Se un tempo la dialettica tra pensiero e azione era vista come centrale nel mondo culturale e filosofico, soprattutto per la recezione in Italia dell'idea gramsciana dell'intellettuale organico, oggi questo rapporto non sembra più venir preso in considerazione. In queste brevi note si cercherà di sviscerare alcune problematiche che questa complessa dualità pone.
di Alessandro Tosolini
Il rapporto fra pensiero e azione è un tema centrale della filosofia, anche se non sempre la sua rilevanza è stata riconosciuta. Quando si parla di pensiero si intende teorizzazione e sistema filosofico e quando si parla di azione si intende in che modo il pensiero stesso possa superare il necessario momento dell’astrazione per divenire vita concreta, modificazione della concreta prassi dell’essere umano. Ciò si può intendere in due modi: la propria vita individuale oppure la vita collettiva della società. Ora, queste due sono connesse dialetticamente, dato che per quanto possiamo sforzarci per migliorare, in una società povera avremmo necessariamente una vita povera.
Mostrata questa connessione, vi sono alcuni scogli da superare che rendono problematico il legame tra tra pensiero ed azione. Innanzitutto il rischio di insistere sulla "pratica" è quello di svalutare il momento teoretico e filosofico a favore di un rozzo ateoreticismo che solitamente si imbeve delle più varie concezioni, "mescolate" poi in un minestrone ecclettico che pesca dalle più varie concezioni del mondo a seconda che “servano” al suo fare o meno. Questo solitamente è il pensiero ingenuo e praticista di chi pretende di avere già le chiavi in tasca del reale con un po' di "pratica" e con qualche rozzo concetto immediato. Tale concezione è errata in quanto non sottoporre a critica la propria concezione del mondo, collocandola storicamente, significa avere una concezione del mondo rattoppata con il peggio delle vecchie concezioni immediate.
È ciò a cui si riferisce Gramsci quanto nei Quaderni critica il «pensare senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, cioè partecipare a una concezione del mondo imposta meccanicamente dall'ambiente esterno, e cioè da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente» . Insomma il rischio dell'ateoreticismo è proprio quello in realtà che non solo non si supera la filosofia, ma si fa filosofia di quart'ordine.
Per ristabilire la giusta connessione tra pensiero ed azione è però necessario fare un passo ulteriore. Gli errori di cui si è parlato prima derivano da un’errata separazione tra teoria e prassi. C’è però anche un modo errato di risolvere questa separazione, che è per esempio quello del pragmatismo. Questa concezione, ad esempio, risolve interamente la teoria nella prassi. Bisogna riconoscere un certo merito al pragmatismo, in quanto, nonostante la sua limitatezza teorica, ha sicuramente un ruolo nel criticare certo idealismo sfrenato che si bea delle sue vuote ciarle e delle parole senza produrre nessun progresso effettivo e nessun mutamento nella vita concreta. Purtuttavia gli errori del pragmatismo diventano evidenti non appena si guardi alla storia del sapere: quante scoperte sono state fatte solo sviluppando un determinato campo in maniera speculativa e senza nessuna connessione con una pratica immediata? Si veda la matematica, la fisica teorica o tantissime altre discipline.
Per superare questa impasse del pragmatismo è utile riprendere un’affermazione di Ludovico Geymonat in Scienza e Realismo secondo cui «la pratica è per lo più intrisa di teoria e la teoria è intrisa di pratica, sicché appare estremamente artificioso volerle considerate come del tutto distinte l’una dall’altra». Questa affermazione è necessaria per superare certe secche empiristiche del pragmatismo. Infatti per il pragmatismo non si parla mai di verità: in realtà non è possibile separare la scienza dalla morale, di modo che non esiste alcuna verità nella scienza ma solo un fine eminentemente pratico. E’ chiaro quindi come da questa affermazione origini anche una totale svalutazione della filosofia, che non ha un riscontro pratico immediato come la scienza.
Per superare questa ulteriore impasse del pragmatismo è necessaria dunque un’altra distinzione. L’affermazione del pragmatismo secondo cui la pratica è la verità, quindi che non esiste verità in sé, va ribaltata nell’affermazione secondo cui la verità è nella pratica. Queste due affermazioni sono solo apparentemente identiche. Nella prima infatti il momento teorico è completamente svalutato dalla pratica immediata; nella seconda il momento teorico trova la sua verità nella pratica, senza per questo non avere una sua autonomia.
