Intervista ad Andrea Surbone, autore di un saggio visionario e, al tempo stesso, concretissimo. Il suo è il tentativo di pensare il lato nascosto della possibilità, quello non in vista nella ripetizione della quotidianità, ma quello che può illuminare il futuro.
di Redazione
A settembre 2019 è uscito il libro Il lavoro e il valore al tempo dei robot – Intelligenza artificiale e non-occupazione, di D. Astrologo, A. Surbone, P. Terna, Meltemi, Milano 2019; a quale scopo, dopo così pochi mesi, una revisione di Filoponìa, l’utopia con la quale partecipi a questo libro?
Filoponìa sgorga da decenni di osservazione, elaborazione, sintesi; è oltremodo presuntuoso – un vero peccato di superbia – considerare questo fluire concluso con la pubblicazione di un libro.
Soprattutto in considerazione dei molti stimoli successivi, primo fra tutti il Battibecco [la seconda parte del libro in cui i tre autori interagiscono e dibattono i rispettivi saggi (n.d.r.)]; ma anche le presentazioni, grazie allo scambio con Dunia e Pietro nonché con il pubblico; o le chiacchierate con gli amici. Due interi capitoli, per esempio, si sono aggiunti: L’ambiente e Distribuzione o redistribuzione.
Le integrazioni; le conseguenze, prima sottese e ora palesi; i dubbi; le precisazioni; forse nuovi spiragli. Da qui l’urgenza di una nuova versione.
Più che un’utopia sembra un’analisi della situazione in essere.
Circa l’utopia, e il mio desiderio di diffondere Filoponìa, mi rifaccio alla Treccani: «utopìa s. f. [...]. – 1. Formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello; [...]».
Quali che siano, infatti, gli scenari ideologici, gli obiettivi politici sono fari che indirizzano la rotta; l’utopia è – piuttosto – il canto delle sirene, che ammalia e coinvolge, che spinge a navigare anche verso l’ignoto.
Tuttavia, nel lessico comune utopia ha anche il significato di “modello non realizzabile, astratto”; definire, quindi, utopie quelli che in realtà sono obiettivi politici – come sovente usa fare il mainstream – ha come conseguenza di far credere che tali obiettivi siano irrealizzabili; e questo sopisce viepiù la forza del loro messaggio.
Al contempo, è difficile proporre una distinzione netta fra questi due elementi imprescindibili di ogni confronto sociale senza avere sul tavolo anche reali utopie, disegni completi di nuove società, comunque realizzabili.
Filoponìa cerca di inserirsi in questa dicotomia con una propria utopia: l’uscita dal paradigma del denaro; che, nell’articolazione della proposta, si concretizza nella sostituzione del denaro odierno con una sua versione rivista: anche in Filoponìa esiste un denaro, sebbene assai differente da quello che quotidianamente usiamo.
Ritengo, quindi, utile anche alla proposizione sociale, come all’agone politico, che le utopie vengano diffuse e discusse; pure quando raccontano un assetto della società non perfettamente aderente all’idea che propugniamo: diffondere e dibattere le utopie, infatti, ha persino lo scopo di alimentare un fervido ambiente di discussione e confronto.
Ecco, qui di seguito il senso di Filoponìa e del suo divenire.
«Io ne ho viste cose che voi umani non volete immaginarvi: l’ambiente in fiamme al largo dell’avidità umana, e ho visto la forbice sociale divaricarsi sì tanto da divenire tornante […]».
La libera interpretazione del celeberrimo monologo di Roy in Blade Runner mi è, quindi, utile per introdurre Filoponìa.
Filoponìa: a cosa si deve questo titolo?
Certo, qualche parola su filoponìa; operosità, nella lingua, e nel lessico, di Platone; e declinata nel testo non solo come attitudine al fare ma, cavalcando l’accento sullo sforzo, sulla fatica – πόνος –, giungendo al concetto di impegno, di mettersi in gioco, sia personalmente sia per la collettività.
A cosa porta la libera interpretazione di Roy?
Tornando a Roy, tre sono le libere interpretazioni: che voi umani non volete immaginarvi al posto di non potreste, a significare il fideismo con il quale viene ormai percepito l’attuale paradigma capitalista e finanziario; fideismo che rasenta l’ottusità nel momento stesso in cui ogni alternativa viene bollata come innaturale e ogni ribellione quale “atto contro natura”; l’ambiente in fiamme al largo dell’avidità umana al posto di navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione per rimarcare l’effetto planetario e ambientale del fideismo; forbice sociale divaricarsi sì tanto da divenire tornante al posto dei raggi B e di Tannhäuser per rimarcare l’effetto sociale ed economico del fideismo.
Qual è, dunque, il ruolo del fideismo?
Il fideismo è (forse) il maggior successo della finanziarizzazione del capitalismo: considerare – e far accettare pressoché da tutti tale considerazione – l’attuale forma societaria come “naturale” e, di conseguenza, incontrovertibile.
