L'egoismo e l'antropocentrismo hanno un prezzo e un limite, alla stessa stregua dell'uomo, che ha reso il prezzo la misura del tutto che lo circonda. Paradossalmente questo è forse uno dei migliori momenti per condividere e coltivare qualche paradigmatica riflessione di natura eclettica riguardante la contemporaneità e il dramma della condizione umana e sociale, grazie all'analisi psicologico-filosofica dei contenuti della celebre serie TV antologica Black Mirror di Charlie Broocker.
Accenni psicologici introduttivi
In virtù della teoria comportamentista si fece spazio nell’immaginario della psicologia una definizione della mente paragonata ad una “scatola nera” (black box), ossia un dispositivo il cui funzionamento interno è non visibile o ignoto, di cui sono rilevabili solo gli input (stimoli in entrata) e gli output (risposte in uscita), ovvero, solo la reazione in uscita a una determinata sollecitazione in ingresso. Questa definizione è stata surclassata intorno agli anni ’50 del ‘900 dalla teoria computazionale dei cognitivisti, secondo cui la mente è identificabile con un computer, nonché un elaboratore di dati sotto forma di algoritmi. Nel corso della storia si è potuto constatare come la scienza sia un sapere in continuo mutamento e come i suoi prodotti teorici vengano sostituiti da paradigmi radicalmente nuovi tramite la formulazione di idee, dettate dalla propensione alla scoperta e al superamento del limite intrinseco nella natura umana. Questo procedimento rispecchia la natura rarefatta e dinamica della mente che si riflette sugli oggetti che essa stessa produce. La scoperta tecnologica rappresenta una sfaccettatura del progresso come amplificatore delle possibilità umane, che innesca un’assenza di limite dalla quale scaturiscono possibili effetti nel substrato psicologico sociale ed individuale. Black Mirror può essere considerata una produzione artistico-filosofica utile per una crescita psicologica, in quanto suscita domande esistenziali, che coinvolgono sia le perplessità sul progresso dell’umanità, che le modalità con le quali ogni individuo si rapporta al progresso stesso.
Cos'è dunque il limite? Un confine che limita o una soglia che apre ad altro?
Per introdurre il concetto di limite possiamo iniziare considerando il significato etimologico che deriva da due differenti sostantivi latini, ossia limes, limitis e limen, liminis. Il primo assume un'accezione negativa di confine, che costituisce per l'uomo una barriera invalicabile e che, dunque, lo segrega in uno stato di prigionia; al contrario, il secondo ha il valore di soglia, ed è per l'uomo passaggio, apertura verso nuovi orizzonti. Non esiste limite se non in relazione a qualcos'altro; Il soggetto mantiene una percezione del proprio limite in rapporto a determinati domini della quotidianità, nonché compiti vitali, come ad esempio: lavoro, affettività, amore. Nonostante la percezione soggettiva, l'individuo sviluppa una progressiva conoscenza delle proprie risorse e potenzialità ma presenta, reconditamente, un’incapacità di accettazione dei limiti più radicali; questo intimo divario lo conduce a specchiarsi, cioè a mettersi di fronte a se stesso. La costruzione di questa immagine speculare è simbolo di una presa di coscienza della finitudine dell'uomo, della condizione stessa di essere limitato e imperfetto.
La caducità e San Junipero
Cosa potremmo, dunque, concepire come il limite naturale per eccellenza che regola tutto e tutti, se non la morte? Il punto di approdo della vita empirica permette di dare un senso e un valore alla nostra stessa esistenza. La morte definisce la precarietà dell'uomo e scandisce il tempo della sua vita terrena. L’episodio di San Junipero descrive la storia di un amore collocato al di fuori delle reali connotazioni della realtà, lontano dalle circostanze spiacevoli e aleatorie della vita empirica e che potenzialmente trascende la conclusione definitiva di quest’ultima. Si parla, dunque, di una dimensione riconducibile ad una realtà virtuale che rappresenta un rifugio/fuga. Emerge particolarmente in questi scenari la spiccata e geniale capacità attrattiva di Brooker nel mettere in mostra questo “eden” eterno e artificiale (Heaven is a place on earth), in cui l’amore risulta inintaccabile dal tempo, così come la corporeità dei personaggi che divengono avatar. Quel mondo rarefatto diviene un portale tecnologico (Westword) di fuga da una realtà avvilente e una vittoria (apparente?) sulla morte. Ma così come il limite è il paradosso inestricabile della nostra natura, così San Junipero si rivela in conclusione un’illusione, una scappatoia, una rinuncia all’esistenza autentica. L’emblematica chiusura non presenta, infatti, il classico lieto fine con la spensierata corsa in macchina delle due ragazze nelle strade della California anni ‘80, bensì mette in mostra l’immagine di un’immensa distesa di capsule metalliche, sterili, spogliate delle sensazioni e dei contorni emotivi che valgono come prova dell’essere davvero vivi. Questo contrasto è reso, inoltre, dal punto di vista scenografico, con lo stacco cromatico e concettuale dell’immenso orizzonte ripreso al tramonto e, di contro, lo spazio cupo e freddo adibito a contenere le coscienze umane intrappolate. Ecco che diviene particolarmente rilevante, in questo frangente, il quesito enfatico posto da Kelly: «Vuoi passare il resto dei tuoi giorni in un luogo in cui niente è realmente importante? E finire come […] tutti quegli inutili, fottuti, idioti al Quagmire che provano di tutto pur di sentire qualcosa?». In questo interrogativo esistenziale, dalle sfumature etico-morali, emerge la metamorfosi che trasforma l’uomo in un ente meccanico apparentemente infinito ma vincolato in eterno all’interno di un paradiso virtuale, o, piuttosto, un inquietante cimitero cyborg che connota il disfacimento del mondo interno dell’uomo. La tecnologia avanza in primis una promessa di immortalità, che la accomuna a una fede religiosa più che a una tecnica di ottimizzazione del tempo utile a colmare la deficienza biologica.