Come afferma anche Geymonat infatti: «La differenza fra le due concezioni (quella realistica qui sostenuta e quella pragmatistica) emerge però con chiarezza non appena si tenga conto che il pragmatista – accettando senza discutere le separazione tradizionale tra fattori pratici e fattori teorici – contrappone il successo pratico di una teoria alla sua verità, onde si ritiene autorizzato a negare alla scienza un qualunque valore conoscitivo, mentre dal punto di vista realistico poco sopra esposto tale contrapposizione risulta invece insostenibile proprio per l’unita dialettica fra teoria e prassi.» (Ivi)
Ritornando dunque all’affermazione iniziale di Geymonat, possiamo ristabilire una giusta autonomia al momento teorico speculativo. Che il momento teorico sia già di per sé pratico ci porta a rivedere la famosa tesi di Marx su Feuerbach «I filosofi hanno finora solo interpretato il mondo; ora si tratta di cambiarlo». Questa affermazione di Marx va colta nella sua polemica contro l’idealismo speculativo e la sinistra hegeliana dell’epoca, non in assoluto: è infatti con l’idealismo tedesco che si afferma la figura del filosofo come professore universitario, come teorico staccato dalla società. Ma se leggiamo testi come La Repubblica di Platone, il Trattato Teologico-Politico di Spinoza o la Politica di Aristotele e li mettiamo in rapporto col loro tempo, vediamo che questi testi hanno già di per sé il fine di “cambiare il mondo” e non di interpretarlo, ovviamente nella concreta congerie del loro tempo, che non è quella di Marx.
Fino ad adesso quindi abbiamo parlato del rapporto pensiero ed azione. Ma in che modo si esprime questo rapporto? Ovvero, in che modo il pensiero diventa azione? Ciò non avviene in maniera sempre univoca ma in una molteplicità di forme. In ciò possiamo considerare sostanzialmente superata l’ambizione della metafisica di costruire una sorta di pensiero puro e di dottrina logica del pensiero che potesse dare un "ambito scientifico" suo proprio alla filosofia. Questa era per esempio ancora l’ambizione della Scienza della Logica di Hegel.
In realtà esistono un quantità di ambiti infinita in cui la filosofia può trovare la sua applicabilità: la filosofia della scienza, la filosofia della storia, la filosofia morale. Anche se l’ambito attraverso cui possiamo riassumerli tutti è sicuramente quello della cultura. È nella cultura e nel dibattito culturale che la filosofia trova la sua più immediata espressione come azione. Un campo filosofico che se ogni tanto trova qualche vitalità, nei più recenti tempi sta venendo sempre sostituito da un piatto accademismo, dal presenzialismo televisivo pop e dalla filosofia come piatta consolazione del tardo-capitalismo (pensiamo al conseling filosofico). Oltre a questo anche in genere l’appiattimento della cultura e del giornalismo sulle esigenze del mercato e sul pensiero unico neoliberista non favoriscono di certo i dibattiti culturali.
Certo, per operare in questi ambiti diversi è però necessario superare appunto l’idea della “purezza” del pensiero. All’intero di questi ambiti il pensiero si semplifica, si banalizza, diventa “popolare”. Ma è proprio attraverso questa dialettica che esso acquisisce anche una sua concretezza e diventa quindi una forza sociale, non semplicemente una vuota speculazione.
Questi campi operativi nel quale la filosofia si trova ad operare sono campi parziali che farebbero inorridire i seguaci della vecchia metafisica e delle sue pretese universaliste. Purtuttavia si può facilmente rispondere che per essere tale l’Universale deve mettersi al servizio del Particolare, per non rimanere una semplice enunciazione di una totalità vuota di significato.
Concludendo quindi, se è giusto che la riflessione si metta al servizio del concreto non deve perciò farsi assorbire totalmente da esso. In questo bisogna rivendicare il momento critico della dialettica. Proprio per questo il pensiero non può coincidere totalmente con la prassi, altrimenti diventerebbe solo un cieco seguire l’immediato. In tal caso non si avrebbe nessuna scienza e nessun progresso, dato che la razionalità del pensiero si fonda proprio sull’elevare concettualmente la propria comprensione della realtà attraverso l’astrazione.
È proprio per evitare di cadere nelle estremizzazioni del pragmatismo e dell’idealismo sfrenati che bisogna dunque tenere conto della dualità dialettica di pensiero e azione, ovvero quella di opposti che si compenetrano, che si risolvono l’uno nell’altro.
2 agosto 2021