Eppure, non è così.
L’economia, tutta l’economia e a qualsivoglia ideale sia essa improntata, è creazione unicamente umana; creazione attorno alla quale, nel suo svolgersi millenario, si sono sprecati i δισσοὶ λόγοι: e, malgrado il fideismo naturale contro il quale mi scaglio, anche oggi sui singoli provvedimenti tecnici possiamo trovare dottissime entusiastiche accettazioni e altrettante confutazioni. Insomma, le leggi dell’economia sono leggi artificiali da non confondere per alcun motivo con le leggi naturali: sarebbe meglio, allora, definirle come leggi artificiose, per rimarcare ancor più il pensiero umano che vi sottende e contrastare al massimo il mantra del capitalismo, quell’ulteriore artificio che ce lo fa apparire, appunto, come una cosa naturale, retta da leggi della natura.
Riuscire a introiettare l’artificiosità dell’economia è un primo passo, tutto interiore e intellettuale ma necessario, verso l’emancipazione.
La sostenibilità ambientale nel suo complesso e le risorse, ormai sempre più scarse, sono gli elementi imprescindibili di ogni proposta. Sebbene non sempre le ipotesi sul futuro del mondo ne tengano conto, l’onestà intellettuale dovrebbe spingerci a dichiarare esplicitamente come faremo; perché qualcosa accadrà –sta già accadendo – e, di conseguenza, l’umanità qualche misura la deve/dovrà adottare. Non basta nascondersi dietro ai cicli climatici naturali: essi non dicono, infatti, né dell’accelerazione antropica di tali cicli, né del rapporto, viepiù ridotto, fra risorse e popolazione mondiale; e non esplicitare in quale modo la proposta in questione affronterà tali temi palesa addirittura la viltà intellettuale di chi una simile monca proposta apporta al dibattito sul futuro prossimo.
La forbice sociale è anch’essa un elemento imprescindibile che, però, attiene all’aspetto sovrastrutturale della società, l’aspetto costruito da tutti noi nel corso dei millenni; quando, invece, l’ambiente attiene all’aspetto naturale (e per quanto sospinto dall’antropizzazione). Ciò non significa che abbia una posizione di secondo piano; tutt’altro. E questo proprio perché accade che si dichiari che il “naturale” contrasto della forbice sia l’ascensore sociale, a disposizione di ciascun abitante del globo; e il fideismo economico ci fa apparire tutto ciò davvero alla portata di chiunque, quando, invece, è solo l’ennesima truffa. Affrontare, pertanto, il problema sociale ed economico è una priorità quanto lo è quella ambientale; non solo perché la disuguaglianza ha raggiunto livelli da “tornante” ma anche perché il saccheggio delle risorse condivide la sua matrice con il saccheggio degli esseri umani: e solo affrontare tale matrice può portare a una reale soluzione; reale nel senso di complessiva, onnicomprensiva, globale: lasciare, infatti, non affrontata anche una sola sfaccettatura significa non aver risolto il problema.
È possibile riuscire ad affrontare insieme questi tre aspetti, il fideismo, la sostenibilità ambientale e la forbice sociale?
Valutare insieme i tre aspetti porta necessariamente all’urgenza di una nuova visione del mondo, di un nuovo paradigma che lo possa interpretare nel senso più democratico possibile; un nuovo paradigma che riesca a dare piena soddisfazione all’essere umano ma nel rispetto del globo terrestre e di tutte le sue “componenti”, minerale, vegetale e animale. Significa cercare una strada, alternativa all’attuale finanziaria/capitalista, che riesca a salvare la nostra contemporaneità così come a rispettare il vincolo della scarsità delle risorse e del degrado dell’ambiente ma riuscendo anche a migliorare la condizione umana nel suo complesso (in considerazione delle inaccettabili disparità tutt’oggi presenti; e non mi riferisco solo al divario fra le retribuzioni nelle aziende bensì ai miliardi di persone che vivono in povertà; e che nessuna proposta degna di questo nome può lasciare indietro). D’altronde, la scienza ha permesso persino di vincere leggi naturali – si pensi all’esplorazione dello spazio grazie al superamento della legge di gravità –: perché non porsi il problema di sopravanzare, o cambiare del tutto, il paradigma societario, che è creazione tutta nostra, per uscire alfine dalla aberrazione del denaro odierno?
Già, perché ciò non avviene? O se avviene non sembra affiorare nel dibattito economico e sociale attuale?
Il mio metodo di lavoro è un traslato della cucina destrutturata: la società attuale, dalla quale è necessario partire al fine di riuscire a dare piena soddisfazione all’umanità, viene scomposta nei suoi elementi base e poi ricomposta, ottenendo una ricetta profondamente diversa – un cambio di paradigma – eppure basata sui medesimi ingredienti.
Come ogni utopia, adottata nella società contemporanea Filoponìa si rivela un guazzabuglio di sciocchezze, tuttavia accolta per ciò che è, un cambio di paradigma, manifesta tutta la sua efficacia e semplicità.
