Cos’hanno in comune Strappare lungo i bordi (la nuova serie di Zerocalcare), scimmie, lupi e la filosofia? All’apparenza poco, o nulla. Per il filosofo Mark Rowlands invece, almeno tra animali e filosofia, c’è un legame molto profondo.
Questo perché gli esseri umani, proprio secondo Rowlands, pur essendo poco più che delle scimmie glabre, conservano dentro di loro una sorta di “residuo ancestrale” lupesco, la parte migliore di ogni essere umano. Al di là del legame biologico, la scimmia rappresenta per Rowlands l’umana tendenza a comprendere il mondo in termini strumentali: il valore di ogni cosa è in funzione di ciò che quella cosa può fare per la scimmia per raggiungere la felicità. La scimmia è la tendenza a basare i rapporti interpersonali su un unico, immutabile principio: cosa puoi fare per me, e quanto mi costerà fartelo fare affinché io possa essere felice?
In ognuno di noi però si trova anche un piccolo lupo. Il lupo è lì per dirci che ciò che conta nella vita non è mai questione di calcolo, ci ricorda che la nostra parte più importante è la capacità di fare ciò che è giusto, quali che siano le conseguenze. Il lupo, per usare le suggestive parole di Rowlands, non cavalca la fortuna: è ciò che resta quando la fortuna ti gira le spalle.
La scimmia e il lupo sono però, per Rowlands, anche analogie di due diverse concezioni del tempo: una concezione lineare, escatologica, e una circolare. La scimmia infatti, a differenza del lupo, è capace di programmare a lungo termine la sua vita, riuscendo persino a rinunciare a delle gratificazioni immediate in vista di questo (più o meno) lontano futuro. La scimmia, in altri termini, non vive i momenti, ma vive attraverso questi ultimi: ogni momento che la scimmia-uomo vive trova la sua ragione di esistere solo in relazione al passato ed al futuro, a ricordi ed aspettative.
Il lupo, scrive Rowlands, non è capace di farlo: la qualità del momento, per il lupo, non dipende dalla sua relazione con altri momenti, è completo in se stesso. Questo perché il tempo del lupo non consiste in una progressione verso uno scopo, non è lineare, ma circolare. Il significato della vita non si trova più alla fine dei momenti, ma nel momento stesso (Rowlands fa del resto ampio uso della filosofia nietzscheana). Non si tratta di una visione edonistica del tempo: i momenti più alti non sono necessariamente i migliori, anzi spesso sono quelli più ardui, quelli in cui “la fortuna ti gira le spalle”, in cui dobbiamo scegliere tra fare ciò che ci appare giusto e ciò che è più conveniente. Il lupo non rinuncia alla battaglia per difendere il branco, anche quando è consapevole di non avere speranze di riuscita.
Cosa ha a che fare tutto questo con la nuova serie di Zerocalcare, Strappare lungo i bordi? Il fatto che la serie mette in scena con straordinaria potenza vivificatrice entrambi questi “spiriti-guida” dell’essere umano, con una importante consapevolezza: oggi, chi non ha più diciassette anni e tutto il tempo del mondo, ha qualcosa in più del lupo e in meno della scimmia.
Di questo dobbiamo “ringraziare” la società tardo-capitalista: precarietà all’ordine del giorno, incertezza lavorativa ed emotiva, difficoltà nel disegnare un futuro che vada oltre sei mesi di contratto hanno generato due atteggiamenti simili nel modus operandi, ma totalmente differenti nei loro significati. Da una parte infatti, la scimmia che è dentro ognuno di noi rinuncia a volte a programmare il futuro, preferendogli il perseguimento della felicità immediata: uscire la sera, drogarsi, fare a pugni, arrivare anche ad uccidere, giorno dopo giorno. Sono naturalmente casi estremi, ma le sfumature, le gradazioni di questo atteggiamento sono innumerevoli: accettare un lavoro che non ci soddisfa, che non ha nulla a che vedere con i nostri studi e con le nostre attitudini, rappresenta allo stesso modo una piccola rinuncia. Se non si può programmare il futuro in vista della felicità, si rinuncia al futuro a favore della soddisfazione immediata, del “momento edonistico” (per quanto essere precari sottopagati per sopravvivere possa essere considerato tale) che è quanto di più lontano si possa immaginare dai momenti che mostrano il significato della vita. Quest’ultima, è bene specificarlo, non ha la pretesa di essere una risposta definitiva al problema della felicità, ma rappresenta il personale punto di vista di chi scrive. La felicità come ricerca del piacere (o utile), condivisibile o meno, può comunque vantare tra le fila dei suoi promotori intellettuali di primo piano, da Antifonte a Michel Onfray.
