Le polemiche sull'incapacità della scienza di fornire risposte "certe", utili a fronteggiare la crisi di Covid-19, sono ignare del terreno sconfinato su cui la stessa scienza moderna è sorta, e del processo che l'ha condotta ad essere un sapere per definizione controvertibile, in ultima istanza non del tutto affidabile.
L’impreparazione del sapere scientifico di fronte alla minaccia pandemica è oggetto di numerose critiche che provengono sia dalle masse, dalle quali ci si può aspettare una scarsa competenza in ambito epistemologico, sia – purtroppo – dagli intellettuali che sembrano aver dimenticato le vicende che hanno fortemente segnato la storia della scienza nel secolo appena conclusosi.
Il capo d’imputazione principale di cui viene accusata la scienza è di non essere “certa”, intendendo con questo termine l’incapacità di produrre e rendere disponibile una verità assoluta che dissolva ogni dubbio e che risolva definitivamente il problema, riconducendo la vita dei popoli in una magna tranquillitas. Questa accusa, non solo è completamente infondata, ma è la rappresentazione plastica della dimensione onirica in cui galleggiano ormai i popoli. La dimensione storica reale, quella che continua ad accadere imperterrita infischiandosene dei miti e dei sogni in cui gli uomini credono di vivere, è tutt’altra.
La nascita della scienza moderna è stata la più significativa rivoluzione degli ultimi cinque secoli ed è rimasta tale nonostante l’avvicendarsi di eventi a loro volta molto significativi: come esempi valgano per tutti la rivoluzione francese e la rivoluzione bolscevica.
Persino il nome scientia è sintomatico del modo in cui addetti ai lavori e non hanno percepito questo fenomeno sin dalle sue origini e che costantemente e progressivamente ha sbaragliato ogni altra forma di sapere alternativo. La parola latina scientia, infatti, veniva utilizzata da secoli per tradurre la parola greca ἐπιστήμη (epistéme) che significa, appunto, “conoscenza”, “perizia”, “abilità”, “sapere” e dunque anche “scienza”. Purtroppo, proprio la rivoluzione scientifica ci impedisce di comprendere a pieno ciò che risuonava in questa parola in epoca premoderna e prescientifica. L’epistéme è lo “stare” (stéme, che si forma sulla radice indoeuropea stha, indicante appunto lo stare) “su” (epí), che riesce ad imporsi “su” tutte le forze che tentano di abbatterlo e in questo senso è un “sapere che sta”, un “sapere” che si impone “su” tutto ciò che pretende di negare ciò che “sta”, è lo “stare” che è proprio del sapere innegabile e indubitabile e che per questa sua innegabilità e indubitabilità si impone “su” ogni avversario che pretenda di negarlo o di metterlo in dubbio. La parola latina scientia, da cui poi l’italiano “scienza”, racchiude originariamente in sé questo scenario semantico che indica il “sapere assoluto”, il “sapere innegabile” che non può cadere in errore e non può essere oggetto di discussione, la “verità” in senso forte.
La rivoluzione scientifica, pur ponendo in essere un distacco radicale dalla filosofia quanto alla questione del metodo che la terrà impegnata per quasi tutto l’evo moderno, rimane completamente nella scia della grande tradizione filosofica, prima greca e poi medievale, quanto al senso della verità. Anche per la scienza moderna la verità è epistéme, sapere assoluto ed incontrovertibile. Per Galilei, infatti, la mente umana si differenzia da quella di Dio solo in relazione alla quantità di scienza che essa è in grado di conoscere, che è una quantità finita, mentre per Dio è infinita ovvero conosce tutta la scienza, è onnisciente. Ma per quanto riguarda la qualità della scienza prodotta dalla mente umana non v’è nessuna differenza con la mente di Dio, poiché anche la scienza umana, seppur finita nella quantità, è assoluta e innegabile come lo è per Dio. In un celebre passo de Il Saggiatore Galilei afferma che
« convien ricorrere a una distinzione filosofica, dicendo che l’intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive o vero extensive: e che extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come uno zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune così perfettamente, e ne ha cosi assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore. »
dove extensive sta per “quantità” e intensive sta per “qualità”.