Sono convinto, infatti, che non sia sufficiente intervenire sull’attuale società per renderla maggiormente perequata e sostenibile; è necessario anche sollevare lo sguardo oltre l’emergenza e immaginare, diffondere, discutere, sperimentare utopie che permettano nuovamente all’umanità di sognare un mondo migliore; e di lottare per ottenerlo.
Per questo motivo contatto le persone, sia quelle influenti come i politici e i ricercatori sia quelle semplici come me, che mi sembrano sensibili e preoccupate: per far conoscere non solo e non tanto la mia utopia quanto l’idea che il pensiero non è “unico”, bensì ancora variegato e propositivo.
Questa società destrutturata, dunque, è pressoché impossibile; a meno di uscire dall’attuale paradigma per entrare in uno nuovo, ridisegnato su condizioni impensabili ai tempi nei quali l’attuale paradigma fu inventato (l’accelerazione antropica dei cicli climatici e il rapporto fra risorse e popolazione mondiale). Compito al quale Filoponìa prova a dare una risposta.
L’utopia filoponica riesce a dare una qualche risposta reale? O è preferibile operare sull’attualità, cercando di migliorare l’esistente? Proposte ve ne sono sul tavolo, anche di affascinanti e radicali.
Innestare correttivi sull'esistente, cercando in questo modo di giungere a un cambio di paradigma, necessita di tempi lunghi: per diffondere il nuovo progetto e soprattutto per farlo recepire; tutto ciò viene descritto nel nuovo capitolo Distribuzione o redistribuzione: lavorare sui correttivi non solo comporta infinite discussioni sugli stessi ma, a favore degli oppositori al nuovo sistema, ottiene lo scopo di spostare l’attenzione dall’essenza della proposta ai tecnicismi necessari, creando così una cortina di fumo che preclude la nitida visione della nuova società. Una scelta di opportunità strategica mi porta quindi a immaginare un'utopia: cucita sì sull'esistente ma non una sua correzione bensì direttamente un cambio di paradigma, una nuova società che sia al di fuori dell’attuale sistema capitalista/finanziario e, di conseguenza, dei suoi correttivi e tecnicismi; sognare è lecito, se il sogno è possibile e soprattutto se può divenire realtà. E la tecnologia che abbiamo oggi ci permette di realizzare sogni e utopie, fin ora irraggiungibili per la mancanza di questa stampella tecnologica; per dirla con un paragone: come nella musica la tecnologia ha permesso la nascita del progressive rock, così nell’antropologia la tecnologia può permettere la nascita di società migliori.
È indubbio che l'attuale società – e mi riferisco alla società occidentale, nella quale vivo e che, quindi, conosco – abbia raggiunto livelli di benessere validi, almeno per coloro i quali appartengano a classi non ancora devastate dallo sfruttamento prima e dalla crisi poi. È a questo livello di benessere che un nuovo paradigma deve provare a puntare, pur nel massimo rispetto dell’ambiente; è ben vero, infatti, che il mondo attuale abbia un consumo scellerato e molto mal pianificato delle risorse disponibili, ed è probabile, quindi, che porre al mercato la limitazione della sostenibilità nel presente e nel futuro possa rivelarsi la strada da percorrere, nella convinzione che sia più facile imporre regole, restrizioni e vincoli al mercato piuttosto che all’essere umano. Ed è la strada che cerca di percorrere Filoponìa.
È, quindi, tutta da buttare via l'attuale impostazione economica?
Forse basta evidenziare ed eliminare i punti negativi; che sono il saccheggio duplice di cui sopra. Risolvere quegli aspetti aprirà le porte a un nuovo paradigma che potrà mantenere ciò che di buono attualmente esiste.
Un paradigma essenziale, umanistico, sostenibile, perequato, tecnologico, partecipativo e libertario appare davvero utopico; quale dovrebbe essere il percorso per raggiungerlo; e quali i tempi?
Circa l’urgenza, non è necessario aggiungere altro: il duplice saccheggio – ambientale e umano – ci impone di affrontare tale infamia con la massima determinazione e lucidità; anche – e, forse, soprattutto – utilizzando lo strumento dell’utopia. Chi di fronte a tale urgenza neghi o traccheggi altri non è che un cieco; o, peggio, un colluso.
Veniamo, allora, all’analisi.
Salvando la proprietà privata, salvando in qualche modo la classe borghese, salvando il fare impresa, salvando la proprietà anche privata dei mezzi di produzione, Filoponìa ha forse il problema di assomigliare a un brutto compromesso.
