rischia solo di aggravare ancora di più le crepe insite nel modello occidentale. Quanta distanza c’è tra questo concetto e il modello cinese? Molto meno di quanto si possa pensare.
24 marzo 2020
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