Non di rado si è riconosciuta la valenza filosofica di certe opere letterarie, capaci di portare il lettore a riflessioni di una profondità non immaginabile a prima vista. Ma in che senso la letteratura può rendersi filosofica, contribuire nel lettore a sviluppare determinati pensieri e ragionamenti? Si cercherà di scoprirlo tramite un racconto interno a una delle più note opere di letteratura italiana: l’Orlando Furioso.
Non di rado, nel mondo della filosofia, si è riconosciuta la valenza di tornare a leggere i grandi classici, senza dimenticare quelli collocati non solo a secoli, bensì pure a millenni di distanza. Questo non per un semplice sfizio filologico o storico, ma per la consapevolezza che i grandi classici – antichi o più contemporanei – si caratterizzano proprio per il loro afflato universale: la loro capacità di parlare all’uomo di ogni epoca, trasmettendo insegnamenti e riflessioni che non invecchiano. Certamente, ogni opera risente del contesto storico in cui nasce e non può essere astrattamente separata da questo; tuttavia, la grandezza degli autori classici è la capacità di sviluppare ragionamenti che non si fermano alla propria epoca, che, analizzando l’umanità nelle sue differenti sfaccettature, son capaci di comprendere e parlare del mondo in un modo che rimane, più o meno parzialmente, valido per qualsiasi epoca. La Repubblica di Platone, la Fenomenologia dello spirito di Hegel, l’Etica di Spinoza, ecc. sono opere che parlano a ogni epoca, in quanto in ogni tempo il lettore può, tramite una lettura critica, ottenere da queste opere delle riflessioni attuali per comprendere il presente e agire in esso. Sono opere profondamente filosofiche perché chi le affronta è capace di riordinare il proprio pensiero, valutare quali sono i valori su cui basare e con cui ordinare il proprio vivere.
E la letteratura, per questo riguardo, non è forse filosofica? Cosa differenzia il possibile apporto dato da grandi opere letterarie da quello ottenuto con le opere filosofiche di spessore? Senza voler giungere a conclusioni definitive nella brevità di un articolo, ragionare su un esempio è il modo migliore per cominciare questa riflessione. Si prenda allora in mano l’Orlando Furioso, facendo attenzione a una storia interna a esso neppure molto famosa, eppure assolutamente carica di valenze filosofiche, come a breve vedremo. Si sta parlando della narrazione dell’amore fra Ginevra e Ariodante, collocata fra la fine del libro IV e l’inizio del libro VI dell’opera scritta da Ludovico Ariosto.
Rinaldo, uno dei paladini di Carlo Magno, nonché innamorato, come Orlando, della bella Angelica, si ritrova in Scozia, in un monastero, dove chiede ai presenti se vi sia qualche avventura da cui lui possa ottenere gloria e fama dimostrando il suo valore. La risposta fra monaci e abate è univoca: c’è un’avventura da poco disponibile che supera di gran lunga tutte le altre, specie per il premio che si potrà ottenere. La figlia del re al quale sottostà lo stesso monastero è condannata a morte: il capo d’imputazione è l’aver avuto rapporti sessuali con un uomo di cui non è già moglie. La legge scozzese, «empia e severa», afferma che ogni donna non sposata, se viene accusata di esser andata a letto con un uomo, ha come pena la morte, a meno che un cavaliere non prenda le sue difese e si scontri, entro trenta giorni, con l’accusatore, rendendosi vittorioso. Il problema è che l’accusatore è Lurcanio, uno dei migliori cavalieri del regno, contro cui nessuno vuole andare.
Rinaldo non ha dubbi a prendere le difese della figlia del re e afferma:
« Una donzella dunque de’ morire
perché lascio sfogar nell’amorose
sue braccia al suo amator tanto desire?
sia maledetto chi tal legge pose,
e maledetto chi la può patire!
Debitamente muore una crudele,
non chi dà vita al suo amator fedele. »
Che senso ha punire una donna per amare un uomo, al di là del vincolo coniugale? Questo si chiede Rinaldo, che non ci vede alcuna logica in questa legge: per questo furono «gli antiqui ingiusti e male accorti, / che consentiro a così iniqua legge, / e mal fa il re, che può, né la corregge». A rincarare la dose, poi, Rinaldo afferma:
« perché si de’ punir donna o biasimare,
che con uno o più d’uno abbia commesso
quel che l’uom fa con quante n’ha appetito,
e lodato ne va, non che impunito? »
Se la legge è vera legge – ha la sua valenza universale –, per quale logica solo metà della popolazione è a essa sottomessa? Perché le donne vengono biasimate e condannate a morte per un rapporto pre-matrimoniale, mentre gli uomini – che partecipano direttamente a questa “colpa” – vengono invece lodati per le loro avventure sotto le coperte?