Tuttavia, nell’essenza Filoponìa mantiene elementi innovativi propedeutici alla proposizione del nuovo paradigma: la totale, compiuta e gratuita scolarizzazione, con il raggiungimento della laurea per tutti (in risposta alla prima osservazione); il reddito di emancipazione, a garantire a tutti la tranquillità economica (in risposta alla seconda osservazione); la “penalizzazione di sostenibilità”, a impedire la depredazione delle risorse e a limitare al massimo i rifiuti e l’inquinamento (in risposta alla terza osservazione); l’uscita dal paradigma del denaro, per come lo conosciamo oggi, così da giungere a un mercato che sia somma di relazioni e non più sopraffazione (in risposta alla quarta osservazione); la ricerca scientifica tendente al progresso più che al profittevole (in risposta alla quinta osservazione); la via partecipativa per giungere alla società filoponica, come alternativa alla fase cruenta rivoluzionaria (in risposta alla sesta osservazione); la suddivisione nella retribuzione del lavoro, che vede il valore orario alla base della parte quantitativa uguale per chiunque e ovunque, e la parte qualitativa valutata solo sull’impegno personale, azzerando, in tal modo, la distinzione in classi “di merito” e operando una netta distinzione, una vera antitesi, fra meritocrazia e filoponìa (in risposta alla settima osservazione). Ma anche il coinvolgimento e il controllo popolare tramite la democrazia partecipativa delle Giurie Temporanee Sorteggiate; o la nuova moneta virtuale in sostituzione dell’odierno denaro; o la piena occupazione.
Un percorso davvero impegnativo: tuttavia, siamo sicuri che ci conduca a un reale cambio di paradigma?
La società attuale è già smottata: dal capitalismo al finanziarismo. E mentre il capitalismo ancora si fondava anche sull’afflato a distinguersi tramite capacità, il finanziarismo viene scollegato persino dalla meritocrazia, affermando solo la cruda brutalità della legge del più economicamente forte. Ovvero, mentre la meritocrazia talora comprende in sé, oltre alla posizione sociale che ne è l’ingrediente principale, anche alcune capacità reali, al finanziarismo necessita solo un’ingente quantità di denaro e l’accesso all’algoritmo; operando in tal modo il passaggio all’essere asettico della deprivazione umanitaria; e che porta con sé l’allontanamento dal concetto di responsabilità: non è più l’imprenditore a “fare soldi”, oggi è il sistema a farli. Un sistema che fonda il suo potere sul fideismo, quello con cui abbiamo aperto questa conversazione.
Correggere il finanziarismo non è la soluzione; è solo un palliativo. Bisogna andare molto più a fondo, alla radice in ognuno di noi. Serve il paradigma essenziale, umanistico, sostenibile, perequato, tecnologico, partecipativo e libertario. O almeno immaginarlo, discuterlo, impegnarsi a realizzarlo.
E Filoponìa dichiara sin dal sottotitolo la via maestra per giungere al nuovo paradigma: uscire dal paradigma del denaro.
A parte le suggestioni storiche che provengono fin dagli albori del pensiero, perché identificare il problema con il denaro? Perché sposare la definizione di sterco del diavolo?
Filoponìa non propone di abbandonare il denaro inteso come unità di misura e mediatore affidabile nelle transazioni economiche; tutt’altro. Sorretti dalla tecnologia odierna, è sufficiente limitare questo nuovo denaro alle due peculiarità appena citate: essere unità di misura ed essere mediatore affidabile, ovvero portatore di fiducia intrinseca riconosciuta da tutti gli attori della transazione economica, anche e soprattutto se fra di loro non si conoscono personalmente. Oggi, al contrario, il denaro è esso stesso merce e scambiato in un mercato drogato dalla finanziarizzazione; ed è in questo ambito che Filoponìa interviene, sottraendo al denaro le caratteristiche da merce: come viene scritto nell’Epilogo, Filoponìa, alla fine, avrebbe potuto intitolarsi Jenga, in riferimento al gioco d’abilità nel quale togliendo un mattoncino la torre rimane in piedi: è necessario, allora, sottrarre questo diabolico mattoncino.
L’esperienza che scaturisce dall’osservazione del mondo, dello sviluppo – o inviluppo – delle società e degli Stati, non spinge verso la tua cucina sociale destrutturata; piuttosto, verso un uso percentualmente differente degli ingredienti.
Filoponìa è frutto delle decennali osservazioni sul mondo del lavoro e dell’economia – la base dell’attuale paradigma – dal loro interno, e si presenta come un manuale di istruzioni – o, per restare nella cucina sociale destrutturata, come un ricettario –, tutto teso alla costruzione di un modello che possa funzionare e che possa essere realizzato anche subito; trattandosi di un’utopia, il suo orizzonte è globale, tuttavia una sua sperimentazione locale è possibile hic et nunc.
La prima osservazione è più psicologica che economica: l’uomo odierno trova la propria identità personale nella mansione svolta, identità che va scemando per la perdita di lavoro e la spietata precarizzazione delle occupazioni che rimangono; lasciando l’uomo non solo povero e precario ma anche nudo d’identità, sperso e imbelle (e favorendo così l’accettazione della concentrazione della ricchezza che, per contro, un uomo fiero e libero contrasterebbe).
