"Cultura della non-assimilazione" e conservazione della biodiversità

 

Ciò che accomuna “cultura della non-assimilazione” e il tentativo di conservare la biodiversità è la velleitaria pretesa dell’essere umano di essere causa di tutti i mali, e di conseguenza unica fonte di salvezza, come risposta mascherante al terrore dello svanire. 

 

di Fausto Trapletti

 

 

Personalmente, penso sia sempre interessante e utile, onde evitare sterili specismi e prospettive troppo ristrette, cercare linee comuni, affinità e somiglianze tra le diverse manifestazioni della cultura; che, proprio in quanto manifestazioni, non sono altro se non il diverso apparire di una medesima realtà. Vorrei qui concentrarmi su due di questi fenomeni culturali, che mi paiono paradigmatici della contemporaneità, per quanto ad un primo sguardo possano sembrare radicalmente rispettivamente indifferenti: quella che chiamerò “cultura della non-assimilazione” (che sfocia nell’ostracismo della cancel culture) e la lotta al cambiamento climatico, nella sua declinazione di conservazione della biodiversità. 

 

Per “cultura della non-assimilazione” intendo un marasma di “credo”, movimenti, e posizioni dai confini estremamente nebulosi che esprimono giudizi negativi (per usare un eufemismo) riguardo a processi storici di integrazione e assimilazione culturale avvenuti o avvenienti; che vengono interpretati alla stregua di deliberata violenza e perciò stesso considerati simbolo di un Occidente machista e oppressore, il quale deve essere abbattuto in nome del rispetto, della differenza e delle minoranze. La conservazione della biodiversità è, invece, l’insieme dei tentativi di impedire la scomparsa di determinate specie a rischio (sia per cause naturali sia per cause artificiali) per mezzo di interventi umani. 

 

A mio avviso sono entrambe manifestazioni dell’incapacità dell’uomo di oggi (e, forse, in particolar modo dell’uomo occidentale) di accogliere l’effimero. Incapacità di accettare l’angosciante precarietà dell’esistenza, che non è solo la propria esistenza. Ogni persona, infatti, non è posta solamente di fronte all’evidenza della propria ineluttabile fine (per lo meno in questo mondo o questa forma), bensì è insidiata dalla certezza della finitezza di ogni singolo ente, a prescindere che sia un individuo, una specie o una cultura. Ed ogni persona è cieca di fronte a questa certezza, cerca di sottrarvisi in ogni modo possibile, nella speranza che cada in una qualche forma di oblio. Questa autodifensiva cecità volontaria (anche se non sempre conscia) a livello individuale si trasforma, a livello sociale e inter-sociale, nella speranza del persistere. Speranza che muove l’umanità (anche qui, forse, in particolar modo quella occidentale) a costruirsi l’immagine per sé stessa di unico elemento di perturbazione degli equilibri, e di conseguenza unico agente investito della possibilità di restaurarli e cristallizzarli mantenendoli in eterno. 

 

Tutto questo mi sembra estremamente evidente nel tentativo di preservare la biodiversità. È scientificamente innegabile che la presenza della specie umana sul pianeta sia stata e sia tuttora causa di processi che conducono all’estinzione altre specie, taluni dei quali potrebbero essere in qualche modo evitabili. Ciò che mi pare sintomatico della deficienza poco sopra delineata è la strenua lotta per mantenere in vita specie il cui destino non è stato in particolar modo toccato dalla mano dell’uomo: un esempio su tutti, il ghepardo. Il ghepardo è fondamentalmente inadatto alla sopravvivenza in natura, anche a prescindere dalle conseguenze dovute alla presenza antropica. Esistono ancora popolazioni che vivono allo stato brado, ma il sopravvivere di questa specie si deve in gran parte all’uomo. Una serie di naturalissimi processi hanno condotto il ghepardo ad essere, oggi, poco adatto alla sopravvivenza: un collo di bottiglia ne ha ridotto drasticamente la differenziazione genetica; lo stile di caccia, che richiede una grande velocità, ha fatto sì che avessero il predominio geni che comportano polmoni di grandi dimensioni e un naso che occupa gran parte del muso, per consentire l’ossigenazione dei muscoli sotto sforzo, andando a discapito della bocca ed impendendo così all’animale di aver un morso paragonabile a quello degli altri grandi felini. Per quale ragione, dunque, ci si prodiga per far sì che questa specie non scompaia? A mio avviso, ciò che ci (perché muove ognuno e ciascuno di noi) muove, che proviene da una profondità altra e in qualche modo causa tutte le buone intenzioni che indubbiamente animano le persone che attivamente si dedicano a queste problematiche, è il terrore angosciante della perdita. L’incapacità esistenziale di accettare la possibilità della scomparsa definitiva funge da carburante per un agire spesso scientificamente perfettamente giustificato, ma psicologicamente e filosoficamente irriflesso. 

