Unequal exchange (scambio ineguale) è la sostanza dei rapporti economici – e, quindi, politici – che sussistono tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri del mondo. Un articolo di Jason Hickel, Dylan Sullivan e Huzaifa Zoomkawala, appena pubblicato, ha fatto il punto sulla questione e calcolato a quanto ammonta il saccheggio nel sistema mondiale globalizzato.
L'espressione unequal exchange è stata sdoganata già tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, con la pubblicazione nel 1969 dell'opera L’échange inégal: Essais sur les antagonismes dans les rapports économiques internationaux (Lo scambio ineguale. Saggio sugli antagonismi nei rapporti economici internazionali), dell'economista Arghiri Emmanuel.
Il meccanismo dell'unequal exchange può essere espresso nella formula semplificata buying cheap and selling dear (comprare a basso costo e vendere a caro prezzo).
I fattori che lo rendono possibile sono molteplici, frutto di una complessità storica, economica e politica che necessita di essere pensata, rivalutata, criticata.
Lo scambio ineguale è senz'altro uno scambio asimmetrico tra soggetti che si trovano in condizioni di disparità, non determinate da differenziazioni equamente createsi all'interno di un libero mercato, ma prodotte dalle violenze politiche, economiche e sociali di alcuni Paesi nei confronti di altri – perlopiù dei Paesi occidentali verso il resto del mondo – nel corso dei secoli: che cosa sia il colonialismo, almeno vagamente, è noto a tutti.
Anche i dati più recenti certificano che i Paesi ricchi continuano a sottrarre ricchezza ai Paesi poveri, appropriandosi della loro forza lavoro e delle loro materie prime. E, come è ormai risaputo, la forza lavoro non è incorporata solo in beni primari, ma anche nei beni industriali tecnologici, dai chip ai computer, dagli smartphone alle automobili, ecc.
Questa sottrazione di ricchezza si basa sui salari più bassi nei Paesi più poveri (del sud del mondo) rispetto a quelli ricchi (del nord del mondo). Tale differenza del costo del lavoro esistente tra un Paese ed un altro fa sì che il sud, per acquistare dal nord una unità di lavoro incorporata in merci, debba vendere più unità di lavoro. Detto altrimenti: per ottenere la stessa cosa, in alcune parti del mondo si deve lavorare molto di più che in altre. Il divario medio stimato è di uno a cinque.
L'Occidente ha prodotto la globalizzazione, uniformando bensì la circolazione di merci e capitali, ma non il valore dell'attività lavorativa: una stessa prestazione lavorativa riceve differenti remunerazioni a seconda della zona del mondo in cui viene eseguita. Il che è assurdo proprio nella prospettiva della globalizzazione: essa vorrebbe essere un'estensione su scala globale dello sviluppo, dell'intraprendenza e della concorrenza, ma priva di queste possibilità tanta parte dei Paesi sui quali si estende, ponendoli in condizioni di inferiorità.
Chi guadagna di più può permettersi di beneficiare della globalizzazione, dell'accessibilità delle possibilità; chi guadagna meno no, anzi: la sua forza lavoro sottopagata aumenta unilateralmente le possibilità di chi si trova in una posizione di asimmetrica superiorità.
Negli anni si è cercato di calcolare il trasferimento di valore dai Paesi del sud a quelli del nord tra gli anni Sessanta ad oggi, attraverso tale sistema di scambio asimmetrico: si è scoperto che l'intensità dello sfruttamento è andata aumentando significativamente. Negli anni Sessanta il sud perdeva in media 38 miliardi di dollari all'anno per raggiungere un massimo di 3 migliaia di miliardi di dollari prima della crisi del 2008.
Nel 2017, anno a cui risalgono i dati più recenti, la stima si aggira sulle 2,2 migliaia di miliardi. Una cifra di per sé impressionante, ma mai abbastanza se si considera che coprirebbe di 15 volte quanto necessario per risolvere il problema della povertà estrema nel mondo. Va da sé che questa sottrazione di ricchezza è uno degli elementi determinanti che alimentano l'aumento del divario, poiché consente investimenti per uno sviluppo tecnologico che significa ancor più dipendenza economica e politica.
E gli «aiuti», di cui sentiamo parlare da decenni, inviati dai Paesi ricchi per aiutare i Paesi poveri nel loro sviluppo? Esistono, certo, ma a dispetto della retorica dell'«aiutiamoli a casa loro», i dati indicano che per ogni dollaro di aiuti che riceve, il sud del mondo ne perde 14 nello scambio ineguale. Così, al contrario dei proclami – dettati o da profonda ignoranza o da profonda malafede –, non sono i Paesi ricchi a favorire lo sviluppo di quelli poveri, ma viceversa: il colonialismo è terminato, ma lo sfruttamento del periodo coloniale perdura.
6 aprile 2021
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