Limite della temporalità in The entire history of you
L'episodio terzo della prima stagione si configura come un tentativo di abbattere una delle più grandi barriere umane: il tempo, ovvero la finitudine. L’episodio tratta l’esistenza, in termini sconcertanti, di un “paradosso del rivivere”; una negazione del ciclo della vita che diventa un circolo o, piuttosto, un circuito di ricordi registrati, manipolati, rivissuti attraverso un processo denominato “re-do” che va a discapito della natura autoriflessiva autentica e della facoltà mnestica umana. La memoria artificiale sembra una vera e propria arma a doppio taglio il cui uso distruttivo di un chip sfocia nell’imputabilità di comportamenti dal forte senso anti-etico; il potenziamento delle facoltà umane si affianca ad una amplificazione degli istinti più degradanti, collocando l’uomo all’interno di sovrastrutture che altro non sono che il risultato della società in cui viviamo, la cosiddetta selfie-culture permeata dalla tecnologia. Per questi motivi si giunge a identificare Black Mirror come prodotto artistico-distopico, nonché una rappresentazione volutamente deformata dello stesso sistema sociale e culturale. In una modalità relativamente conscia, ogni strumento tecnologico è stato inglobato nella vita umana come riempitivo esistenziale, volto ad alleviare le tendenze ansiogene e inquiete. Per questo motivo, i più grandi limiti dell’uomo, le sue ombre più oscure, si concretizzano in una realtà non più tanto futuristica, in cui si è alla ricerca di controllo delle perdite, di accettazione collettiva e conferme illusorie di infallibilità; tutto in virtù di una sempre più spiccata incapacità di tolleranza dei vincoli e delle zone d’ombra. Il dispositivo spalanca le porte al principio di piacere e alla soddisfazione di bisogni che soggiacciono nell’inconscio e che si esplicano con tendenze ossessive e forme bizzarre di compulsività. Nell’era tecnologica, il desiderio è quello di catturare e cristallizzare ricordi che con il chip rimarrebbero bloccati in dato oggettivo sempre uguale a se stesso. I dispositivi producono un’elaborazione archivistica annebbiando la coscienza con una dimensione atemporale o facendola collassare in una temporalità virtuale concentrica, nella quale non vi è spazio alla riflessività, poiché il pensiero umano ha trasceso il suo limite sfociando dell’iter della “rinarrazione”. Il necessario elemento di irreversibilità si viene a perdere con il “grain”, ma non accade lo stesso nel senso delle relazioni umane e sentimentali, la cui conclusione sembra piuttosto reale e non meno tragica della concreta ipertecnologizzazione del sé. L’uomo-macchina, il cyborg, è la metafora della perdita dell’empatia, come traspare dagli occhi stessi dei protagonisti che hanno una connotazione assente e passiva, il cui aspetto robotico e cristallino si accomuna alla cecità del dispositivo privo di software. La possibilità di rivedere i nostri ricordi, come se fossero ingabbiati in una pellicola cinematografica, implica una necessaria depersonalizzazione e de-eroticizzazione della realtà autentica e interpersonale. Questo forte dislivello tra il sostanziale e l’apparente provoca un eccesso nell’investimento economico, affettivo e temporale che viene fatto su di un congegno elettronico e che porta ad un picco massimo di interazione “social” come nuovo modello di esperienza mediale.