 

La medesima dinamica è riscontrabile nella sopra definita “cultura della non-assimilazione”. Volendo, in questa sede, tralasciare una qualsivoglia analisi di eventi quali l’imbrattamento e l’abbattimento di monumenti et similia, sue espressioni più radicali, mi sembra rilevante concentrarsi sul presupposto pacificamente assunto che l’assimilazione culturale corrisponda necessariamente a un atto di violenza. È, ovviamente, innegabile che vi siano state e tuttora vi siano dinamiche di violenza culturale, ma non credo che ogni caso di assorbimento di una cultura da parte di un’altra sia sussumibile in tale categoria. Voler riesumare e rianimare (chiaramente la sola riesumazione è comprensibile da un punto di vista storico-antropologico) cadaveri culturali e, ancor di più, voler mantenere in vita ciò che pare naturalmente destinato all’estinzione (se così si può dire nell’ambito delle Geisteswissenschaften) in nome del rispetto, della differenza e della tutela delle minoranze mi sembra, al contrario, essere la più accentuata forma di spregio, di predilezione per l’identità, di violenza. È solo una cultura (forse identificabile con quella occidentale) che si auto-investe del potere di sentenziare quale processo sia violento e quale no, del diritto di stabilire i confini di sé e dell’altro negando la possibilità dell’azione dell’altro su di sé, che tracotante può ergersi a giudice ed esecutore della propria detronizzazione, non comprendendo che non fa altro se non auto-incoronarsi. E la “cultura della non-assimilazione” è esattamente una cultura di tal fatta: la pura alterità, libera, il cui esistere e scomparire sono al di fuori della possibilità di controllo, è cancellata da quelle stesse voci che, a loro dire, strepitano in sua difesa, ma che in verità gridano la paura dell’effimero. Vivere nel rispetto per la differenza, infatti, significa vivere nella relazione, la cui esistenza è unicamente possibile nel limite che si struttura fra due libertà agenti reciprocamente l’una sull’altra; significa dunque accettare senza riserve che essa le trascende singolarmente, e che perciò può venir meno in qualsivoglia momento prescindendo dalla volontà di ognuna presa individualmente. 

 

 

Ecco, quindi, che in qualche modo si torna al punto di partenza: ciò che accomuna “cultura della non-assimilazione” e il tentativo di conservare la biodiversità è la velleitaria pretesa dell’essere umano (nuovamente, forse precipuamente l’uomo occidentale) di essere causa di tutti i mali, e di conseguenza unica fonte di salvezza, come risposta mascherante al terrore dello svanire. 

 

La via che a mio avviso è da percorrere per poter affrontare consciamente l’inevitabilmente angosciante paura dell’effimero è la via della relazione vissuta: il comprendersi come cultura, come specie (e come individui) né autarchicamente partendo da sé né deterministicamente partendo dall’altro, bensì muovendo dalla relazione che si dà nel limite tra la propria libertà e quella dell’altro, e che sola fonda questo limite. 

 

13 dicembre 2021

 









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