«[...] La legge è così. […]»
«Questa vostra legge io non la conosco» disse K.
«Peggio per lei» rispose il guardiano.
«Perché esiste solo nelle vostre teste» disse K.
Franz Kafka, Il processo
di Mattia Cattaneo
Si può considerare colpevole colui che nemmeno presume di esserlo? O, ma è dire la medesima cosa, «Le conseguenze lontane sono ancora l'opera di un tale?» (P. Ricoeur, La Semantica dell'Azione). Ma poi, quale relazione risolve correttamente il rapporto che ad un certo punto sorge tra individuo e colpa, considerato il fatto che «Agire ingiustamente o giustamente non è la stessa cosa che essere giusto o ingiusto» (G. Agamben, Karman)? Le presenti domande, poste sul tavolo in questi termini categorici, ci portano sin da subito nei pressi dell'onfalo di ogni Legge: non solo domandano circa i modi più opportuni della sua applicazione, bensì anche, a voler essere rigorosi, circa la sua necessità ad esistere. È necessario cioè che ci sia una Legge? E se sì, è necessario esattamente per chi o per cosa? O forse sarebbe meglio che ce ne fossero molte e tante (regime autoritario, etc.) oppure nessuna o pochissime (autodeterminazione sociale, etc.)? A prescindere dalle risposte che ognuno in cuor suo riterrebbe più opportune, il fatto importante ed assolutamente inderogabile è quello di porsi comunque queste domande, di mettere cioè sempre tutto sotto questione, anche qui – o forse soprattutto qui – nei pressi delle fondamenta costitutive di ogni società. Non tanto, come credono i più, per saccheggiare o rovinare il frutto di importanti battaglie civili o sociali, quanto piuttosto per ritrovarne l'urgenza ed allo stesso tempo ridefinirne i limiti e le competenze proprie.
Ma fin dove è consentito allora alla Legge spingersi? Da ciò che si può realisticamente evincere dagli ultimi sviluppi inattesi, parrebbe propriamente che non ci sia limite alcuno al suo potere legiferativo. Essa infatti, dichiarato un certo stato di emergenza – di cui, in questa sede, non ho lo spazio per disaminarne la fondatezza –, può avocarsi qualsivoglia diritto personale o collettivo («Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» Art. 32, Costituzione della Repubblica italiana, corsivo mio). Ma come sorprendersi di un fatto così sconcertante, dal momento in cui essa è stata fondata sin dal suo apparire sulla sua ricorsività? Il punto è che non è stata prevista nessuna riserva di legge alla Legge stessa: questo significa che le garanzie sulla sua bontà, così come quelle sui suoi fini e sulle sue necessità, sono da rintracciare all'interno dei suoi stessi perimetri (è il riproporsi del solito adagio latino: Quis custodiet ipsos custodes?). Può essere civile, anche ai suoi estremi più perversi, un meccanismo così claustrato? Può essere applicabile in toto quella Legge cavillosa che “non ammette ignoranza” alcuna (la romana Ignorantia legis non excusat)? Che cosa può salvaguardare dell'individuo una norma che, all'occorrenza, può far divenire certi diritti (quello alla salute per esempio) più obbligatori di cert'altri doveri? Quello che è accaduto con estrema evidenza nel recente periodo emergenziale dovrebbe quantomeno far riflettere tutti i destinatari di questa Legge coercitiva non tanto sulla correttezza o meno delle sue imposizioni – questa è una questione anzitutto giuridica –, quanto piuttosto su tutto ciò che rimarrà loro comunque d'inviolabile, poiché sarà quello il luogo super partes da cui giudicare questa, così come ogni altra, Legge. Dove tutto allora può essere normato, cosa rimane di franco?
La propria inderogabile responsabilità. Sarebbe del resto evidentemente ingiusto e periglioso smantellare qualsivoglia costrutto legislativo sulla base di un certo moto rivoltoso, poiché innegabilmente ogni ordinamento giuridico nella sua forma costitutiva possiede in nuce la volontà di costituire (e mantenere) la migliore delle società possibili. Ma è altrettanto pericoloso, in nome di quella splendida utopia, misconoscere all'individuo il potere di assumersi le conseguenze derivanti dal libero esercizio delle proprie facoltà più inderogabili. Anche cioè quel “buon cittadino”, ligio osservante della normativa tout court, deve avere comunque la possibilità, qualora lo ritenga opportuno (e qualora abbia la forza e la sincerità di assumersi tutta quanta la responsabilità del caso), di disattendere a tutte quelle imposizione che reputi in certo qual grado fondamentalmente ingiuste (per sé o per gli altri). È l'individuo cioè, nella migliore delle società possibili, che dovrebbe poter decidere, di volta in volta, se prestare fede alla norma in cui incappa via via o se, attraverso la ponderazione razionale che lo contraddistingue, disattivarne il dispositivo con una intelligentissima disobbedienza. Questo – lo dico a scanso di equivoci – non significa non riconoscere in toto la Legge, bensì piuttosto riconoscere che questa stessa Legge sia di per sé, a tratti, fallibile. In quali casi sia possibile, cioè giusto, disattendere alla norma incoerente o ingiusta e quando, al contrario, questa stessa disobbedienza sia da ritenersi semplicemente un illecito perseguibile, ebbene questo è l'unico discorso sulla giustizia che sarebbe degno di essere riproposto in tutte le sedi competenti. Poiché la giustizia, e di conseguenza le Leggi, non possono essere date una volta per tutte. Non si può cioè essere semplicemente giusti, ma bisogna ogni giorno cercare di esserlo. Ogni giorno cioè, come Clitofonte, domandare a Socrate cosa sia “giusto” e cosa la “giustizia”: «Una risposta a queste domande l'ho attesa e ho continuato a richiederla con insistenza» (Platone, Clitofonte). Ma l'unica risposta attendibile a riguardo – e del resto è questo che insegna qui Socrate col suo silenzio – è domandare in continuazione, è mettere in questione sia l'una che l'altra con insistenza, è insomma chiedere giustizia alla Giustizia stessa.
