L’applicazione del diritto esige anzitutto una problematizzazione filosofica di ciò che esso sia. Il diritto rimanda ex natura sua al concetto di giustizia, somma virtù secondo Aristotele e san Tommaso d’Aquino, ma è quanto di più pericoloso e foriero di insidie vi sia se svuotato da un sano e corretto realismo filosofico, di cui i classici restano maestri insuperati.
L’essere umano reca con sé un ineffabile richiamo verso l’assoluto. Il principio di realtà è così connaturato con quello di assolutezza e di oggettività, che pensare il reale in maniera parziale appare insostenibile.
Se si considera il ruolo che la giurisprudenza ha nell’esperienza umana, ossia quello di «mettere ordine nelle relazioni intersoggettive mediante la rappresentazione di ciò che viene chiamato ius» (F. Gentile, Filosofia del diritto. Le lezioni del quarantesimo anno raccolte dagli allievi), e si rapporta con quanto si diceva poc’anzi, ebbene ancor prima che un richiamo, la chiarezza e l’obiettività di un ordinamento risponderanno primieramente ad un’esigenza umana.
Ma cosa si intende realmente per rappresentazione dello ius? Rendere presente ed operante il diritto, vale a dire determinare «ciò che è suo di ciascuno» (Platone, Repubblica), secondo l’aurea definizione platonica che dominerà il pensiero classico-cristiano.
La rappresentazione di ciò che è suo di ciascuno richiama l’attenzione dei giuristi e degli operatori del diritto circa l’essenza della giustizia, che è virtù aperta ad alterum. Essa è tra tutte la più importante e «né la stella della sera né quella del mattino sono altrettanto degne di ammirazione», scrive Aristotele nell'Etica Nicomachea. La sua diversità, rispetto alle altre (saggezza, forza, temperanza) non consiste solamente nell’essere virtù specificamente relazionale. L’altro da me a cui fa riferimento la giustizia, infatti, non è semplicemente colui che si caratterizza per il suo essere diverso da me, bensì colui che pretende da me il riconoscimento di un debito, di una spettanza.
Considerato alla luce di questo precipuo orizzonte, il concetto di giustizia dispiega tutta la sua caratura e valenza assiologica. Il celebre brocardo ulpianeo unicuique suum [dare a ciascuno il suo] radica la relazionalità umana nell’essere permanentemente debitori di qualcosa da qualcuno. Infatti, sin dal suo venire al mondo, l’essere umano fa esperienza del debito. Egli è debitore verso coloro che lo nutrono e lo educano, verso colui/lei che lo guida durante tutta la vita. Non sfuggendo oltretutto dalla consapevolezza fondante che, come ricordava il filosofo argentino Alberto Caturelli in I diritti dell’uomo e il futuro dell’umanità, «il più originariamente mio e il più originariamente suo è l’atto d’esistere».
Nella sua fisiologia intersoggettiva e nella presa di coscienza della propria struttura costitutiva, la giustizia realizza pienamente l’uomo.
« Nulla è infatti più mirabile e nello stesso tempo più “umano” del fatto che di fronte alla giusta pretesa altrui io possa, senza alcuna costrizione interna, ma solo per spirito di giustizia, riconoscere il mio torto. » (F. D’Agostino, Lezioni di filosofia del diritto)
L’apporto più considerevole che fornì la tradizione giuridica romana fu quello di fondare metafisicamente, oltre che razionalmente, il diritto sulla natura dell’uomo. Con essa Cicerone intende la ragione. La legge infatti è «ragione suprema insita nella natura, che comanda ciò che si deve fare e proibisce il contrario: ragione che, attuantesi nel pensiero dell’uomo è appunto la legge» (Cicerone, De legibus). Legge che scopriamo in noi attraverso le nostre inclinazioni (conservazione in vita, riproduzione, conoscenza e socialità) e che «una forza ha impresso nella nostra natura» (Cicerone, De Inventione), precedente ad ogni normatività positiva. Questa constatazione procede dall’osservazione della dialettica natura-ragione operante nell’essere umano. Laddove il significato di natura a cui si fa riferimento reca con sé una struttura fisico-finalistica, cara ad Aristotele e ripresa e completata da Tommaso d’Aquino, che la definisce come «l’essenza della cosa in quanto ordinata all’operazione propria della cosa stessa». (Tommaso d'Aquino, De ente et essentia)
« Affinché qualcosa possa dirsi naturale [...] sono così richieste due condizioni: l’origine intima o causalità intrinseca, data dall’inclinazione o tendenza spontanea; la finalità, riposta in quei beni che il soggetto esige per la propria perfezione. » (R. Pizzorni, La filosofia del diritto secondo S. Tommaso d’Aquino)
Particolare interesse suscita la traiettoria seguita dal giurista e filosofo del diritto spagnolo Juan Vallet de Goytisolo (1917-2011).