Black mirror ingloba dunque il paradigma esistenziale odierno, un mondo orientato dal principio dell'unlimited, del “tutto è possibile” e delle conseguenze estreme, antropologicamente insostenibili, di un ideale di perfezione che rifiuta la debolezza e l’umiltà di camminare affianco alla positiva coscienza del limite. La mancanza di questa innesca meccanismi inevitabilmente disumani, sfocia in una fenomenologia della psicosi e nella necessaria estraneità e inquietudine identitaria; la tecnologia riduce la possibilità di sperimentare il limite costruttivo di confronto con le proprie frustrazioni, lasciando l’uomo in balia delle sue pulsioni peggiori, del narcisismo tipico di chi guarda il mondo attraverso uno “schermo nero”. Questo stralcio di consapevolezza di un vuoto esistenziale è affiancato da un tentativo patologico computerizzato nato per soddisfare il bisogno di continuità ormai smarrito, così come un Sé in via di sgretolamento.
Homo e tèchne in White Christmas
Questo episodio si configura come il simbolo dell’implosione del senso di “progetto” intrinseco all’uomo; quest’ultimo in quanto ente autocosciente è sottoposto ad una rottura, assimilabile in senso immaginifico ai fotogrammi incipiali della sigla brookeriana, negli equilibri di interazione con il sé speculare e con l’immagine dell’altro, ridotto ad una semplice estensione della memoria sensoriale. L’alterità, contrariamente a quanto detto, implica il contatto con l'Altro che non può sussistere senza un legame necessario tra l’aspetto percettivo e l’intenzionalità in quanto forza che mette in connessione due enti, un soggetto e un oggetto. L’autocoscienza si trova costantemente in una condizione di “essere orientato verso”, che nell’era della digitalizzazione diviene un modo d’essere, e non più per essere. L’esserci rispecchia, in Heidegger, il paradigma costruttivo di uno sviluppo della téchne al servizio dell’uomo e del suo utile ontologico. Heidegger stesso affronta il significato esistenziale dell’ente individuale che, in questo frangente odierno, si riduce al triste esito della combinazione tragica di due processi oppositivi: la meccanizzazione dell’umanità e l’umanizzazione della macchina, per i quali si perde di vista l’orizzonte della storia naturale dell’uomo. Proprio nello “speciale 2014” di fine quarta stagione, White Christmas, si aprono gli scenari in cui l’uomo non è più padrone degli strumenti che ha realizzato, divenendo un’ombra e un fantasma della tecnica, incapace di dare un orientamento alla sua esistenza. Questa inquietante condizione “postumana” provoca ripercussioni distruttive nel meccanismo di costruzione di una coscienza sociale, in linea con i bisogni dell’uomo e con lo status di consapevolezza delle necessarie dinamiche relazionali sociali tra individui, gruppi e comunità. Un individuo socialmente consapevole valorizza i diritti umani e riconosce l'importanza di un’equilibrata interazione sociale per il progresso evolutivo della sua specie di appartenenza. Brooker distrugge l’utopia raccontando con cinica e spiccata lucidità la distanza infinita esistente tra esseri umani in un mondo dominato da sistemi di natura de-personalizzante. Questa rivoluzione psico-tecnologica inizia come testimonianza del crescente interesse per le nuove dipendenze, divenendo una condanna ai legami recisi, anche in senso irreversibile fino alla morte vera a propria, così come emerge dalla “funzione blocco” di impatto sconcertante; i dispositivi-oggetto centrali nell’intera puntata, gli Zed-Eyes , hanno il potere di eliminare un corpo, o comunque di ridurlo ad una sagoma, espropriandolo della propria immagine e quindi della propria identità. Questa “funzionalità” rappresenta una concreta reductio dell’immagine a icona che, nel senso grafico del termine, implica la perdita della sua carica di significato e di ogni capacità comunicativa e rappresentativa. Lo sguardo anestetizzato non è più capace né di sentire né di empatizzare; rimane ipnotizzato dal mondo delle immagini artificiali, che rendono invisibile la presenza umana a causa dell’“assenza iconica” nelle sue diverse sfaccettature cromatiche, di grigio o rosso, a seconda del blocco inserito. L’oscurità del sé disumanizzato viene ulteriormente amplificata dal bagliore delle luci natalizie e la realtà di solitudine, alienazione e freddo cinismo è accentuata dal candore abbagliante della neve. Il Natale, i cliché dello spirito delle feste, vengono deturparti della loro positività per mostrare al mondo la primitiva e viscerale cattiveria umana. L’argomento implicito su cui si basa l’intera puntata è, dunque, la consapevolezza, smarrita e ricercata; si desume dalla fantomatica realizzazione di una coscienza clonata in formato elettronico, un cookie di colore eccezionalmente nero rispetto agli altri dispositivi, di richiamo al continuo gioco di opposizione cromatica e concettuale; questo duplicato di coscienza digitale è privato della corporeità ma con le esatte percezioni di un essere umano vittima di una condanna eterna alla percezione falsata e manipolata dagli altri uomini in un tunnel cieco di crudeltà psicologica. White Christmas è, infatti, una puntata che non si chiude mai, un cerchio infinito di ricordi che non ha fine; attraverso questo ricordo rivissuto “in loop” i protagonisti assistono alla sofferenza collettiva dell’umanità che ha sconfitto se stessa.