È evidente l’adozione da parte della scienza moderna del significato originario dell’epistéme filosofica nella misura in cui la scienza moderna intende essere previsione assoluta e non smentibile di ciò che accade. Il senso epistemico della scienza moderna è massimamente evidente se poniamo attenzione al significato che sin dall’inizio assume l’espressione “legge scientifica”. Una legge è scientifica se e solo se ha la capacità di “raccogliere” sotto di sé tutti i possibili fenomeni di cui essa è legge. Il manifestarsi anche di un solo e unico caso che la legge scientifica avrebbe dovuto pre-vedere, ma che al contrario non sottostà a tale legge, rappresenta la dimostrazione della non-scientificità di tale legge. Questo è ciò che Galilei intende quando sostiene che l’uomo è in grado di intendere le leggi scientifiche “così perfettamente” e che “ne ha così assoluta certezza” che dalla natura – dalla realtà tutta – non può arrivare nessuna smentita, nessuna negazione, poiché, quanto a queste leggi scientifiche, l’uomo ne ha conoscenza nello stesso modo in cui ne ha “l’istessa natura”, da cui dunque non può manifestarsi nessun caso contrario alla legge.
La scienza moderna sorge dunque con la medesima vocazione alla verità assoluta che per secoli aveva caratterizzato la filosofia sin dalle sue origini in Grecia. Naturalmente, rispetto alla filosofia, tutto cambia quanto al metodo che rappresenterà la chiave di volta decisiva per il successo della scienza moderna nei secoli successivi fino ad arrivare a noi, ed è proprio nel metodo scientifico che s’insinuano le ragioni profonde per cui per la scienza moderna è stato inevitabile il passaggio da un concetto epistemico ad un concetto non-epistemico della verità. Negli ultimi due secoli, infatti, la scienza moderna, lentamente ma costantemente, perde la propria originaria vocazione alla verità assoluta, per diventare un sapere ipotetico-deduttivo o statistico-probabilistico ovvero, detto in termini più netti, un sapere non vero e, dunque, per ritornare al linguaggio comune: un sapere che non assicura nessuna “certezza”.
È sempre Galilei che indica la struttura portante del metodo scientifico, noto come metodo sperimentale, nella famosa lettera a Madama Cristina di Lorena: «Mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie». Tralasciando la pur importante questione della critica all’“autorità delle Scritture”, l’indicazione è chiarissima. Per Galilei i “problemi naturali”, i problemi che hanno come oggetto i fenomeni naturali, possono essere affrontati e risolti solo basandosi su due pilastri: da un lato l’esperienza intesa come ciò che abbiamo “dinanzi agli occhi”, le esperienze effettuate attraverso i nostri sensi, le osservazioni, da ultimo il mostrarsi dei fenomeni, dall’altro le dimostrazioni che mostrano l’esistenza di nessi necessari nella realtà fenomenica e che, basandosi sul principio di non contraddizione, si esprimono nei termini formali della matematica che, sin dal principio, rappresenta il linguaggio attraverso cui la scienza moderna si esprime. In breve, il metodo scientifico è in grado di indicare una legge scientifica, avente valore assoluto, grazie alla sintesi proficua tra i dati di fatto forniti dall’esperienza e dalla rigorosa formulazione dei dati di fatto in termini matematici.
Per comprendere, tuttavia, il motivo di fondo per cui nel metodo sperimentale adottato dalla scienza moderna è già insita la ragione del suo collasso in una forma di sapere non assoluto, è necessario volgere lo sguardo proprio a ciò che la scienza intende con il termine esperienza su cui poi si fonda l’intero edificio galileiano del metodo sperimentale e su cui, da ultimo, poggia l’intero sapere scientifico.