La riflessione filosofica è all’origine di ogni problematizzazione del diritto, attività senza la quale si è impossibilitati a conoscere, non ci si spinge oltre, non si procede innanzi, non si varca quella porta che sbarra il cammino, come suggerisce lo stesso significato dell’etimo problema. Il professore Francesco Gentile osserva però che tale «problematizzazione postula un atteggiamento deciso ma umile, dinanzi al quale si ha la lucida consapevolezza che «il sapere non si esaurisce con il saputo» (F. Gentile, Filosofia del diritto. Le lezioni del quarantesimo anno raccolte dagli allievi). Ed è proprio partendo da tale principio che Socrate codificò, con affascinante spirito profetico e inusitata penetrazione intellettuale, la massima regola di saggezza che ha donato ai posteri: ossia la coscienza di sapere di non sapere quale fondamento di ogni autentica sapienza.
« Tale espressione – fa notare il prof. Gentile – a ben vedere, è molto più ricca, perché comprende non solo il non sapere, ma altresì il sapere di non sapere, vale a dire l’intuizione, la percezione di come, di fronte ad un problema, al di là di ciò che non si conosce, si può trovare risposta, proprio al problema che ciò che si conosce lascia aperto: e quindi si è già nella condizione potenziale della crescita del sapere. » (F. Gentile, Ibidem)
La percezione di un limite ed al contempo di un solco da esplorare apre al giurista – la cui attività è anzitutto teoretica – pascoli sconfinati, in cui al dinamismo dell’esplorazione razionale fa scudo il limite che argina un relativismo esistenziale, il quale finisce con il logorare qualsiasi crescita razionale, che per esperienza sappiamo essere costituita da tasselli stabili, tappa dopo tappa.
«La giurisprudenza è la conoscenza delle cose umane e divine, scienza del giusto e dell’ingiusto.» (Ulpiano, Digesto) La definizione ulpianea, di per sé lapidaria, forte ha riscosso, nel corso dei secoli mugugni, ilarità e persino scherno. Essa però si accompagna all’oggetto proprio del diritto, l’unicuique suum considerato in precedenza e, inoltre, tiene unite la coscienza del limite e la dinamicità propria della conoscenza. La riflessione di Vallet de Goytisolo icasticamente inizia e termina esplorando questi due termini. Il riferimento all’ordine naturale, inteso secondo la riflessione dell’Aquinate, segna l’orizzonte all’interno di cui l’essere umano deve muoversi. Esso si definisce come:
« La retta disposizione delle cose al loro fine o secondo l’ordine della Creazione [...] preesistente nella mente di un Dio creatore, come un archetipo inserito nel Cosmo, che dobbiamo scoprire continuamente nelle cose, poiché si sviluppa per aggiunte e può perfino essere cancellato dai cuori umani. [...] Ordine che non deve essere inventato, né elaborato artificialmente [...], ma scoperto interrogando la natura – come Aristotele –, cercando in essa l’ordine naturale tracciato da Dio, nella forma più adatta in ciascuna delle circostanze concrete che si presentino. » (J. Vallet De Goytisolo, Panorama del derecho de sucesiones)