Il nuovo paradigma dovrà essere strutturato in maniera da permettere all’uomo di trovare la propria identità in sé stesso, quale che essa sia; e non più nella mansione svolta. Se oggi è abitudine chiedere a una persona appena conosciuta “che lavoro fai”, nella nuova società la domanda sarà “chi sei”. Il nuovo paradigma dovrà essere un paradigma essenziale.
La seconda osservazione riguarda l’aspetto economico della prima: con la costante diminuzione del lavoro sale la precarietà economica e la povertà aumenta; soprattutto, la forbice economica raggiunge livelli inaccettabili; e non accenna a fermarsi.
Il nuovo paradigma dovrà essere strutturato in maniera da permettere all’uomo la certezza della tranquillità economica, una delle basi necessarie affinché la propria identità possa esplicarsi anche in campi differenti da quello economico.
Il nuovo paradigma dovrà essere un paradigma essenziale e umanistico.
La terza osservazione riguarda l’ambiente. È ridondante ripetere analisi e appelli: gli effetti antropici su risorse in esaurimento e inquinamento sono in forte accelerazione, e il mondo corre veloce verso cambiamenti che lo potranno rendere inabitabile a molte specie animali, compresa quella umana.
Il nuovo paradigma dovrà essere un paradigma essenziale, umanistico e sostenibile.
La quarta osservazione è sul mercato. In Filoponìa il mercato è amorfo; rileva semplicemente la presenza di una relazione riconducibile all’ambito economico: persino un dono, allorché vi sia sotteso l’impegno a ricambiarlo, diviene relazione economica.
In quanto amorfo, sono le caratteristiche e le dinamiche grazie alle quali tali relazioni si svolgono a denotarne la qualità, negativa o positiva che sia.
Il nuovo paradigma dovrà essere un paradigma essenziale, umanistico, sostenibile e perequato.
La quinta osservazione riguarda la ricerca. Lo sviluppo tecnologico ha permesso al genere umano un millenario percorso di affrancamento dalla gravosità dell’esistenza; strada che, sebbene sia tutt’altro che conclusa e anch’essa assai sperequata, indica comunque la ricerca quale maggior alleata che si possa avere nell’affrontare i problemi immensi che abbiamo creato, per primo l’effetto dell’antropizzazione sull’ambiente. Una ricerca che possa essere svincolata dalle pressioni del denaro, potrà trovare soluzioni oggi improponibili perché lesive delle rendite di posizione sulle quali poggia l’odierno potere economico.
Il nuovo paradigma dovrà essere un paradigma essenziale, umanistico, sostenibile, perequato e tecnologico.
La sesta osservazione riguarda la ribellione, considerata in quanto tratto distintivo dell’animale umano. Quella caratteristica che ha permesso all’uomo di deviare dalle consuetudini del gruppo per immaginare e poi percorrere vie diverse. Un tratto dell’umanità che porta a liberarsi dai gioghi non solo creando un nuovo gruppo ma identico nelle sue dinamiche interne (ovvero, la conservazione) come anche nuovi gruppi retti da relazioni differenti, inedite (ovvero, l’innovazione). Ribellione verso i gioghi di qualunque genere essi siano, politici, economici, ambientali, e via dicendo. E che va rispettata, essendo un germe dell’innovazione, ma pure temuta, potendo anche divenire una leva per la conservazione; soprattutto in presenza del fideismo di cui si è detto e che la potrebbe fagocitare e strumentalizzare.
Il nuovo paradigma dovrà essere un paradigma essenziale, umanistico, sostenibile, perequato, tecnologico e partecipativo.
La settima osservazione è l’afflato a distinguersi e a dividersi, per decisione, o caratteristica, personale, fra coloro che scelgono di reggere il peso delle responsabilità, soprattutto quelle sociali ma anche quelle più personali, e coloro che non se la sentono di assumersi responsabilità per la collettività; senza, però, che tale distinzione venga gravata da pesanti giudizi di merito, né consentendo a essa di sfociare in gerarchie, il più delle volte oppressive.
Il nuovo paradigma dovrà essere il paradigma essenziale, umanistico, sostenibile, perequato, tecnologico, partecipativo e libertario.
Eccoci giunti, infine, al manuale d’istruzioni, al ricettario: Filoponìa, alla cui lettura si rimanda per il “come”, preferendo ora inquadrarla tratteggiandone l’urgenza, l’analisi, le motivazioni.
Fin ora, dei tre aspetti, il fideismo, la forbice sociale e la sostenibilità ambientale, sono stati discussi più che altro i primi due; qual è la proposta circa la sostenibilità ambientale?
Se tutto ciò pone le basi di un nuovo paradigma economico, riguardo alle risorse e al rispetto che dobbiamo sia verso noi stessi sia verso le generazioni a venire e, soprattutto, a quello verso la splendida casa comune che tutti noi abitiamo, il globo terrestre, oltre a togliere dal mercato la sua merce più ghiotta, il denaro, bisogna inscrivere il mercato stesso entro i confini invalicabili della sostenibilità.