“Esperienza” viene dal latino experientia, con il significato di “prova”, “verifica” e in questo senso “esperienza”. Anche il verbo “esperire” deriva dal latino experiri che ha il significato di venire a conoscenza di qualcosa provando e riprovando. Chi “esperisce”, infatti, diventa “esperto”, “perito” (e da ultimo in senso moderno diventa “scienziato”). Experior significa provo, tento (perior) a partire da (ex). Il latino perior corrisponde perfettamente al greco πειράω che è parallelo di πείρω ovvero “penetrare”, “attraversare”, “passare da parte a parte” dalla radice indoeuropea par- che indica il “muoversi attraverso”, “andare o condurre al di là”, che ritroviamo nel sanscrito par-an (oltre, al di là) e pār-as (la sponda ulteriore) e nell’antico alto-tedesco par-an (muoversi da un luogo ad un altro). Anche il greco ἐμπειρία – che traduciamo sempre con “esperienza” – è costruito su πεῖρα che significa di nuovo “prova”, ma anche “conoscenza conquistata con l’esperienza”. Nell’esperire è risonante con forza l’eco del fare esperienza, diventando esperti, intesa come un passare da qualcosa a qualcos’altro, come un raggiungere la sponda della conoscenza da cui si era lontani. L’esperienza conduce alla scientia attraverso una “prova” che nel linguaggio della scienza moderna diverrà l’esperimento.
Tuttavia, a differenza della filosofia che volgeva il proprio sguardo all’esperienza intesa come manifestarsi onnicomprensivo, il φαίνεσθαι che nulla lascia fuori di sé, la scienza sin dall’inizio intende l’esperienza come alcunché di differente: l’esperimento.
La verità è l’Innegabile, ciò che non potrà mai essere smentito e che, proprio per questo, deve essere in grado di prevedere qualunque possibile evento. La verità non può essere, per la filosofia, qualcosa che anche nel più lontano futuro potrebbe essere smentito dal manifestarsi – dal fare esperienza – di qualcosa che la contraddica. La verità così intesa non può che rivolgersi sin dal proprio inizio alla totalità degli eventi, al Tutto o, più propriamente, all’essere oltre il quale non c’è nessun evento o fatto che possa fungere da possibile smentita, oltre il quale non c’è nulla ovvero oltre il quale c’è solo il nulla. In questo senso l’esperienza in ambito filosofico è la stessa totalità degli eventi e dei fatti: l’essere.
Con la nascita della scienza l’esperienza non è più la sterminata infinità degli eventi che tutto include, ma solo una parte di tale totalità. E precisamente quella parte che l’esperimento scientifico intende ri-produrre in laboratorio al fine di verificare sperimentalmente l’ipotesi che è candidata a diventare la legge scientifica che legifererà su quella determinata parte presa in considerazione dall’esperimento. Proprio per questo in laboratorio vien prodotto il fenomeno (una determinata parte della realtà) con l’intento di accertare, osservare se il fenomeno si comporta o no nel modo previsto dall’ipotesi. In caso positivo, l’ipotesi è resa vera, veri-ficata (“fatta vera”); in caso negativo l’ipotesi è smentita e viene scartata come possibile legge scientifica. Questa operazione in cui l’ipotesi diventa legge scientifica è l’esperimento che, come già notava Bacone, non è il farsi innanzi spontaneo delle cose, ma un’esperienza guidata e sorretta da un’ipotesi (experientia litterata) e che ancora Wolff definiva come «un’esperienza che concerne fatti di natura che non accadono se non interviene l’opera nostra». La differenza fondamentale tra l’esperienza intesa come il darsi spontaneo della totalità degli eventi e l’esperimento sta proprio nell’“opera nostra” che separa e isola una parte (un fenomeno o una serie di fenomeni più o meno complessi) dalla totalità della realtà.
Tale isolamento, che sta alla base del metodo sperimentale e del suo successo storico, è la radice dell’impossibilità della scienza di essere verità assoluta e quindi sta alla base del suo insuccesso quanto alla capacità di dare le tanto agognate “certezze”.