Una precisazione, a questo punto, si ritiene quanto più necessaria: Vallet de Goytisolo si guarda bene dal comporre un mosaico, per così dire, di derivazione teologica, «nel senso che la fonte del diritto sia immediatamente la Rivelazione» (E. Cantero Nunez, Il realismo giuridico di J. Bms. Vallet de Goytisolo). Il giurista spagnolo – che non fa mistero della sua fede – si muove piuttosto nel solco del pensiero classico, attento a scandagliare il reale ed a trarre eventualmente dall’osservazione empirica dei dati che permettono di ricavarne un ordine, non soggetto alla casualità. Questa capacità di osservazione e di comprensione, opera eminentemente razionale, è alla portata di tutti gli esseri umani, prescindendo dalle confessioni religiose di ciascuno. Tale ordine permetterà al giurista di avere quel senso del limite, o anche parapetto, di cui in precedenza si è detto, conditio sine qua non per problematizzare il reale procedendo da un riferimento ben saldo, al fine di evitare «il relativismo delle verità dei contrastanti sistemi filosofici» (F. Elias De Tejada, Tratado de filosofia del derecho) che finiscono con il negare il reale per elaborarne uno su misura.
Vallet de Goytisolo è tributario della riflessione giuridica di Michel Villey. Il filosofo del diritto francese mette a tema la distinzione fondamentale che Aristotele traccia nella sua Etica Nicomachea tra il giusto morale (dikaios) e il giusto positivamente inteso (dikaion). «Il dikaios sarà la giustizia in me, soggettiva; il dikaion è la giustizia fuori da me, nella realtà oggettiva» (M. Villey, Compendio de Filosofia del Derecho. Definiciones y fines del Derecho). Da tale premessa, Villey definisce l’ars iuris a partire dal ruolo fondante di colui che per eccellenza interpreta ed applica la legge: il giudice. Vallet, quindi, si confronta con una visuale eminentemente pratica e la visione realista che sviluppa è frutto dell’«immersione nella realtà vitale della vita e del diritto, e non [viceversa] da un discorso speculativo elaborato a partire da categorie filosofiche o giuridiche» (E. Cantero Nunez, Il realismo giuridico di J. Bms. Vallet de Goytisolo). Tale postura si misurerà nel rifiuto della giurisprudenza dei concetti e nella esplicazione di una Metodologia fondata sull’osservazione della realtà e sul fondamento di un ordine naturale.
« L’arte del giusto – scrive il giurista spagnolo – [...] non si limita a un mero lavoro di esegesi e di sussunzione, ma di determinazione del giusto con l’aiuto della norma civile, anche a costo di correggerla nel caso in cui la conclusione contenutavi, applicandola al supposto concreto giudicato, non risulti conforme all’ordine naturale. » (J. Vallet De Goytisol, En torno al derecho natural)
La coincidenza tra il diritto e il giusto, giacché il diritto è il giusto, quod iustum est, produce un rifiuto delle dottrine normativiste, storiciste, legaliste o giurisprudenziali.
« Vale a dire di tutte quelle concezioni che considerano il diritto come un insieme di norme di condotta, siano esse imposte dal principe, siano deduzione razionale di principi considerati immutabili, siano imposte dal popolo sotto forma di usi, siano prodotto della giurisprudenza dei tribunali o prodotto coattivo dello Stato. » (E. Cantero Nunez, Il realismo giuridico di J. Bms. Vallet de Goytisolo)
La visione che egli sposa è, come detto, quella realista, cara ad Aristotele, Tommaso d’Aquino ed ai giureconsulti romani. Teleologica nella sua struttura (ordinata ad un fine) e fondata sull’esistenza di un ordine naturale conosciuto razionalmente. Da ciò scaturisce che il diritto è l’arte regolativa ed ordinativa per eccellenza, l’arte della proporzionalità nelle relazioni tra gli uomini.
23 marzo 2020