Fatta questa precisazione, il restringimento del nostro campo visivo esistenziale non vuol dire che la parte progettuale di noi sparisca totalmente; ed è bene che non succeda, perché l’accezione “negativa” che attribuiamo alla scimmia che c’è in noi non deve farci dimenticare che c’è bisogno di lavorare in direzione di una società che permetta una progettualità a lungo termine per tutti gli esseri umani. Questo perché, nonostante tutte le difficoltà, è impossibile evitare una pianificazione della nostra vita, di pensare al suo “significato” come qualcosa verso cui dobbiamo tendere.
E qui sta tutta la profondità, la radicalità della serie di Zero: è vero, non possiamo fare a meno della scimmia, di provare a strappare lungo i bordi, nel tentativo di tenere insieme un disegno che possa essere anche solo vagamente riconducibile a quanto ognuno di noi aveva progettato per se stesso. Ma la serie di Zero ci rassicura, perché non siamo soli in questo découpage della nostra vita. Le esistenze degli altri brancolano nelle difficoltà tanto quanto le nostre, e ci sembrano perfette solo perché le osserviamo da lontano. Non si tratta di una distanza in senso fisico: ognuno di noi è, per gran parte di se stesso, una monade incomunicabile. Gli strappi sono nei cunicoli delle nostre vite, portano con loro delle ragioni profonde, che non riusciamo a comunicare perché noi stessi, a volte, non riusciamo a comprendere.
Dall’altra parte, in conseguenza di questo nuovo modus vivendi, accade a volte che la scimmia ceda il passo al suo fratello lupo: laddove gli occhi astigmatici della scimmia, che riescono a vedere bene lontano ma fanno difficoltà da vicino, diventano inutili perché non si riesce in alcun modo a guardare tanto distante, gli occhi miopi del lupo, incapaci di focalizzare un futuro così indeterminato, scendono in profondità nei momenti, cercando di viverli appieno.
In che modo Zero mette in scena questa “parte lupesca”? Lo fa ricordandoci che spesso ciò che riusciamo a creare strappando i bordi genera una profonda insoddisfazione, come ci mostra la storia di Alice. E allora possiamo provare a guardare non più attraverso, ma nei momenti, a leggere questi ultimi come completi in se stessi e non attraverso le nostre lenti “escatologiche”. L’abbraccio con Alice, nella serie, viene così riletto da Zero sotto una nuova luce: non più l’ennesima schermaglia sentimentale sul faticoso sentiero dell’amore, in cui “il primo che apre la guardia rischia di prendere la sveglia”, ma due esistenze che, in maniera semplice, avevano cercato di sfiorarsi. Senza riuscirci, perché la scimmia calcolatrice che è in Zero (e in ognuno di noi) pensa che mettere a nudo i sentimenti in qualche modo li svilisca, renda deboli. A chi scrive piace pensare alle parole di Alice come ad un richiamo al piccolo lupo che è in Zero quando, abbracciandolo, gli dice che “non è importante che tu ci sia sempre, ma devo sapere che quando tu sei con me, ci sei davvero”.
In un senso più generale, esserci davvero significa sforzarsi di agire per quanto possibile, quando necessario, senza calcoli, senza sacrificare le nostre passioni, i nostri sentimenti, sull’altare delle aspettative e delle paure che ovunque ci inseguono. Perché quando decidiamo di scoccare la freccia della nostra vita si può anche non centrare il bersaglio. Ciò che conta davvero è la crescita interiore che noi abbiamo conseguito per diventare dei buoni arcieri.
29 novembre 2021