Conservatore o rivoluzionario? Razionalista o romantico? Ermetico o scienziato? Dopo due secoli e mezzo dalla nascita, giustamente, lo celebriamo. Ma stentiamo ancora a capirlo.
Il mese scorso si è celebrato il duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Hegel (27 agosto 1770). Inutile dire che le iniziative in onore di tale ricorrenza sono state innumerevoli; in moltissimi si sono soffermati per ricordare il grande pensatore tedesco e riflettere sulla sua eredità. Benedetto Croce diceva che i grandi filosofi si distinguono proprio per questo: perché, anche quando vengono superati, c’è sempre qualcosa di loro che non passa, una conquista oramai divenuta patrimonio condiviso e dalla quale è sempre necessario ripartire.
Questo è senz’altro vero, e Croce infatti individuava nella concezione dialettica della realtà la grande conquista di Hegel, da cui, volenti o nolenti, le generazioni successive dovettero muovere, fosse pure per innalzare visioni del mondo opposte, come il marxismo.
È anche vero, però, che ben pochi altri filosofi sono risultati così “criptici” per ciò che riguarda la determinazione del significato complessivo del loro pensiero. Non mi riferisco alla tristemente nota – e in più di un caso ingigantita – “oscurità” del linguaggio di Hegel. O alla difficoltà delle sue argomentazioni. Bensì al fatto che Hegel, probabilmente, fu talmente “dialettico” da poter essere interpretato, a seconda delle fasi e dei contesti, in maniere diametralmente opposte tra loro.
Ciò appare evidente sin dall’inizio della storia della critica hegeliana. Infatti, le celebri fazioni della “destra” e della “sinistra”, che si opponevano soprattutto sul fronte religioso, presentavano ora uno Hegel teologo, fautore e compitore della razionalità “conclusiva” del cristianesimo, ora uno Hegel “illuminista” al massimo grado: secolarizzatore al punto di svuotare la rivelazione, rendendola di fatto laica nella sua sublimazione filosofica. Questa alternativa si ripropose con particolare veemenza agli albori dell’hegelismo britannico, quando lo Stoccardese, a quei tempi importato da personalità come Coleridge e Stirling, veniva o rifiutato dai radicali perché giudicato troppo “teologico”, o guardato con sospetto dalle élite ecclesiastiche perché considerato un deista alla stregua di John Toland.
Ma non basta: destra e sinistra, com’è noto, si contendevano Hegel anche sul piano politico. E se per la prima la convertibilità di realtà e razionalità significava che il mondo e la storia avevano finalmente trovato la loro spiegazione finale (addirittura nell’assetto giuridico-istituzionale della monarchia costituzionale prussiana), per la seconda invece il senso, la ragione, è ciò che deve sempre di nuovo farsi reale, forzando le cose a non rimanere come sono e sospingendole verso configurazioni inedite e più razionali ancora. Dalla Restaurazione alla Rivoluzione, nel giro di un unico sistema. A tal proposito, non è un caso che la “Süddeutsche Zeitung” abbia insistito, nel suo articolo di commemorazione, soprattutto sulla portata libertaria della filosofia di Hegel e sul suo debito nei confronti dei valori della Rivoluzione francese.
E questi sono solo gli aspetti più lampanti, quelli che emersero prima e con maggiore urgenza anche per via dei tempi “caldi” rappresentati dai decenni immediatamente successivi alla morte del filosofo. Ma ce ne sono ovviamente degli altri, non meno importanti, che non smettono di causare grattacapi soprattutto a chi deve divulgare Hegel, o insegnarlo ai giovani.
Nonostante due secoli di critica, permane la divisione tra chi intravede nel suo pensiero un modello di razionalità rigida, quasi schematica nel susseguirsi ininterrotto di triadi, e chi invece lo ha considerato un esempio formidabile di irrazionalista. Tra i primi possiamo annoverare proprio Benedetto Croce, che accusava Hegel di panlogismo perché avrebbe preteso di ridurre ogni manifestazione dello spirito, anche quelle puramente estetiche o economiche, al movimento del concetto. La potenza del negativo, capace di travolgere qualsiasi determinazione astratta e intellettualistica, è stata interpretata invece da Richard Kroner come l’irrazionalismo stesso fattosi sistema. O, ancora, Giorgio Colli arrivò a definire Hegel il “legislatore del nichilismo”, perché la sua filosofia è la negazione di ogni principio logico classico. Non ci si dimentichi che fu proprio Nietzsche, nella Gaia scienza, a elogiare Hegel come il primo pensatore a rompere con tutte le consuetudini logiche.
