Il Vangelo secondo Marco ci racconta un Gesù che non vuole far sapere di essere il Messia. Le motivazioni di un tale atteggiamento possono dirci qualcosa sul senso della sua predicazione e del suo sacrificio.
La particolare rilevanza del Vangelo di Marco è usualmente individuata nella sua priorità rispetto agli altri due vangeli sinottici (Luca e Matteo), di cui secondo molti avrebbe costituito la fonte. Esso, però, è affascinante anche perché lascia emergere un particolare tratto della personalità e dell’operato di Gesù di Nazareth, consistente nel suo ripetuto ma vano tentativo di mantenere il “segreto messianico”. Differentemente da Luca e Matteo, Marco si apre direttamente con il battesimo di Gesù presso la setta di Giovanni e l’inizio del suo ministero in Galilea: vediamo Gesù sin da subito impegnato in una cospicua attività di esorcista e guaritore, che gli guadagna ben presto una grande fama presso le folle, al punto che «non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte» (Mc 1,45). Tuttavia, in più di un caso Gesù mostra chiaramente di non desiderare di essere riconosciuto come il Messia, soprattutto nel senso di liberatore politico che dovesse trionfare sui Romani e liberare il popolo d’Israele («Rendete a Cesare ciò che è di Cesare», Mc 12,17). Ai discepoli raccomanda severamente di «non parlare di lui a nessuno» (Mc 8,30). Al primo lebbroso che guarisce intima di fare lo stesso (Mc 1,44). Quando il capo di una sinagoga gli chiede di rianimare la figlia che tutti credono morta, fa uscire la gente accalcatasi nella casa e la risveglia, ma poi ordina che nessuno lo venga a sapere. Poco prima aveva detto in presenza della folla che la bambina non era morta, ma dormiva soltanto (Mc 5,35-43). Una cosa simile succede nel caso di un sordomuto: lo porta in disparte, lo guarisce e poi comanda di non dirlo a nessuno. Ma «più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano» (Mc 7,36).
A che si deve questo atteggiamento? Del resto, per Caifa e il sinedrio, la grande bestemmia pronunciata da Gesù sarà proprio quella di essersi dichiarato Christós (cioè il Messia) e, cosa ben più grave, il Figlio di Dio. Che Gesù abbia voluto aspettare il Venerdì Santo per annunciare al mondo la sua missione salvifica e la sua provenienza soprannaturale? Come che sia, l’atteggiamento di segretezza o di nascondimento della propria reale natura è mantenuto sin sulla cima del Calvario, allorché Gesù viene ripetutamente oltraggiato (dalla folla, dai sinedriti e da un soldato romano) perché, pur proclamatosi Messia, non riesce nemmeno a scendere dalla croce. Che ne è della sua potenza adesso, dopo tutte le azioni miracolose compiute in presenza di quegli stessi testimoni che non avevano mantenuto il segreto?
Al di là della veridicità del “fatto” cristiano, che qui non è oggetto di discussione, c’è un altro evento raccontato nel Vangelo di Marco che può contribuire a spiegare il cosiddetto “segreto messianico” di Gesù, anche in un’ottica laica o atea. Se non altro, può aiutare a illuminarlo di un significato che non sia solo teologico, ma più ampiamente filosofico. Quando i farisei lo vedono a tavola, circondato dai suoi affezionati (tra cui spesso c’erano peccatori, reietti e persone che non osservavano alla lettera la legge mosaica), e tutti prendono il cibo senza essersi profusi nelle abluzioni di rito, gli domandano perché questi discepoli si comportino in modo così impuro. Gesù risponde con le parole di Elia:
« Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano essi mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini. »
Che, privatim, spiegherà agli apostoli così:
« "Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?". Dichiarava così mondi tutti gli alimenti. Quindi soggiunse: "Ciò che esce dall'uomo, questo sì contamina l'uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo." »
Queste parole hanno un valore che esula dal mero intenerimento delle rigide norme alimentari ebraiche: esse si rivolgono in generale a una concezione soltanto esteriore dell’osservanza della legge. Il male è qualcosa che ha la sua sorgente nel cuore dell’uomo, e non può mai identificarsi con condizioni, stati di fatto, accadimenti esterni. Al massimo è nell’accoglimento inerte di tutte queste cose che sta il male, ma si tratta sempre di qualcosa che viene “dal di dentro”. È l’uomo che (si) contamina. Non c’è una contaminazione “oggettiva”, che come la lebbra si possa soltanto subire. Sotto questa luce, si spiega anche il presunto “segreto” di Gesù: i miracoli e gli atti taumaturgici non hanno lo scopo di dimostrare che è venuto il Messia, che “tutto si è compiuto”, ma appunto quello di guarire, di salvare, di redimere. E la redenzione può avvenire anche nella privatezza della casa chiusa, tra le quattro mura, in presenza di pochi intimi. Che poi i gesti salvifici si conquistino l’acclamazione delle genti è qualcosa che può – talvolta deve – accadere, ma che non va ricercato per se stesso. Il Messia viene: perché ce n’è bisogno, perché deve "togliere i peccati del mondo", non innanzitutto perché lo si adori. È questo lo scandalo del Cristo, che in Marco emerge nella maniera più ingenua e al contempo più intensa: un Messia "modesto", e non il Re davidico atteso dall'ebraismo. Ed è per questo che Gesù nega ai farisei un segno dal cielo come prova definitiva della sua gloria (Mc 8,11-13). La gloria non è solo quella trionfante della Potenza che viene sulle nubi (Mc 13,26), ma anche quella del Dio crocifisso, che non deve (non può? non vuole?) scendere dal patibolo: la gloria custodita nella penombra del sepolcro abitato. Senza il silenzio discreto del Sabato, non potrebbe essere l’autentico giubilo della Pasqua.
3 aprile 2021
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