Incontro con l'insegnamento Zen.
Sapere è saper fare: questo il principio che muove le nostre vite, anche se non ne abbiamo coscienza. È un motivetto che, all’estremo Oriente, nei luoghi in cui alcune discipline tradizionali ancora mantengono un religioso rigore, rimane vivo nell’insegnamento dei maestri. Il “metodo” dell’insegnamento è presto detto: l’esempio educa. Perché, appunto, sapere è agire in conformità a quanto si è appreso – ché ciò che si apprende è esperienza, vita –, e non consiste nel parlare delle cose che qualcun altro dovrebbe fare. Così operano i Maestri Zen, e il filosofo tedesco Eugen Herrigel ce ne ha lasciato una preziosa testimonianza. Colpisce come il rapporto fra docente e discente sia estremamente particolare e, se vogliamo, per certi versi estremamente “sano”.
Ciò che la mistica orientale insegna è che, anzitutto, a voler fare davvero bene, bisogna che ci si liberi dell’Io. Non del Sé, beninteso, nella misura in cui con questo termine si racchiude la personalità intera; dell’Io. L’Io, per questa scuola di pensiero, sarebbe un ostacolo alla buona riuscita. Esso incarna tutti gli aspetti negativi che impediscono la piena dedizione alla causa. Fra questi rientra il riconoscimento sociale, l’aspettativa delle persone a noi prossime, il timore dello stigma altrui, e insomma ogni “disturbo” piuttosto comune che, invece di spronare il lavoro, sommerge le nostre vite di timori di ogni genere e infonde un senso di pesante oppressione. Abitiamo immersi nel fardello generato dalla pressione di questo riconoscimento, e al contempo, inconsapevolmente, ne ereditiamo e riproduciamo le trame. Appena ne abbiamo occasione riproponiamo ad altri la sofferenza patita.
La liberazione dall’Io allora non codifica l’indifferenza verso l’Altro. Al contrario, richiede che si instauri un insieme di relazioni meno compromesso e dannoso. La fiducia, la confidenza, la pazienza e un severo codice etico sono i perni attorno a cui si costituisce la via mistica. Fiducia nell’altro, contro il faticoso dispendio di energie messo in campo per creare il mostro nel volto vicino. Siamo così certi di essere “i buoni” da essere dimentichi del principio primo: sapere è saper fare; essere buoni è comportarsi con virtù. Siamo tutti buoni, a parole, nelle nostre teste, nell’immagine che costruiamo di noi, eppure il dolore è continuo. Che qualche conto non torni? Siamo felici di essere celebrati, di possedere qualcosa che altri non posseggono, di gonfiare il nostro ego – l’Io! –, finché dura, e per questo, ricorda un Maestro indiano, conosciamo la felicità ma non la gioia.
« La vostra propria vendetta ricade su di voi, se denigrate qualcosa; così offuscate il vostro occhio, non quello altrui: vi abituate a vedere falso e distorto! » (F. Nietzsche, Aurora, §214)
Confidenza nei propri mezzi, contro il terrore di mettersi alla prova. La prova qualifica il valore di ciascuno, ma l’angoscia del perentorio e ingeneroso giudizio altrui trattiene da molte esperienze. L’identità si misura nel confronto (con gli oggetti e con altre idee), e così facendo vacilla, si rimodula, si infrange l’immagine di sé che ci si era dipinti (spesso con il tremendo ausilio delle persone più care!). Ma una volta all’opera risorge, progredisce, solidifica: sapere è saper fare. Soltanto così si abbandona la frustrazione e ci si incammina verso un obiettivo. Senza che questo sia un peso sul cuore, un ideale astratto che fa capolino a ricordare la nostra pochezza, ma il coronamento di un viaggio gioioso.
La pazienza nei confronti dei primi, incerti, passi, siano nostri o altrui. La forzatura, parafrasando il Maestro Kenzo Awa di Herrigel, è l’attesa del «fallimento». La tensione «verso il compimento», al contrario, è la calma e l’esercizio che permette di acquisire una postura spontanea. Ci vuole tempo perché l’arte – quale che sia – diventi una parte del nostro essere. Per questo, insegna la mistica, dal momento in cui si padroneggia non si “vuole” il gesto, ma si “è” quel gesto. Il Maestro riacquista la spontaneità del principiante: inizialmente maldestro, l'allievo diviene cosciente dei passaggi che la disciplina impone e si esercita, separatamente, in ciascuno di essi, fino a che il gesto complessivo, educato, ridiviene spontaneo, «azione del cuore» – senza l'ausilio di una coscienza che decida di volta in volta come operare. Non si bada all'avversario, né all'esame, né allo scopo finale, dacché accade come al ragno, che «danza la sua rete senza sapere che ci siano mosche che vi si impiglieranno», e come alla mosca, la cui danza «spensierata in un raggio di sole» condurrà alla rete del ragno: senza che sappiano ciò che li attende, «attraverso l'uno e l'altra "Si" danza». Forse è semplice osservare che, comunemente, intenti a compiere qualcosa d'importante non ci curiamo affatto di noi, né di cosa ci attornia, perché vi riusciamo solo con la massima dedizione verso l'oggetto della nostra attenzione. Allo stesso modo, «l'arte senza arte» dello Zen spinge verso questa condizione, in modo più consapevole, duraturo e riuscito: la respirazione e il lungo esercizio (anche fallimentare) conducono alla capacità di entrare nello stato «spirituale», dal quale solo sgorga la disposizione alla riuscita della disciplina. L'esercizio interiore non riconduce soltanto alla spontaneità del gesto, ma ha effetti che eccedono il momento dell'attività artistica. Così Herrigel racconta, debitore a vita di quella scuola, di aver dismesso «gli ultimi stimoli ad occupar[s]i di [se] stesso e delle oscillazioni del [suo] stato d'animo».