L’esperimento, dunque, è la “prova” che fornisce “certezza” alla scienza, ma questa “certezza” è sempre esposta al pericolo ̶ parola costruita sulla stesa radice di experientia e di πεῖρα – della smentita, proprio perché si basa solo su una parte della realtà isolata dalla totalità della realtà. Nulla esclude che dall’infinità di fatti ed eventi che costituiscono la totalità della realtà possa manifestarsi all’improvviso un alcunché che smentisca la lex scientifica. L’esperienza intesa come esperimento isolante, e quindi l’intero edificio del sapere scientifico che ad essa si ricollega, non cessa mai di essere sottoposto alla “prova”, non cessa mai di essere sotto la minaccia di una smentita. Per quanto potente e complessa sia ciò che viene chiamata “verifica” delle prove, resta pur sempre aperta la possibilità dell’insuccesso della “prova”, è cioè sempre possibile in linea di principio l’irruzione di qualcosa – un evento o un fatto – che si mostri come una novità del tutto imprevedibile da cui segue il più comunemente noto “crollo delle certezze”.
All’isolamento della parte dal Tutto si aggiunga che la scienza, sin dall’inizio, compie un ulteriore isolamento che separa gli aspetti quantitativi dagli aspetti qualitativi della parte già isolata rispetto alla totalità della realtà. In breve, di un certo fenomeno la scienza non tiene conto di tutti quegli aspetti che non possono essere espressi in termini matematici e che quindi sfuggono al controllo che la legge scientifica cerca di esercitare sul fenomeno analizzato.
Tuttavia, di tutto ciò Galilei non è affatto consapevole ed è convinto in assoluta buona fede che il metodo sperimentale sia in grado di produrre scientia ovvero la verità assoluta non smentibile e incontrovertibile che la filosofia ha evocato con il nome di epistéme. E questa buona fede degli scienziati si prolungherà per molto tempo fino a tutto il XVIII secolo.
Negli ultimi due secoli, tuttavia, la vocazione originaria della scienza ad essere verità assoluta, e di conseguenza foriera di certezze, naufraga definitivamente nel mare di difficoltà che progressivamente vengono alla luce nei diversi ambiti scientifici, ma che hanno tutti la loro origine nell’impostazione che la scienza stessa si è data al suo sorgere soprattutto con Galilei. Non è qui neanche lontanamente possibile ricostruire nel dettaglio il concreto sviluppo storico del fenomeno noto come “crisi delle scienze”, ma se ne possono indicare le tappe fondamentali. In primo luogo la nascita delle geometrie non-euclidee, da Saccheri a Riemann, ha portato alla luce la natura non assoluta, e quindi non-veritativa, di ogni costruzione assiomatica delle geometrie. Non meno importante è stato il tentativo di rigorizzazione della matematica che da Cauchy, Weierstrass, Cantor, Frege, Boole ed Hilbert condurrà infine a Gödel e al suo teorema che dimostra l’imprevedibilità della contraddizione in un sistema assiomatico formalizzato di una certa potenza, in base alla dimostrazione dell’indecidibilità, all’interno di tale sistema, della proposizione che in esso enuncia la non contraddittorietà del sistema stesso. Più semplicemente detto: anche il sapere matematico prende coscienza della propria non assolutezza, della propria controvertibilità. Analogamente, e a maggior ragione, questo processo, che conduce dalla presunta assolutezza galileiana alla constatata ipoteticità del sapere scientifico, coinvolge anche tutte le altre scienze, a partire dalla fisica, che – a differenza della geometria e della matematica, si trovano immerse in difficoltà epistemologiche ancora più complesse dato il loro riferimento continuo all’esperienza che, scientificamente intesa come qualcosa di parziale, è inevitabilmente esposto alla possibilità della smentita.
In conclusione, chiedere alla scienza di produrre un sapere che non dia adito a dubbi e a possibilità di smentite significa chiedere alla scienza di non essere se stessa. Nella misura in cui tale richiesta proviene dalle masse terrorizzate non suscita alcun stupore, anzi rappresenta l’ennesima testimonianza dell’interpretazione mitica, ai limiti dell’onirico, che le masse danno del sapere scientifico. Ma allorquando tale richiesta proviene dagli intellettuali, e più in generale, dalle classi dirigenti, ciò rappresenta un grave sintomo dell’incapacità degli stessi di condurci fuori dai problemi in cui i popoli si trovano, pandemia compresa, poiché se i passeggeri di un veicolo possono concedersi, entro certi limiti, il lusso di dormire e sognare, chi conduce il veicolo dovrebbe rimanere estremamente vigile.
28 gennaio 2021
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