La felicità è il premio della continua lotta contro noi stessi, contro i nostri appetiti. Non è la soddisfazione di essere stabilmente ciò che si è, ma il continuo mettere alla prova il nostro essere.
L'Occidente è cresciuto nella convinzione, radicata già nel pensiero greco, che la felicità sia il fine della vita umana. Nella cultura greca antica la felicità, intesa come eudaimonia, aveva nella propria essenza la realizzazione di sé, delle proprie capacità. Tuttavia, ciò che si tende a dimenticare è che, nel porre la felicità come fine supremo – ossia non ottenuto in vista di altro – il suo conseguimento risulta indifferente ai mezzi tramite cui essa viene realizzata. Se dunque uno ritenesse di trovare la felicità nella ricchezza, sarebbe per lui legittimo rubare per ottenerla; e se la felicità consistesse nella disgrazia altrui, sarebbe legittimo uccidere, rapinare, abusare dell’altro in nome di essa. Considerare la felicità come un fine indipendente dai mezzi è assurdo in quanto legittima qualsiasi tipo di comportamento volto ad ottenerla. Si rivela allora necessario un criterio per orientare le nostre azioni.
« Educare l’uomo è impedirgli la “libera espressione della sua personalità”. » (Nicolás Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito I)
Abbiamo visto che la “libera espressione della propria personalità”, che porta a credere che la volontà astratta di qualcuno sia l’unico criterio valido ad orientare la propria ricerca, è contraddittorio. La felicità non è un fine indipendente da tutto, ma va trovata e ricercata in qualcosa che la trascende e che ci trascende, in un contesto, in un ordine delle cose.
« Chiedo a tutti: “Preferite godere della verità o della menzogna?” Rispondono di preferire la verità, con la stessa risolutezza con cui affermano di voler essere felici. Già, la felicità della vita è il godimento della verità. Amano la verità, poiché non vogliono essere ingannate; e amando la felicità, che non è se non il godimento della verità, amano certamente ancora la verità, né l’amerebbero senza averne una certa nozione nella memoria. » (Agostino d’Ippona, Confessioni)
Chi desidererebbe, a parte per il Cypher di Matrix, vivere una felicità inautentica? Non è quello che vogliamo. Quello che vogliamo è una felicità che sia vera.
Ci hanno sempre venduto la felicità come qualcosa che dipende da noi, come qualcosa che possiamo decidere noi in cosa consiste e che possiamo fare di tutto per ottenerla: niente può imporci come essere felici. La realtà è che invece le nostre azioni sono legate ad un contesto di cui devono tenere conto, che il nostro essere dipende da altro da noi, e che quindi a qualcosa dobbiamo pur ubbidire. Sta a noi però la libertà di scegliere a cosa ubbidire, a che principio asservirci.
« Non venerare è impossibile. Tutti venerano qualcosa. L'unica scelta che abbiamo è che cosa venerare. Un motivo importantissimo per venerare un certo dio o una cosa di tipo spirituale – che sia Gesù Cristo o Allah, che sia YHWH o la dea madre della religione Wicca, le Quattro Nobili Verità o una serie di principi etici inviolabili – è che qualunque altra cosa vi mangerà vivi. Se venerate il denaro e le cose, se è a loro che attribuite il vero significato della vita, non vi basteranno mai. Non avrete mai la sensazione che vi bastino. È questa la verità. Venerate il vostro corpo, la vostra bellezza e la vostra carica erotica e vi sentirete sempre brutti, e quanto compariranno i primi segni del tempo e dell’età, morirete un milione di volte prima che vi sotterrino in via definitiva. […] Venerate il potere e finirete col sentirvi deboli e spaventati, e vi servirà sempre più potere sugli altri per tenere a bada la paura. Venerate l’intelletto, spacciatevi per persone in gamba, e finirete col sentirvi stupidi, impostori, sempre sul punto di essere smascherati. E così via. » (David Foster Wallace, Questa è l’acqua)
Più cerchiamo, per essere liberi e felici, qualcosa che sia in nostro completo potere, che ci appartenga e che possiamo controllare, più queste cose rischiano di rovinarci: «Le cose che possiedi alla fine ti possiedono» dice Tyler Durden in Fight Club. Tutto quello che ci può appartenere – la bellezza del corpo, l’intelligenza, la ricchezza, il potere – alla fin fine è passeggero, instabile, ci crea più preoccupazioni che gioie, diventando una condanna ad una costante preoccupazione.
