Parla, parla, il docente, parla. Difende la sua lezione frontale, ché tra tutte quelle parole le “conoscenze” servono a riscaldarlo al tenue, accomodante calore del dogma.
Alle soglie della modernità sapevano che la Terra era sferica.
Lo avevano capito per primi i greci, che già con Anassimandro avevano dato avvio a una rivoluzione scientifica, a cui contribuirono nomi illustri, come Parmenide, Platone, Aristotele. L'idea della sfericità della terra risale probabilmente proprio a Parmenide. Mentre la più antica testimonianza diretta in cui si asserisce la sfericità della Terra si trova nel Fedone di Platone.
Eppure, la mappa del mondo di Hereford (Hereford Mappa Mundi) – la più grande mappa medievale conosciuta finora, simile ad altre mappe dell'epoca, dipinta fra il 1276 e il 1283 in Inghilterra – rappresenta la Terra come un disco centrato in Gerusalemme e circondato da una distesa d'acqua.
Essa riproduce il mondo allora conosciuto e si fonda sulle conoscenze allora disponibili: storiche, bibliche, classiche. La sua forma a T e O della mappa non sta a significare che i suoi realizzatori credessero che la Terra fosse piatta. Per stare a nomi noti, Tommaso d'Aquino mostra di conoscere quale sia la forma della Terra e il mondo della Commedia di Dante, come è risaputo, non è di certo piatto. Dunque, si può senz'altro ritenere che si trattasse di una proiezione convenzionale funzionale a rappresentare l'emisfero settentrionale. Ciononostante, come spiega Lucio Russo nel suo Flussi e riflussi. Indagini sull'origine di una teoria scientifica (2020),
« [s]e queste erano le carte disponibili, ben difficilmente i marinai nel tracciare le rotte avrebbero potuto tener conto della curvatura terrestre. E infatti non ne tenevano alcun conto. »
Come è possibile che si disegnassero e dipingessero delle carte geografiche inutili? Come mai, benché si conoscesse la forma della Terra, né i cartografi né i marinai impiegavano tale conoscenza nel loro lavoro? Poiché nel medioevo si era conservata l'immagine della terra sferica che proveniva dall'antichità, ma si ignorava di che cosa quella sfericità fosse la spiegazione.
Per la scienza classica ed ellenistica, la terra doveva essere sferica, altrimenti molti fenomeni non si sarebbero spiegati. La Terra non era stata circumnavigata e neppure osservata da un satellite, ma se fosse stata piatta alcuni fenomeni non avrebbero trovato ragione: contributi fondamentali furono portati da Eratostene e da Archimede.
Ciò significa altrimenti che nel medioevo la Terra avrebbe potuto essere di qualsiasi forma, se non fosse che veniva tramandato autorevolmente che era sferica: la sua sfericità non era più legata a fenomeni osservati e vissuti; non era la risposta ad esperienze, ad esperimenti. Nessuno sapeva veramente che cosa volesse dire, che cosa implicasse, che cosa comportasse – né i cartografi, né i marinai.
Quel che era rimasto di quella conoscenza non era più una conoscenza, se non una vaga e fantasiosa immagine della forma del terreno che calpestavano o dei mari che navigavano.
Conoscere significa rendere ragione di qualcosa, mostrare la relazione tra qualcosa e qualcos'altro. Se le azioni non testimoniano la conoscenza, la conoscenza non c'è, o, appunto, è povera: la conoscenza è così proporzionale alla propria capacità di giustificarsi e tanto più sa giustificarsi quanto più aumenta la sua estensione nelle cose della vita, nelle azioni quotidiane.
Se una conoscenza è sterile, non risponde cioè a dei problemi, se non è loro soluzione, non è punto una conoscenza, se non ridotta ad essere conoscenza che certe parole sono scritte su un libro (perciò l'unico problema a cui risponde è dove andare a cercarle), se non ridotta a occasione di pensare qualcosa rispetto a qualcos'altro nelle suggestioni dell'immaginazione.