Rinaldo ha quindi tutti i motivi per muoversi in difesa della donna, indipendentemente che questa sia colpevole o meno dell’accusa: a lui non importa, in quanto la legge in sé è sbagliata. Tuttavia, l’unico modo per salvarla è il combattimento, verso cui si dirige con uno scudiero. Mentre sta uscendo dal monastero, tuttavia, trova una donna che sta per essere uccisa da due uomini a cavallo: messi in fuga questi e salvata lei, Rinaldo scopre che è Dalinda, una delle principali serve di corte della figlia del re. Lei, alla domanda di Rinaldo su cosa sia successo, anticipa le sue spiegazioni sottolineando quando «dar la morte a chi procuri e studi / il tuo ben sempre, è troppo ingiusto et empio». Dalinda inizia così a raccontare che era innamorata di Polinesso, duca d’Albania, con cui più volte si era trovata ad amoreggiare nelle stanze della figlia del re quando, di nascosto, ve n’era stata occasione, facendo salire Polinesso da una finestra da cui nessuno lo poteva veder entrare. Era talmente innamorata del duca che non fu capace di capire «ch’egli fingeva molto, e amava poco», nonostante i «mille segni certi» che avrebbero permesso a lei di capire: dopo un po’ di tempo, Polinesso – resosi più arrogante verso Dalinda – iniziò a spingere questa affinché mettesse una buona parola per il duca con Ginevra. Il suo obiettivo – per come lo aveva spiegato a Dalinda – era quello di entrare nelle grazie della figlia del re, così da sposarla ed entrare nella corte, ma tenendo come unica vera amante sempre e solo Dalinda. Per quanto questa ci provasse, tuttavia Ginevra non si avvicinò minimamente al duca d’Albania: era già innamorata di Ariodante, cavaliere valoroso e ben voluto dal re stesso.
Polinesso allora escogitò una trappola infallibile: convinse Dalinda a presentarsi una notte, sul balcone da cui lui sarebbe arrivato, vestita come Ginevra, adducendo come motivo il fatto di volere in tal modo sfogare i desideri frustrati e dimenticarsi della figlia del re. Al contempo, trovò Ariodante e gli chiese di non intralciare più il rapporto fra lui e Ginevra. Ariodante ribadì che Ginevra lo amava e gliel’aveva espresso più volte a parole: Polinesso replicò dicendo che invece, a lui, Ginevra gliel’aveva mostrato pure a letto. Ariodante, colpito nell’onore e non convinto delle parole del duca d'Albania, rimase basito quando Polinesso gli disse di venire ad appostarsi vicino al balcone dove, quella notte, il duca d’Albania sarebbe salito per incontrare Ginevra. La notte Ariodante si appostò vicino al balcone, accompagnato dal fratello Lurcanio per paura che in realtà si trattasse di una trappola, e vide Polinesso che effettivamente salì e si baciò e abbracciò appassionatamente con Dalinda, che tuttavia con i vestiti imperiali, un volto simile alla figlia del re e l’aiuto della notte, sembrava effettivamente Ginevra ai suoi occhi. Ariodante tentò allora di togliersi la vita, ma venne salvato dal fratello:
« Ah misero fratel, fratello insano
(gridò), perc’hai perduto l’intelletto,
ch’una femina a morte trar ti debbia?
Ch’ir possan tutte come al vento nebbia!
Cerca far morir lei, che morir merta,
e serva a più tuo onor tu la tua morte.
Fu d’amar lei, quando non t’era aperta
la fraude sua: or è da odiar ben forte,
poi che con gli occhi tuoi tu vedi certa,
quanto sia meretrice, e di che sorte.
Serbi quest’arme che volti in te stesso,
a far dinanzi al re tal fallo espresso. »
Che senso aveva perder la vita per una donna che, col tradimento, aveva dimostrato di disconoscere quei valori che tanto affermava, quali la fedeltà all’amato espressa a parole e smentita negli atti? Che si denunciasse piuttosto il misfatto al re. Ariodante tuttavia non se la sentì, specie di fronte a quella lacerazione tremenda, nata dalla contraddizione fra quanto aveva visto e la conoscenza avuta in passato di Ginevra, considerata una donna di tal valore che era più che sensato amarla fino allo sfinimento. Non gli pareva possibile che quella donna da lui conosciuta avesse compiuto un tal gesto: la disperazione d’amore lo spinse, solitario, a lanciarsi giù in mare per annegare. La sua morte venne portata a corte da un viandante che aveva visto il gesto: Ginevra era disperata, Lurcanio accecato dall’ira. Proprio il fratello di Ariodante decise allora di denunciare il tradimento di Ginevra: il re, rispettoso delle leggi, accettò di mettere a morte Ginevra, a meno che uno non la salvasse entro trenta giorni sfidando Lurcanio: in tal caso, il vincitore la avrebbe avuta in sposa. Incapace di credere che ciò fosse veramente successo, il re volle chiedere alle serve di corte se loro sapessero qualcosa a riguardo o potessero smentire l’accaduto: Dalinda, nella paura che il suo amato Polinesso fosse messo nei guai, andò da lui per avvisarlo del fatto: questo tuttavia, onde evitare problemi, la mandò a morire affinché fosse tolto l’unico testimone del misfatto. Il racconto di Dalinda si conclude così ora, con Rinaldo che è giunto in tempo per salvarla dai due scagnozzi che la stavano per uccidere.
