Leggendo le pagine dell’ultimo romanzo di Alessandro D’Avenia, L’appello, entriamo in contatto con un tema a mio parere fondamentale per l’educazione scolastica, ossia il rapporto insegnante-alunno. In questo breve articolo cercherò di far vedere come lo scopo della scuola non debba essere solamente far sì che l’alunno apprenda qualcosa, ma che grazie ad essa ogni studente impari a conoscere il proprio nome e quello degli altri, entrando in contatto con l’unicità di ciascun componente della classe.
Il professor Romeo è supplente di una classe di quinta superiore, insegna chimica e da qualche anno è diventato cieco; i suoi studenti invece sono un gruppo di ragazzi disastrati, con diverse problematiche e a cui nessun professore voleva insegnare.
Nel romanzo il metodo d’insegnamento del professor Romeo viene solo accennato e nemmeno terrei in considerazione le proposte finali che vengono formulate per il cambiamento della scuola, in quanto mi sembrano poco sviluppate e anche secondarie rispetto al tema principale del romanzo.
Quello su cui mi piacerebbe concentrarmi è il nuovo modo che il prof. introduce nel fare l’appello: dato che non può vedere la faccia dei suoi alunni, lascia che siano loro a parlare e mette le sue mani nei loro volti, in modo tale da sentire cosa la morfologia della faccia racconti della loro vita. Lo scopo principale dell’appello è quello di dare dei nomi alle persone della classe e far parlare le loro vite: solo così c’è una possibilità che il loro nome non venga dimenticato e inizino ad essere consapevoli di sé. È nel venir riconosciuti dagli altri che scopriamo la nostra identità e questo è il primo passo per iniziare a volerci bene: sembra essere questo il leitmotiv del romanzo.
Sin dalle prime battute del libro, possiamo intravedere che voler separare materia insegnata e vita dello studente è quanto di più avventato si possa fare a scuola. Il punto di partenza di entrambi i viaggi, sia quello scientifico, sia quello personale, parte da un perché e la scuola ha lo scopo di mettere in comunicazione questi due mondi.
Lo scopo degli insegnanti è far emergere e dare significato sia al nome dei fenomeni che affrontano nelle loro materie, sia al nome dei componenti della classe che viene loro affidata. Quanto è difficile far emergere il nome degli studenti, perché con le loro storie e i loro dolori, molto spesso tendono a chiudersi e ad isolarsi! L’insegnante ha un ruolo difficilissimo in questo senso, forse quasi impossibile: creare le condizioni per cui cui la classe si senta unita e si possa aiutare a vicenda, facendo scoprire tutto questo attraverso le parole della materia insegnata. In questo modo, dando spazio alle vite degli alunni, emergono verità che risultano difficilmente sopportabili per il mondo degli adulti. Ritornando al romanzo, vediamo come quei ragazzi, che venivano visti come se fossero il male della società, iniziano a presentare delle ferite relazionali che fino a quel momento non erano state ancora ascoltate. Com’è possibile arrivare in quinta superiore e non conoscere ancora profondamente i compagni di classe? Sembra impossibile, ma nella maggior parte delle nostre scuole è così.
« La scuola di oggi sarebbe da buttare nel cesso in questo momento. Un baraccone in cui l’ultima cosa sono le vite delle persone: tutti fingono che si possano insegnare la consecutio temporum, gli integrali e la Critica della ragion pratica a gente che nel frattempo ha l’anima a pezzi. Come se in un’anima a pezzi si potessero versare il periodo ipotetico, x tendente all’infinito e Kant. »
A mio parere questo è un quesito importante che la scuola dovrebbe porsi e non dare per scontato. Qual è l’obiettivo della scuola? Insegnare semplicemente qualcosa a qualcuno? In che misura devono entrare le vite degli studenti? Solo dal punto di vista accidentale, attraverso una chiacchera in corridoio, oppure dal punto di vista concreto, prevedendo uno spazio per tutto questo all’interno della lezione? Nel caso poi scegliessimo questa seconda possibilità: come la vita deve entrare nelle lezioni, attraverso le materie o con attività separate, come se fosse un gruppo di ascolto? E infine, quanto in profondità andare nella vita personale di ognuno, è bene fermarsi alla superficie o è il caso di addentrarsi anche nelle stanze più buie?