A ciò si ricollega il dibattito, tuttora in corso, sullo Hegel negatore o affermatore del principio di non contraddizione. Su questo punto si sono versati fiumi di inchiostro. Ma anche qui, dobbiamo rassegnarci a constatare l’esistenza di due opposte scuole di pensiero: una “coerentista”, la cui posizione potrebbe riassumersi con le parole di Gustavo Bontadini: «è da dire che egli è piuttosto un fanatico di questo principio: perché non muove passo, nella sua opera, se non se ne sente assistito […] la dialettica è infatti il movimento del pensiero generato dalle contraddizioni; ed Hegel trascorre di categoria in categoria proprio perché ritiene che, se uno si fermasse, si fermerebbe nella contraddizione» (Appunti di filosofia, 1996, p. 73). E una, che si potrebbe definire con Michela Bordignon “dialeteica”, che obietta che per Hegel la contraddizione sia qualcosa di reale, e anzi per lui ogni realtà sia intrinsecamente contraddittoria. Certo, a corroborare quest’ultima lettura, esistono dichiarazioni hegeliane molto esplicite: «Ciò che muove il mondo in generale è la contraddizione, ed è ridicolo dire che la contraddizione non può essere pensata» (La scienza della logica, UTET, 2010, p. 321).
Da tali questioni dipende, per certi versi, anche quella riguardante lo statuto epistemologico del pensiero hegeliano, e la sua concordanza con le scienze empiriche. È un luogo comune duro a morire persino tra gli addetti ai lavori che la Filosofia della natura sia la “parte debole” del sistema: Schopenhauer disegnò una faccia d’asino a margine di una pagina hegeliana su peso e volume, Croce annoverava la Naturphilosophie tra “ciò che è morto” della filosofia di Hegel e le critiche da questi mosse a Newton gli guadagnarono per lungo tempo il disprezzo degli ambienti filosofici anglosassoni. Negli anni Settanta, però, fu proprio un inglese, Michael John Petry, ad avviare la riabilitazione della filosofia naturale hegeliana, ed è ormai acclarato che, per quanto potesse abbracciare posizioni discutibili, Hegel fosse tutt’altro che uno sprovveduto nelle scienze. Oltre a mantenere posizioni assai critiche nei confronti degli scienziati romantici, che in più di un caso schernì come dei ciarlatani. Nel 2001, tuttavia, Bryan Magee diede alle stampe un volume, diventato poi un classico, in cui mostrava come tutta la filosofia di Hegel affondi le radici nell’ermetismo, nell’alchimia e nell’occultismo, gettando una luce ancora diversa sulla questione.
Nonostante, o forse proprio in virtù di queste vertigini esegetiche, si può dire che Hegel sia stato, per l’ampiezza di orizzonti che ha spalancato di fronte alla cultura europea, il filosofo di maggior rilievo dal punto di vista geofilosofico: non c’è nazione che a suo modo non sia stata hegeliana. L’Italia fu tra le prime ad accorgersi delle potenzialità eccezionali dell’hegelismo. Spaventa, con la sua nota tesi della “circolazione europea del pensiero italiano”, giunse a intravedere in quest’ultima una preconizzazione dell’idealismo assoluto e, vicendevolmente, nell’idealismo assoluto un inveramento dell’italianità filosofica: «Fare intendere Hegel all’Italia, vorrebbe dire rigenerare l’Italia», scriverà. Il suo seguace Gentile, che può considerarsi sotto il profilo strettamente teoretico un hegeliano di estrema sinistra, ha portato alle estreme conseguenze lo spirito baccantico e demolitore della dialettica. L’Atto sembra proprio quel «delirio bacchico in cui non c’è membro che non sia ebbro», identificato allo stesso “Vero” nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito. Croce, invece, con la sua attenzione alla indialettizzabilità dei distinti, ha cercato in certo modo di arginare l’uragano hegeliano, e ricondurlo entro l’alveo categoriale.
Nel Regno Unito la filosofia hegeliana venne per molti versi accolta come la risposta alle derive irreligiose, riduzioniste e antistataliste del darwinismo: ne sono un esempio il già citato Stirling, Thomas Hill Green, Francis Herbert Bradley e David George Ritchie.