« Hai sentito, signor, con quanti effetti
de l’amor mio feci Polinesso certo;
e s’era debitor per tai rispetti
d’avermi cara o no, tu ‘l vedi aperto.
Or senti il guidardon che io ricevetti,
vedi la gran mercé del mio gran merto;
vedi se deve, per amare assai,
donna sperar d’essere amata mai. »
Ora Rinaldo è ancora più convinto sul da farsi: arriva a corte e scopre che già un cavaliere sconosciuto da tutti sta per sfidare Lurcanio. Il paladino di Carlo Magno ferma tutto, svela la realtà dei fatti, sfida Polinesso e lo uccide a duello. Il re è ovviamente contento di sapere la verità, ora che l’onore e il nome di Ginevra è stato ristabilito. Ginevra stessa scoppia di gioia, quando il misterioso cavaliere toglie l’elmo e si dimostra essere Ariodante stesso. Il cavaliere, dopo essersi lanciato in mare, si era pentito del suo gesto suicida: tornato alla riva, aveva deciso di capire se Ginevra si era rallegrata o meno della sua morte. Con sorpresa, gli era giunta la voce che «per gran dolore / ella era stata a rischio di morire». Scoperta poi la decisione di Lurcanio, aveva deciso di sfidare il fratello a duello: troppo ancora era l’amore per la sua «dea» per lasciarla morire a causa di un suo stesso gesto, il tentato suicidio. Era troppo dolorosa l’idea della sua morte che era persino pronto a sfidare Lurcanio e il «crudele assunto» di vendetta di questi, oltre a mostrare come, nel momento di maggior pericolo, Polinesso non facesse nulla per salvare la sua presunta amata, mentre lui – “tornato dal mondo dei morti” – fosse pronto nuovamente a perdere la vita per lei. Fortunatamente, la vicenda si conclude bene, col re che:
« Seco pensò che mai si potesse
trovar un più fedele e vero amante;
che dopo tanta ingiuria, la difesa
di lei, contra il fratel proprio, avea presa. »
Una vicenda di sicuro profonda sul tema dell’amore, che conviene leggerla direttamente per cogliere, nelle sfumature delle ottave ariostesche, tutta la potenza potetica che l’autore è stato capace di trasmettere nel narrare questa storia. Il riassunto qui presente può infatti solo richiamare a grandi linee la potenza comunicativa dell’opera. Appurati questo limiti, si pensi ora quanto questa vicenda abbia una valenza filosofica, capace di spingere il lettore a riflettere sul proprio pensiero, su come egli concepisca certi temi e valori (riguardo l’amore, il concetto di onore, il sacrificio, la fedeltà, ecc.). Ma, soprattutto, in che modo questa spinta alla riflessione, in quanto letteraria, differisce da un mero scritto di filosofia?
Certamente ci sono dei passi di vera e propria riflessione generale, che potrebbero ben avvicinarsi – pur rimanendo in un contesto letterario – a ciò che in genere si intende come filosofico. Si pensi all’inizio del canto V, dove il narratore parla della violenza sulle donne:
« Ch’abominevol peste, che Megera
è venuta a turbar gli umani petti?
che si sente il marito e la mogliera
sempre garrir d’ingiuriosi detti,
stracciar la faccia e far livida e nera,
bagnar di pianto i geniali letti;
e non di pianto sol, ma alcuna volta
di sangue gli ha bagnati l’ira stolta.
Parmi non sol gran mal, ma che l’uom faccia
contra natura e sia di Dio ribello,
che s’induce a percuotere la faccia
di bella donna, o romperle un capello:
ma chi le dà veneno, o chi le caccia
l’alma del corpo con laccio o coltello,
ch’uomo sia quel non crederò in eterno,
ma in vista umana uno spirto de l’inferno. »
Vi è qua una riflessione, seppur poeticamente connotata, di carattere generale, che cerca di ragionare sul significato di un certo comportamento, in particolare sul disvalore della violenza verso le donne. Si potrebbe, pur con le sue peculiarità, considerarla filosofia nel momento in cui, in questo passo, si tenta un ragionamento che permette di orientare le nostre vite, di ordinare i nostri comportamenti secondo ciò che va promosso in quanto valore e cosa, in quanto disvalore, va evitato. Come ben scritto in un recente articolo di Valentina Gaspardo, «la filosofia […] dispone i significati che affiorano dai diversi profili dell’esperienza. Ordinandoli, orienta le passioni e così le nostre vite». Grazie alla filosofia si possono ottenere quelle riflessioni e principi che, nel loro non concentrarsi su un semplice caso concreto, ma nell’assumere un valore che tenta di essere valido universalmente, permettono di orientarsi nel concreto della vita.