Credo che nella scuola attuale siano in pochi a farsi queste domande, in quanto le possibili risposte metterebbero in difficoltà ciò che si è fatto fino ad ora e troverebbero impreparati la maggior parte dei maestri e professori. Per far parlare le vite degli studenti è necessario entrare in relazione con loro, creare le condizioni perché la classe inizi a confrontarsi. Sembra quindi indispensabile curare la relazione che intercorre tra tutti i componenti della classe, incluso il professore, altrimenti, senza di questa, il compito di apprendimento verrebbe affrontato come qualcosa di alieno alla propria persona. Ecco che da qui nascono le motivazioni funzionali per cui un alunno studia: per far contenti i genitori, per esser più bravo degli altri, per apprendere delle competenze che gli serviranno poi nel mondo lavorativo, per aver un buon voto all’ingresso all’università. Senza la relazione tra insegnante e alunni, tra compagni di classe, tra gruppo classe e materia d’insegnamento, tutto diventa strumentale.
« Per troppo tempo abbiamo pensato che la scuola fosse la somma di istruzione e prestazione. Io ti dico una cosa e tu la metti nella testa. Poi io te la chiedo e tu dalla testa la metti in una verifica. E il gioco è fatto. Ma l’intelligenza ha invece un dinamismo molto più complesso, in cui la parte che non curiamo è la più importante: come può una cosa che è dentro di me, insegnante, essere trasformata da te, studente, in qualcosa di tuo, di vitale per te, di necessario per te. Questo processo si chiama relazione: se non c’è, tutto il resto è puro addestramento che dura poco e annoia. »
Senza un desiderio interiore di ricerca, qualsiasi cosa che affrontiamo nella vita, compreso lo studio, ci risulterà qualcosa di esterno e astratto. In questo modo solo coloro che sono soggetti a violenza possono “imparare” qualcosa, gli altri si faranno scivolare addosso i lamenti patetici degli adulti e preferiranno fare altro, piuttosto che studiare.
« Ecco perché voglio che le vostre ricerche personali mostrino in che modo la conoscenza di un aspetto della realtà è conoscenza di voi stessi e viceversa, perché per ricercare la vita bisogna prima accoglierla dentro di sé. »
Attraverso una visione della scuola e dalla ricerca di un tal tipo, mi sembra che non si perda il rigore e la serietà che le diverse materie implicano e che qualcuno potrebbe pensare essere in pericolo. Anzi, ritengo che quelle materie insegnate in modo frontale e unidirezionale siano poco proficue e quindi poco rigorose. Da quel che pare, se non si instaura il meccanismo per accogliere dentro di sé il sapere e le storie degl’altri componenti della classe, ogni studio risulterà vano.
Certo, tutto questo richiede un bel coraggio da parte degli insegnanti, in quanto potrebbero entrare in contatto con ciò che fino a quel momento non avevano previsto, ossia il caos delle vite e il dolore degli studenti, tutti elementi che mettono in difficoltà le più salde teorie scientifiche e la propria visione della vita. Nonostante tutte queste difficoltà vale la pena continuare così o ha più senso addentrarsi nel buio, per cercare di fare emergere la luce? La scelta ora sta ai professori: continuare a impartire lezioni di scienza e di vita agli studenti, oppure iniziare ad ascoltarli e mettersi con loro in cammino.
« Sono gli insegnanti a innescare le nostre vite e la nostra intelligenza, non bastano i programmi. Ogni persona è la somma di un dato di fatto e di un dato da compiere. E il dato da compiere è affidato a voi, che invece siete prigionieri sempre e solo del dato di fatto: della nostra storia non ve ne importa nulla. »
29 dicembre 2021
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