Nello Zen c'è, ovviamente, del mistico in senso proprio, cioè un'esperienza “riuscita” non mediata da una spiegazione. Il Maestro confessa di non poter rendere conto di alcune connessioni, che restano appunto oscure, quando, per esempio, colpisce il cuore del bersaglio al buio, senza neppure vederlo; oppure quando, dopo dei tentativi falliti da parte dell'allievo, adopera quel medesimo arco di modo da “trasmettervi” lo spirituale. E, in questo caso, misteriosamente il miglioramento diviene tangibile, giacché «l'arco si lasci[a] tendere diversamente da prima, con più docilità, più intelligenza». Non che l'oscurità sia una novità neppure per noi, peraltro, poiché, rammenta Pasolini negli Scritti corsari, «ciò che si vive esistenzialmente è sempre enormemente più avanzato di ciò che si vive consapevolmente». Vale a dire che l'esperienza eccede sempre le spiegazioni che avanziamo; c'è sempre uno scarto fra il noto e l'ignoto che ancora rimane, immobile, dinanzi alle nostre ragioni parziali.
L’etica severa, infine, non è altro che il rispetto per le condizioni menzionate. Mentendo, per esempio, violeremmo tutti i punti decisivi. Genereremmo dolore, instaureremmo una relazione fasulla che impedisce la piena espressione (ché altrimenti la verità sarebbe scoperta) e quindi mineremmo la confidenza e la stessa attitudine paziente indispensabile all’educazione del Sé. Lungi dal liberarci spiritualmente, ci “ingolferemmo” dei difetti dell'Io, dediti a intavolare giochi di potere per coprire e mantenere intatta l'immagine che altri dovrebbero avere di noi. Non è forse con lo scopo di apparire dotato al maestro che Herrigel ha mentito sulla sua capacità tecnica? E, così facendo, non ha intaccato il rapporto di fiducia reciproca e minato i suoi stessi progressi?
« Ben presto trovai una soluzione semplice e insieme convincente del problema. Se dopo aver teso l’arco, avessi disteso con cautela e gradatamente le dita accavallate sul pollice, sarebbe venuto il momento che il pollice, non più trattenuto da esse, sarebbe scattato da solo dalla sua posizione […]. Con questa convinzione e sempre più fiducioso, feci tacere quanto dentro di me vi si opponeva […].
Già il primo colpo […] partì liscio e improvviso. Il Maestro mi guardò per un poco e poi, esitante come uno che non crede ai propri occhi, disse: “Un’altra volta, la prego”. Il mio secondo tiro mi sembrò avesse ancora superato il primo. Allora il Maestro mi si avvicinò senza parlare, mi tolse l’arco e sedette su un cuscino, voltandomi le spalle. […] Il giorno dopo il signor Komachiya mi comunicò che il Maestro rifiutava di continuare a darmi lezione perché l’avevo ingannato. » (Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’arco)
L’esempio insegna. Le parole sono l’esplicitazione coerente, e certamente essenziale, del valore racchiuso nel gesto. Esse spiegano e, insieme, producono capacità. Questo deve essere il principio che guida l’insegnamento e ogni rapporto durevole, lontani dall’“Io” delle minacce, dei ricatti, del rancore e della prestazione.
« Quanto lontano arriverà l’allievo, questo non preoccupa l’insegnante e il maestro. Non appena gli ha mostrato la giusta via deve lasciare che proceda da solo. Una cosa ancora deve fare ancora perché l’allievo sostenga la prova della solitudine: lo distacca da sé, dal maestro, esortandolo affettuosamente ad andare più lontano di lui e a “salire sulle spalle del maestro”. »
E ancora:
« Lei è arrivato a un grado in cui maestro e allievo non sono più due, ma uno. Lei può dunque separarsi da me in qualunque momento. E anche se vi saranno tra noi vasti oceani, quando lei si eserciterà come ha imparato, io sarò sempre presente. »
Uscire dall’infelicità collettiva è un passaggio arduo, che può avere inizio soltanto provando ad “essere” quella mano tesa verso l’altro e lo sprone che invita a “salire sulle proprie spalle”. Rinchiuso nel proprio “Io” nessuno si salva, neppure con tutti i vantaggi materiali del caso.
25 novembre 2020
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