Ora, non è questa la situazione che crea perlopiù la trasmissione delle conoscenze della didattica tradizionale? Non accade che la principale competenza richiesta sia la ripetizione di quanto scritto in un testo o detto da un insegnante? Cioè qualcosa di fondamentalmente estraneo alla conoscenza. I discenti imparano a disegnare cartine che non rilevano la loro realtà e con quanto appreso continuano a navigare come prima di aver appreso.
Conoscenza non è innanzitutto sapere cosa c'è scritto su un libro o un manuale, ma perché c'è scritto, cioè: a quali problemi esso sia la risposta; più precisamente: perché, il discente, abbia l'esigenza di appropriarsi di quella conoscenza.
Così, aspetto essenziale della didattica è mostrare, spiegare che tra le esigenze conosciute ve ne sono legate altre di non ancora conosciute e che c'è un cammino già intrapreso dall'umanità per esplicitarle e risolverle. Se non si sa mostrare l'importanza di ciò che si insegna, si insegna male.
Detto altrimenti: la motivazione non è qualcosa di estrinseco alla conoscenza, ma ne è parte. Se non si sa a che cosa la conoscenza sia risposta, il sapere stesso è deficitario e, come nel caso della sfericità della terra, è prossimo al dogma.
Nondimeno la didattica, come avviene per la motivazione, non è semplificazione di una conoscenza difficile, ma è sviluppo della stessa, estensione ai vissuti, ai problemi dei discenti, declinazione con le conoscenze che posseggono, con il loro mondo personalissimo. Conoscere la loro realtà, generazionale, culturale, ecc. non è indifferente al compito ed implica la capacità di imparare da parte del docente: impiegare le proprie conoscenze per sviluppare le loro significa ampliare le proprie, vedendo soluzioni di problemi che prima non erano state pensate, sentendo che la propria efficacia in un tal caso deve essere migliorata, che, appunto, quel che si sa al momento non basta.
Quando usciremo dalla caverna della didattica tradizionale, finalmente vedremo una Terra non più piatta e il profilo di un sapere nuovo. Ecco che allora la conoscenza non verrà contrapposta alla competenza, ma la si riconoscerà come intrinsecamente saper fare (conoscenza è competenza); ecco che allora la didattica non verrà contrapposta alla conoscenza, ma verrà compresa come capacità di declinarsi e di accrescersi della conoscenza stessa; ecco che nemmeno la motivazione si potrà credere altro dalla conoscenza, perché la conoscenza è innanzitutto conoscenza del proprio valore – per la vita.
Non sarà però una novità. I maestri, quelli veri, hanno mostrato come quel sapere fosse organizzazione della vita – l'Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele sono esempi noti a tutti. E lo hanno detto e tramandato, pur consapevoli che la conoscenza non consiste innanzitutto nelle parole, ma nell'esempio, come Socrate e Platone. Così, per esempio nel libro VII della Repubblica:
« Non ti rendi conto che le opinioni senza la scienza, finiscono tutte male? Le migliori fra esse sono cieche. E, infatti, non diresti che in nulla differiscano da ciechi che camminano dritti per la strada quelli che hanno opinioni vere non unite a intelligenza? »
« […] un uomo libero non dovrà mai apprendere una scienza come se fosse uno schiavo. In effetti, se le fatiche subite per forza dal corpo non lo rendono peggiore, nessun ragionamento che sia imposto a forza all'anima può essere stabile. »
Chi creda di sapere perché si è laureato o perché recita un manuale è come il re nudo che si credeva vestito perché glielo avevano assicurato. È colui che crede di conoscere, ma è depositario di un dogma. Se il sapere non si esercita e non si accresce nelle esigenze e nelle sfide quotidiane, esso non è sapere, ma flatus vocis, prontuario di parole, recita.
Guardiamoci sempre dal rischio supremo, dal pericolo fatale della conoscenza: che il processo di pensiero si affievolisca, fino a sclerotizzarsi e a morire, sostituito da un fossile che è solo illusione della conoscenza, simulacro di una vita che non è più vita.
28 giugno 2021
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