In Filoponìa si parla di tachiproduzione, intesa come perniciosa commistione di sovrapproduzione e incessante riassortimento dei prodotti, che, insieme all’ipertrofia dei rifiuti, all’inquinamento e al consumo del suolo e dell’energia, costituisce la base della catastrofe ambientale verso la quale stiamo spingendo il mondo.
Orbene, inscrivere il mercato entro i confini invalicabili della sostenibilità e sottrarre al denaro qualche caratteristica porta con sé, oltre a quella “cosciente” attraverso l’insegnamento, anche un’azione educativa automatica: l’abitudine a operare in un certo modo crea naturalmente l’educazione a operare in quel modo.
Manuale di istruzioni, ricettario; Filoponìa vuol essere anche un saggio pedagogico?
Nel libro, fra i ringraziamenti c'è anche la mia maestra per i fondamenti; dunque ne ho viste pedagogie che voi umani… non è quindi mia intenzione scrivere un simile saggio; tuttavia sono persuaso che l'educazione sia uno dei fattori fondamentali della crescita umana; e ho la convinzione che sia più facile imporre regole, restrizioni e vincoli al mercato e al denaro – entrambe creazioni umane – piuttosto che all’essere umano, portatore di caratteristiche anche innate; se, infatti, quelle sovrastrutturali (cioè create dall’uomo) sono approcciabili proprio in quanto nostre creazioni, quelle innate sono assai più difficili da affrontare, e farlo porta sovente con sé una coercizione (e la conseguente ribellione).
Quest’ultima affermazione ci conduce alle motivazioni alla base di Filoponìa; cosa puoi dirci in merito a esse?
Le motivazioni sono, tutto sommato, di opportunismo strategico: presentare qualcosa che contenga gli elementi necessari a un vero paradigma ma che indossi un vestito consueto e non di foggia strana; facilmente accettabile, dunque; addirittura auspicabile.
Chi non preferirebbe, infatti, la totale, compiuta e gratuita scolarizzazione, la tranquillità economica, la democrazia partecipativa, la piena occupazione, il welfare completo e gratuito, la libertà nel fare impresa e nessuna tassazione come compensazione del rispetto dell’ambiente? Tutte istanze auspicate da chiunque: da coloro che vedrebbero migliorare la propria attuale condizione, così come da coloro che potrebbero immaginare in questo paradigma una minaccia, la quale a ben guardare svanisce di fronte alla libertà nel fare impresa e all’assenza di tassazione.
In altre parole, Filoponìa – alla cui lettura si rimanda per il come tutto ciò potrà avvenire – propende per una transizione partecipativa, costruita sui desideri e le aspirazioni del popolo; dalla mia ventennale attività in campo agricolo, infatti, traggo il concetto dell’innesto sul ceppo con le sue radici: il nuovo paradigma essenziale, umanistico, sostenibile, perequato, tecnologico, partecipativo e libertario innestato su ciò che già esiste e che conosciamo perfettamente.
Torniamo, dunque, alla domanda: siamo sicuri che Filoponìa ci conduca a un reale cambio di paradigma? Questo nuovo frutto ha le peculiarità del ceppo o dell’innesto?
Sì, si tratta di un nuovo paradigma; non della correzione dell’attuale paradigma.
Anche stavolta con una motivazione di opportunismo strategico.
Cassandra non è mai stata, né mai sarà, attraente, affascinante, coinvolgente; svolge un ruolo imprescindibile di informazione, questo assolutamente sì, tuttavia la paura respinge invece di attrarre. E Cassandra oggi è denunciare – e uso volutamente denunciare invece di profetizzare: ché ormai il disastro ecologico non va più profetizzato, lo si può, e lo si deve, osservare già pienamente in atto – la fine del mondo, sotto i colpi dell’antropizzazione esacerbata; del delirio di onnipotenza, della superbia e della strafottenza che la finanziarizzazione porta in sé. Opporre al fideismo la denuncia di Cassandra non ha prodotto sinora risultati reali al livello della società; ne ha prodotti al livello di alcuni singoli, così come anche a quello di qualche comunità; ma non al livello della società globale. L’essere umano si sta dimostrando ancora una volta ingenuo; e ancora una volta succubo della dea Speranza, alla quale affidarsi inermi. E quand’anche si risvegliasse dal torpore, proporre restrizioni direttamente al popolo rischia di generare ribellione.
Filoponìa, per contro, propone un nuovo paradigma, basato sulla distribuzione; quando oggi il dibattito si concentra sulla redistribuzione. Distribuzione di reali pari opportunità a chiunque e per tutto l’arco della vita di ciascheduno; mentre la redistribuzione da una parte si basa unicamente su una qualche perequazione del reddito, dall’altra affida alla politica e agli Stati il compito di allocare le risorse così ottenute, poche o tante che siano. Significa dover stabilire priorità, con il conseguente scontro sociale, laddove Filoponìa giunge al completo e gratuito welfare. Ma non solo; per ridistribuire bisogna prima scoprire le ricchezze da redistribuire, che sovente vengono nascoste in paradisi fiscali, o sotto prestanomi od occultate fraudolentemente.