Al lemma "Leggi, delle" (lois, des) del suo famoso dizionario, Voltaire fa un rapido resoconto di quelle «Leggi arbitrarie» che governano malamente ogni nazione, poiché «Non esiste alcun buon codice di leggi in nessun paese» (Voltaire, Dizionario Filosofico). Ciò in qualche modo concorda con la visione legislativa fondata sul modello autoritario che più sopra ho brevemente presentato, che parrebbe interessarsi solo incidentalmente delle reali urgenze degli individui che amministra (felicità, desideri, benessere, etc.), poiché primariamente occupata dal suo ostinato perpetuarsi. Ma è poi mai possibile allora concepire, senza cadere in contraddizione, una Legge che non sia impositiva, da porre cioè a margine – e non a fondamento – di una qualche società a venire? È possibile, secondo una formulazione paradossale, elevare a norma civile una certa deregolamentazione sociale? Solo, forse, scommettendo di nuovo su una certa umanità profonda, che abbia cioè il coraggio e l'intelligenza (ovvero la piena responsabilità delle sue azioni) di dimostrare unitamente davanti alla Legge, qualora essa non fosse all'altezza della tal situazione, la superiorità dei propri “principi” (ἄρχω) più fondamentali. Diviene davvero “padrone” (ἄναρχος) del suo essere solo colui che, pur non sottostando ad alcuna autorità punitiva, ha altresì la capacità di non scivolare mai nel disumano, ecco il punto. Solo questa responsabilità indelegabile fa di una certa “anarchia” (ἀναρχία) la più alta forma di umanità, cioè – se mi è concesso il barbaro neologismo – fa dell'anarchia una vera anerchia (ἀνήρ-χία; ricordo che il gr. ἀνήρ sta ad indicare, al pari del vir latino, quell'“uomo” giunto al più alto grado di umanità). Sulla scia volteriana, disillusi delle tante Leggi insensate (e, forse ancor più, dai tanti modi differenti di applicare le medesime norme), dobbiamo rallegrarci «[...] al pensiero che c'è una legge naturale, indipendente da qualsiasi convenzione umana» (ibid.). Una legge naturale al di fuori di ogni Legge, ma non oltre gli imprescindibili principi del buon vivere.
La Legge allora, così come qualsiasi altro tipo di potere, deve essere messa in questione soprattutto laddove massimamente autoritaria, proprio per scongiurare quell'eventualità tutt'altro che remota della sua immotivata prova di forza fine a se stessa: «[...] perché senza che avesse fatto nulla di male, una bella mattina lo arrestarono» (F.Kafka, Il Processo). Così che la mattina del 6 agosto 2021 è stata, per molti, quella stessa mattina di Josef K., in cui cioè provare la spiacevolissima sensazione di dover opporre la propria forza d'animo a quella macchinosa della Legge. È la mattina – lo dico a denti stretti (ma a piena voce) – dell'introduzione sul suolo nazionale del Green Pass, cioè il tempo dell'antidialettica par excellence. Qualcuno dovrà stare seduto (tutti coloro che hanno creduto che asservirsi ad un altro potere fosse liberatorio, che pensano che i diritti siano doverosi, che la Legge sia necessaria per l'esercizio di una qualche libertà, etc.) mentre qualcun altro potrà rimanere in piedi (coloro i quali invece reputano quegli stessi diritti non altrimenti che subordinati ai propri inderogabili principi, che credono nell'essere giusti più che nella giustizia, nella sana responsabilità individuale più che in qualsiasi cieca imposizione, etc.). Ma cosa accadrebbe in fin dei conti a questa stessa Legge se tutti esercitassero, attraverso un buon uso della propria ragione, il loro sacrosanto diritto – anche potendolo – a “non sedersi”, il proprio dovere a pensare criticamente, la propria aner-chia più fondamentale? Smantellare la Legge autoritaria non semplicemente disobbedendo, ma ubbidendo piuttosto a qualcosa di molto più fondamentale.
23 agosto 2021
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