Gli antichi lo avevano capito, ed è codificato in una infinità di proverbi, miti, luoghi comuni: possiamo edificare la nostra felicità solo in qualcosa di stabile, che non può essere che qualcosa di spirituale. Per Agostino era la verità – che aveva poi la sua fonte e riferimento in Dio –, per Platone la stabile e luminosa conoscenza dell’idea del Bene, per Aristotele era premio per la condotta saggia e virtuosa.
Ma come possiamo dire di conoscere assolutamente quale sia la verità? Come possiamo sapere con certezza quale sia il Bene? La verità non è altro che ciò che si mantiene fermo quando viene messo in discussione, che non vacilla di fronte alle obiezioni. E la virtù aristotelica è proprio quella del saggio che sa comportarsi virtuosamente in ogni situazione, ossia è ciò che si mantiene fermo e fedele a se stesso attraverso i vari contesti. La felicità, dunque, non è un oggetto che si può comprare e possedere come un accendino tenuto in tasca, ma è quel premio, quel sovrappiù finale che deriva dalla nostra adesione ad un ordine del mondo che non possiamo controllare e che non è oggetto di proprietà.
« La felicità non è mai stata importante. Il problema è che non sappiamo cosa vogliamo veramente. Ciò che ci rende felici non è avere ciò che vogliamo, ma sognare di averlo. La felicità è per opportunisti. Perciò penso che l’unica vita di profonda soddisfazione sia una vita di lotta eterna, specialmente di lotta con se stessi. […] Se vuoi rimanere felice, rimani semplicemente stupido. I veri maestri non sono mai felici; la felicità è una categoria da schiavi. » (Slavoj Žižek)
La vera felicità, lungi dall’essere un fine in sé, è ciò che proviene naturalmente dal nostro riconoscimento del giusto valore di ciò che ci sta intorno, nella nostra giusta collocazione nel mondo, che presuppone la nostra adesione al vero valore delle cose. Intesa tramite il senso comune invece essa diventa una categoria da schiavi, perché la sua promessa ci rende schiavi dei nostri momentanei capricci, scambiati per obiettivi e valori da realizzare. Essa non è un fine arbitrario della nostra volontà, ma è la concordanza della volontà alla verità, al valore, che risulta poi nell’educazione del nostro essere, dei nostri istinti animali:
« “Avere il coraggio di accettarsi” è una delle tante formule moderne che pretendono di nascondere la viltà dell’uomo chiamando difficile ciò che è facile.
Il moderno assicura che niente costa tanta fatica all’uomo, quanto cedere alla propria animalità. » (Nicolás Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito I)
La felicità è il premio della continua lotta contro noi stessi, contro i nostri appetiti. Non è la soddisfazione di essere stabilmente ciò che si è, ma il continuo mettere alla prova il nostro essere:
« La poiana non ha nulla da rimproverarsi.
Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.
Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.
Uno sciacallo autocritico non esiste.
La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano
vivono come vivono e ne sono contenti.
Il cuore dell’orca pesa cento chili,
ma sotto un altro aspetto è leggero.
Non c’è nulla di più animale
della coscienza pulita,
sul terzo pianeta del sistema solare. »
(W. Szymborska, Lode della cattiva considerazione di sé, in Grande numero)
Solo la bestia è soddisfatta di ciò che è e sopravvive contenta della propria esistenza e del proprio essere. Ciò che rende diverso l’uomo è invece la sua educazione, la soppressione dei suoi istinti animali, il miglioramento continuo di ciò che è, la sua insoddisfazione di fronte a se stesso.
La felicità, contrariamente a come ci è sempre stata venduta, non può essere nelle cose, né tantomeno valere come fine ultimo ed indipendente da altro. Agire per essere felici è il primo passo verso il nostro asservimento ai capricci passeggeri, e trasforma il bene in uno strumento al servizio occasionale del nostro egoismo. Al contrario, la nostra soddisfazione può stare solo nella guerra contro la nostra insoddisfazione, nella continua lotta contro noi stessi, contro il nostro egoismo e i nostri istinti, contro il nostro essere animale, ed è questo ciò che ci permette di elevarci ad un livello superiore, oltre le nostre bassezze spirituali.
16 ottobre 2020
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