Insomma, per quanto lecito e giusto sia, redistribuire significa togliere qualcosa a qualcuno: come si può pensare che questa azione sia più facile, meno cruenta, più agevole che non la società filoponica la quale opera con la distribuzione a monte?
Ecco, quindi, la motivazione: un nuovo paradigma da raggiungere tramite una via partecipativa.
Distribuzione o redistribuzione; ma non è la stessa cosa, semplicemente spostata nella sequenza temporale? La redistribuzione avviene a valle della creazione di ricchezza, mentre la distribuzione avviene a monte.
È vero, se vista solo come sequenza temporale; se, per contro, la vediamo nel complesso della proposta di Filoponìa – penso soprattutto al capitolo dedicato al denaro filoponico – si comprende quanto sia davvero un nuovo paradigma.
Mi pare utile, allora, concludere riportando dall’aggiornamento del testo il nuovo capitolo Distribuzione o redistribuzione:
« Oggi la nostra società si regge sul denaro, la merce sottesa a tutte le merci. Senza, si viene relegati ai margini del sistema: tutto ruota intorno al denaro e tutto necessita di denaro.
E oggi la nostra società affida al lavoro il compito di approvvigionare le persone di denaro; coloro i quali non vengono approvvigionati tramite il lavoro (e la pensione, cioè il riverbero del lavoro una volta che questo è cessato) vengono sostenuti in vario modo: dallo stato sociale, dalla beneficenza e via dicendo (e sovente dalla famiglia fino all’impiego, o come sta accadendo in questo periodo di riflusso economico); in ogni caso relegando le persone – o i popoli, allorché la beneficenza avviene come cooperazione internazionale – in uno stato di subalternità, di dominio sia psicologico sia materiale. A seconda del lavoro che svolgi – sia esso un lavoro lecito o illecito, lo schema rimane identico – vieni, quindi, approvvigionato di denaro; e del “tuo posto nella società”: infatti, soprattutto in quella contemporanea il connubio fra lavoro, denaro e posizione sociale ha monopolizzato l’istinto a distinguersi insito nell'uomo; portando le persone a identificarsi quasi totalmente nel proprio ruolo lavorativo.
La domanda, in realtà, è pienamente attuale; sono gli squilibri, la forbice sociale, la sperequazione a renderla attuale e da affrontare già oggi: cosa accadrà nella società del futuro, allorché l’automazione raggiungerà la pienezza e sarà in grado di soddisfare ogni bisogno? La società dovrà inventarsi un nuovo metodo per fornire le persone di denaro (e per risolvere altrimenti la questione identitaria).
Questo nuovo metodo è in realtà – per il momento e per il pensiero corrente dominante – un vecchio metodo: la redistribuzione.
Possiamo descriverlo così: la società è assai sperequata nelle condizioni di partenza (ricchezza, cultura, ambiente sociale di provenienza, popolo di provenienza, regione di provenienza, genere, gruppo sociale di appartenenza, affiliazioni varie e così via) e crea fin dalla nascita differenze; differenze che, nonostante l’ascensore sociale – il quale, però, nella maggioranza delle volte è più placebo che realtà –, vanno oltremodo divaricandosi, creando la sperequazione della forbice sociale. L’intervento sociale, quindi, ha l’obiettivo di redistribuire in parte la ricchezza così creatasi. E il dibattito economico si concentra sui correttivi – la tassazione, principalmente –, sugli effetti di freno o di rilancio dei correttivi, dipoi sui correttivi dei correttivi, indi sui correttivi dei correttivi dei correttivi… in un infinito susseguirsi di dibattiti e interventi economici; il cui fine è determinare quanto prendere (un poco o magari anche qualcosina in più, fino alla perfetta perequazione) ai ricchi per dare ai poveri.
Pur condividendo la redistribuzione in termini sociali e politici, la grossolana descrizione qui sopra opera e funziona all’interno del paradigma del denaro, e presupponendo di rimanervi; paradigma il cui correttivo è costituito, appunto, dalla redistribuzione; e a maggior ragione allorché la creazione di valore proverrà principalmente – o unicamente – dalle intelligenze artificiale e sintetica.
Redistribuzione che avviene, quindi, nella cornice di uno scontro sociale e ideologico; e che, essendo un correttivo, di fatto cura il sintomo non la malattia, ovvero il paradigma del denaro.
Filoponìa, grazie agli obiettivi, ai presupposti, ai vincoli, alle caratteristiche e agli strumenti sin qui delineati, propone una società molto differente e nella quale la redistribuzione non sia necessaria. Nell’economia attuale, calata nel paradigma del denaro, ciò è impossibile; nell’economia filoponica ne è, addirittura, conseguenza.