In queste operazioni di recupero, riforma e attualizzazione, lo “storicismo” di Hegel è stato non di rado salutato come una sorta di ottimismo metafisico, animato da una fiducia quasi escatologica nella conciliazione finale di tutte le lacerazioni. Il medesimo afflato che indusse Popper a condannarlo come un profeta del totalitarismo: se Hegel insegna come andranno le cose, farà bene lo Stato ad agevolare il processo e a perseguitare chiunque vi si opponga. Di ben altro avviso gli interpreti del Novecento francese, come Alexandre Kojève e Jean Hyppolite, che descrivevano la concezione hegeliana della vita e della storia come un pantragismo, a motivo del carattere sempre irriducibilmente lacerato della coscienza e del suo rapporto irrisolto con l’alterità. Ne risultava un insolito Hegel “esistenzialista”, che conoscerà una grande fortuna.
Simili motivi erano stati in parte anticipati da Dilthey, vero e proprio inauguratore della Hegel-Renaissance novecentesca: Hegel è venuto a dire all’Occidente che tutto è relativo, tutto è storicamente condizionato, meno la storia stessa. Molti, peraltro, hanno suggerito che Hegel fosse convinto che con l’età napoleonica la storia si fosse “conclusa”, cioè avesse completato il suo sviluppo in termini spirituali. Essa sarebbe continuata solo per una sorta di “inerzia del tempo”. Prova ne sarebbero tesi hegeliane come la trasformazione definitiva della philosophia in sophia rivendicata all’inizio dell’Enciclopedia e quella celebre della “morte dell’arte”. Lo stesso Kojève e, dopo la caduta del muro di Berlino, Francis Fukuyama radicalizzeranno questa idea, sostenendo con decisione che la storia ormai si situi “alle nostre spalle”.
Diverso il caso della filosofia russa e del marxismo, che continuarono a vedere nella logica hegeliana una “promessa” di risanamento delle contraddizioni politico-sociali: un’“algebra della rivoluzione”, come la definirà Aleksandr Ivanovič Herzen, che va compresa e tradotta in prassi, come auspicato da Lenin. La storia, in questo caso, si deve ancora fare, ed è tutta proiettata nel futuro: la sintesi cosmico-storica hegeliana non è l’ultima parola del mondo su se stesso.
Oggi l’interesse per Hegel infiamma anche gli statunitensi, prima piuttosto reticenti, soprattutto grazie al lavoro di personalità come Terry Pinkard, Robert Pippin, Robert Brandom. E i dibattiti americani si concentrano specialmente sulla possibilità di adoperare le categorie hegeliane come strumenti di analisi della vita sociale e normativa dell’uomo. Il Geist hegeliano – lo Spirito – viene riletto da questi autori alla luce del pragmatismo come uno “spazio delle ragioni” in cui i diversi agenti si relazionano attraverso una dialettica di riconoscimenti e impegni storicamente, linguisticamente e culturalmente determinati. Non è mancato chi ha visto in ciò una urbanizzazione, se non addirittura un indebolimento, della grandiosa architettura hegeliana. Un altro punto discusso da questi interpreti è se quello hegeliano possa definirsi un pensiero metafisico o, piuttosto, avverso alla metafisica. Qui forse un hegeliano continentale sorriderebbe, ma il fatto che esista un dibattito in merito è indicativo una volta di più di quanto Hegel possa risultare “scivoloso”. E non è tutto: la innegabile attenzione di Hegel all’oggettività del pensiero, e alle branche “reali” della filosofia, ha portato a mettere in discussione l’etichetta affibbiatagli di “idealista”, al punto che si è giunti a parlare di un hegelo-realismo.
Il moltiplicarsi di studi a carattere storico-genetico, nel frattempo, permette una conoscenza sempre più dettagliata dell’opera e delle fasi di sviluppo del sistema. Lo studioso, in questo modo, può orientarsi con maggiore cognizione di causa all’interno dello sconfinato universo hegeliano. E tuttavia, i problemi passati in rassegna sono la testimonianza che la domanda su chi è stato Hegel o chi sia oggi per noi è ancora apertissima. Certo, possiamo dare per assunto che quella di Hegel è una delle più maestose dimostrazioni che la verità non si dà se non nell’interezza delle sue relazioni (das Wahre ist das Ganze), il che è quanto mai importante oggi, nella dispersione e nello spacchettamento delle informazioni seriali in cui siamo sommersi; o che è una delle più potenti confutazioni dell’individualismo e del riduzionismo, motivo altrettanto importante, soprattutto nell’era del trionfo del tecno-capitalismo.
Forse, però, sarebbe opportuno impegnarsi con aumentata serietà in questo compito, certo non facile, ma indubbiamente urgente di “rispondere” a Hegel – fosse pure per condannarlo: non importa. Perché ci sta parlando da due secoli e mezzo, e noi non ci siamo ancora decisi su come replicare.
29 settembre 2020