Il confine sfumato dell'autocoscienza
Queste devastanti tematiche di apatia e partecipazione al dramma sociale, tramite la separazione dello schermo nero, sono affiancate ad un fenomeno ravvisabile nella trama liquida della contemporaneità: la manipolazione dell’opinione pubblica, così come compare nell’episodio manifesto dell’intera serie. The national anthem è un contenuto di primissima fruizione dal titolo di forte impatto che veicola, a mo’ di denuncia, una nuova forma di terrorismo in cui la persona, nella fattispecie l’autorità, è sottomessa da un processo di spettacolarizzazione del dramma attraverso gli schermi. Emerge per la prima volta il substrato provocatorio dell’intera serie con la dimostrazione dell’annichilimento della coscienza sociale; nelle scene inquietanti di realtà-illusione il regista mette in luce la totale assenza della sensibilità vitale e, dunque, la trascuranza di compiti vitali a vantaggio dell’omologazione collettiva al ruolo di “spettatori partecipi”. Proprio grazie a questo fenomeno comportamentale si è potuta distinguere nettamente l’ambivalenza di disgusto-desiderio insita nella natura umana; emblematicamente è ravvisabile, con un impatto sconcertante, nei volti anaffettivi di medici, adolescenti, amanti, focalizzati ad assistere ad un atto di annientamento di un uomo, specie simbolo di autorità e rappresentatività sociale; queste dinamiche avvengono nella totale disattenzione verso il gesto di liberazione che rappresenta l’esito del rapimento iniziale. Ogni soggetto contribuisce, dunque, ad amplificare, insieme all’uso distopico e ossessivo della tecnologia, il limite della libertà di scelta della persona che, paradossalmente, personifica la volontà priva di costrizioni. Per questi motivi esiste il rischio incombente che l’onda tecnologica arrivi ad imporre in modo massivo un determinato tipo di pensiero, diventando poco a poco legge. Ma la problematica non è tanto relativa alla tecnologia stessa quanto all’uomo; poiché non basta il libero utilizzo della volontà per resistere ai mezzi rappresentati dalle nuove tecnologie, queste sono dispoticamente impiegate nel quotidiano e forniscono una larga capacità d’intrattenimento. Infatti, la partecipazione nella nuova “società dello spettacolo” diventa un fenomeno collettivo in cui la nuova paradigmatica concezione dell’”opera d’arte” suscita la volontà di soddisfazione dei nostri istinti più bassi.
Autodistruzione
Questa analisi mostra come il futuro non è solo progresso e miglioramento ma è anche insicurezza, angoscia e tendenza all’autodistruzione; poiché, così come l’individuo è dotato di ragione e del potere di creare, allo stesso modo rischia di direzionarsi verso all’autoannientamento. Si parla per questo di progresso e di benessere nei paesi industrializzati, parallelamente ad una lenta autodistruzione la cui causa è un indurimento ed un cinismo dell’animo umano. La realtà di Brooker mostra proprio un’apparente “crescita” in questo pianeta senz’anima, in cui il senso del limite è solo un momento, per quanto forte ed intenso, dell’esperienza dell’uomo. L’individuo non smette mai di subire il fascino delle frontiere, provocando ciclicamente un ribaltamento della sua stessa condizione.
Una persona senza limiti diventa il limite di sé stesso .
La tecnologia di fatto non fa altro che soddisfare quell’intimo desiderio di onnipotenza, che coincide con un percorso di autodistruzione. L’attrattiva di Black Mirror è quella di mostrare allo spettatore non l’effetto devastante della tecnologia, quanto l’effetto stesso della natura umana nel momento in cui si trova priva di limite. Vediamo in gioco le forze antitetiche quali la razionalità e l’irrazionalità. In questa altalena tra consapevolezza e inconscio Black Mirror funge da chiave di lettura artistica e filosofica della psiche umana, mostrando modelli archetipici che coinvolgono in primis la sconfitta della finitudine per la supremazia dell’Es.
31 marzo 2020
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