Accettando, infatti, l’afflato a distinguersi anche nei campi della ricchezza e della proprietà privata, Filoponìa sposta a monte la soluzione al problema della forbice economica: con la distribuzione in partenza di risorse pari per tutti. La piena scolarità; nessun assillo economico per la propria esistenza; l’abbattimento degli impedimenti monetari al fare impresa, così come a qualsivoglia realizzazione personale. E lasciando all’essere umano la completa e assoluta discrezionalità circa la propria vita.
Da questa base, comune a chicchessia, ciascuno potrà partire per costruire il suo percorso; coloro che avranno lo stimolo a mettersi in gioco, potranno farlo anche in ambito economico; mentre coloro che non hanno questo afflato avranno la possibilità di esprimere sé stessi in altri modi. Questa realizzazione, peraltro, avverrà in un consesso umano evoluto diversamente, nel quale la realizzazione economica sarà solo uno dei tanti modi per raggiungere il proprio “posto nella società”; e un esempio fattuale proverrà dall’abbandono del concetto di fallimento, riferito sia al mondo delle imprese – che, al massimo, chiudono – sia alle persone, le quali, inadeguate a una attività, si esprimeranno al meglio nelle proprie peculiarità, in un profondo e pienamente sviluppato conosci te stesso. Un nuovo paradigma, infatti, deve proporre una società che sappia riconoscere, rispettare e stimare i differenti stili di vita; per riuscire a parlare a tutti loro. Se invece di escludere vogliamo includere, non dobbiamo rivolgerci unicamente a una visione della vita di tipo occidentale; può accadere che un pastore nomade abbia un concetto del tempo e dello spazio diverso dal nostro; pertanto, potrebbe volersi non riconoscere in proposte che parlano di smart working e accesso ai concerti dodecafonici; oppure le società basate sulla contemplazione più che sull’azione, per citare due casi fra i molti possibili.
E tutti saranno protetti e sostenuti dalla piena tranquillità economica e dalla piena, e continuativa, acculturazione: gli strumenti base per la costruzione di sé stessi; ma non solo, la protezione è anche psicologica: da un lato, sapendo che la parte materiale di ciò che si costruisce non viene erosa dalla redistribuzione, si realizzerà quel motto dai capitoli precedenti, il passaggio dall’avere celato all’essere rivelato; dall’altro lato, sapendo che questo particolare essere rivelato è solo uno dei tanti ambiti - quello economico – nei quali potremo realizzarci.
Pur ribadendo con ferma convinzione che, trovandosi la società attuale all’interno del paradigma del denaro, la redistribuzione è non solo necessaria ma anche giusta, affermiamo che questo trapasso da una società della redistribuzione, nella quale una parte di ciò che crei ti viene sottratto, a una società della distribuzione, ove, per contro, sono le condizioni di partenza a essere perequate, porti a una società nella quale la conflittualità s’affievolisce, in particolare quella sociale-economica. E conduce l’umanità intera verso la piena affermazione di ogni singolo e nell’ambito da egli stesso scelto; ossia ci conduce a una società che veda la distinzione dei singoli ma nella piena eguaglianza sociale: uguali ma diversi, tutti.
In realtà, sebbene la conflittualità s’affievolisca, la stratificazione del mondo in classi ha ormai un peso immenso: nord e sud, borghesia e proletariato, analfabeti e colti, solo per citare tre macro distinzioni; ma ben sapendo che simili categorizzazioni sono infinite e presenti nelle menti di tutti noi: per sentirsi “superiore” basta appartenere a un divario anche minimo di “categoria”; qualsiasi categoria, e con l’aggravante del pregiudizio per il quale il “diverso”, l’“altro” è il più delle volte considerato inferiore; talora superiore; pressoché mai uguale. Riuscire a cambiare questo paradigma – quello delle categorie e del loro “valore” – per capire, comprendere e fare nostra l’uguaglianza fra le persone, tutte le persone di tutto il mondo, sarà il passaggio più difficile da compiere, perché avviene – dovrà avvenire – nelle nostre più intime e radicate convinzioni; tuttavia, compiuto questo percorso il cambiamento potrà poggiare su basi solide, difficili da abbattere. Ci vorrà tempo, almeno tre o quattro generazioni per raggiungere questo fine: già solo l’obiettivo della completa scolarità richiederà almeno una generazione; e la piena scolarità è un passaggio fondamentale, sia per dare a ciascheduno gli strumenti conoscitivi sia per avere un pilastro su cui poggiare e costruire la nostra intima coscienza di uguaglianza; dipoi, accettazione e consapevolezza saranno una conseguenza che verrà col tempo ma che cementerà la vera transizione di paradigma.
Concludendo queste pagine di proposizioni con un proclama, possiamo dire che in alternativa all’attuale società della redistribuzione, la società filoponica, in ultima istanza, è la società della distribuzione. »
3 settembre 2020