Tuttavia questa parte dell’Orlando Furioso non è solo una riflessione di carattere generale: vi è un passo di enorme pregnanza letteraria. Un passo che è capace – e questo, forse, è ciò che contraddistingue la letteratura – di mostrare la significatività di un certo contesto, di una certa situazione di vita in tutta la sua pregnanza. Non si parla di amore in generale: vi è una storia d’amore, mostrata in tutte le sue sfaccettature, carica di una tragicità e di una felicità finali che son vive, in quanto concrete, realmente situate in un contesto, per quanto esso sia fantasioso. La significatività insita nel passo consiste proprio nella capacità di mostrare quella storia mettendo in luce gli elementi più importanti per capire che succede, cosa si prova in quella situazione, quali sono i nodi fondamentali che sorreggono la vicenda. La profondità del passo è così quella di far vivere la significatività dell’avvenimento, dunque le stesse emozioni che i significati trasmessi portano: la lacerazione emotiva nell’esser traditi, la tragicità del (presunto) suicidio, la volontà di salvare chi si ama, la felicità di ricongiungersi dopo lunghi affanni. In tal senso, la forza della letteratura potrebbe non solo esser definita come la capacità di trasmettere la significatività di un certo atto, un certo contesto concreto; bensì come la maestria nell’esprimere l’emozione, il sentimento nel modo migliore possibile, essendo ogni esperire umano, nel suo mostrarsi e conoscersi, portatore di un’emozione correlata al pensiero che quell’esperire provoca – emozione che è l’essenza, l’espressione stessa del pensiero da cui scaturisce: i due elementi non sono divisibili. Emozione che non manca nella riflessione generale – non si prova forse gioia se si pensa di aver capito i principi alla base del vero amore? –, ma che è tanto più sentita quanto più collocata in un contesto di vicende situate, concrete, nel quale il lettore può immedesimarsi con tutta la propria riflessione e conseguente emotività.
Di fronte a queste riflessioni, si può ben capire quanto la letteratura porga spesso una mano d’aiuto alla filosofia: proprio in questo mostrare e far provare la significatività di determinati contesti, permette al lettore di comprendere ancor meglio, nonché rivalutare e correggere, i principi su cui regge la propria vita. Se il proprio pensiero è guidato da delle massime generali, queste devono essere massime sì generali, ma comunque concrete: si rischia sennò di scadere in quell’universale astratto che non serve a nessuno. Quante volte si è sentito uno dire che “il fumo fa male” e poi magari fumava ugualmente? Significa che quel principio che dovrebbe guidarlo è solo un flatus vocis, parole al vento senza alcuna valenza. Questo perché quel presunto principio è vuoto, in quanto chi lo afferma non è consapevole nel concreto di cosa ciò significhi, non ha cioè presente quei contesti che esprimono la valenza di quel principio. Chi invece ha in mente il dolore che si prova a vedere, per esempio, un parente morire di cancro ai polmoni può invece maggiormente essere cosciente di cosa significhi dire “il fumo fa male”. La conoscenza dei casi particolari è ciò su cui si basa lo sviluppo dei principi generali, che potranno essere confermati o rivalutati a fronte di nuovi casi che si presenteranno. Principi che, finché si rivelano validi, assurgono a guida e ordinamento del nostro vivere.
Per questo, la letteratura è filosofica: nel suo farci immedesimare in contesti significativi, in azioni, comportamenti e pensiero profondi, ci permette di riflettere sul nostro agire, di rimodulare i nostri stessi principi nel momento in cui noi sentiamo cosa significa un certo avvenimento. Cosa non si prova a pensare il vuoto nell’animo di Ariodante quando, ingannato, si vede tradito dalla donna che amava? Come non si sente balzare il cuore in petto all’idea che Rinaldo debba correre per arrivare in tempo e svelare a tutti la verità? Quanta gioia si sente nel riconoscere la volontà di Ariodante di salvare Ginevra a tutti i costi, la sua incapacità di dimenticare quanto lei si era dimostrata fedele e bella, nonostante il tradimento sembri cozzare con tutto ciò, sembri negare quel vissuto che pare impossibile da negare? Che sollievo, infine, si ha quando i nodi vengono al pettine e queste lacerazioni e contraddizioni emotive vengono risolte, con buona pace dei giusti e dei valorosi?
13 gennaio 2021
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