Soffermandoci troppo sugli eventi e poco sulla teoria, finiamo con l'accettare prospettive di parte come asettiche verità. Così è per la storia del capitalismo: tendiamo ad attribuirne la nascita ad un processo di spontaneo sviluppo della concorrenza. Siamo sicuri che sia così?
di Pasquale Noschese
Nel suo testo La dinamica del capitalismo, Fernand Braudel fornisce ottime chiavi interpretative per orientarsi nei mutamenti che hanno caratterizzato la storia economica dell’età moderna. In linea generale, Braudel distingue tra una “categoria A” e una “categoria B” di scambi. Nella prima categoria rientrano gli scambi effettuati in una sorta di “public market”, un mercato comune, geograficamente ristretto, nel quale si incontrano produttori e consumatori. Il valore delle merci è legato principalmente al loro valore d’uso. Questo tipo di mercato non solo è dominante agli albori dell’età moderna, ma resterà dominante per grandissime fette della popolazione lungo tutto il periodo moderno. Nella seconda categoria, tra i produttori e i consumatori (che in ogni caso non sono rigidamente separati) si inserisce una terza figura: il mercante. Com’è intuitivo pensare, il mercante si introduce dove vi è una distanza geografica tra gli altri due agenti, ed è per questo che Braudel utilizza l’eloquente termine tedesco “Fernhandel”, ossia “commercio su lunga distanza”, per distinguerlo rispetto allo scambio legato al territorio, dove semmai sono presenti piccoli mercanti. Ad essere distintiva è dunque l’emancipazione del capitale dal territorio. In questa seconda categoria ad orientare l’attività economica è il valore di scambio, stimato dallo stesso mercante facendo attenzione a rendere le proprie offerte appetibili. Caratteristica fondamentale della seconda categoria è che vi operano pochi mercanti: mentre infatti il commercio locale «si disperde in una moltitudine di partecipanti», è lampante come «un gruppo di grossi commercianti si separi nettamente dalla massa dei piccoli mercanti e che questo gruppo sia, socialmente, molto ristretto e economicamente molto legato – tra gli altri tipi di attività – al commercio a lunga distanza» (F. Braudel, la dinamica del capitalismo).
I motivi sono semplici: il commercio su lunga distanza è costoso e rischioso, i profitti possono non arrivare per anni. A potersi permettere il Fernhandel sono ricchi mercanti, che Braudel non descrive come agenti economici astorici e neutrali ma come elementi ben inseriti in una realtà sociale, «amici del principe», detentori di «monopoli o semplicemente del potere di infrangere nove volte su dieci la concorrenza». Nel caso occidentale «i successi individuali devono quasi sempre essere accreditati all’azione persistente e cumulativa di famiglie, vigili, attente, impegnate ad aumentare a poco a poco il loro patrimonio […]. Il regime feudale rappresenta la base del potere delle famiglie signorili […]. La borghesia per molti secoli costituisce il ceto parassitario di questa classe privilegiata» (ivi) costruendo la base delle proprie ricchezze. Ci sono dunque tutti gli elementi: con l’avvento dell’età moderna, le scoperte geografiche rendono il Farhendel incredibilmente profittevole, ed una “aristocrazia del denaro” ha la possibilità e l’abilità di sfruttare l’occasione. A rendere ciò possibile è il rapporto tra la suddetta aristocrazia e il nascente Stato moderno, dimostratosi efficiente macchina di difesa dei propri mercanti dalla concorrenza che questa prima “globalizzazione” avrebbe necessariamente generato, garantendo monopoli e trattamenti privilegiati. L’ideologia che, quasi naturalmente, è sorta dalla concettualizzazione di tale rapporto, è il mercantilismo, che dunque è l’ideologia del capitalismo mercantile.
Precondizioni del capitalismo mercantile moderno e inizio delle esplorazioni
Ovviamente il Fernhandel e i grossi profitti che ne derivano non nascono con le scoperte geografiche, per approfittare delle quali c’era già bisogno, come detto, di un buon livello di ricchezza. Nell’Europa del tardo XIV secolo e del XV secolo, a detenere tali livelli di ricchezza sono le città-stato dell’Italia centro-settentrionale. Si tratta di città che si erano arricchite già a partire dalla proliferazione del commercio del XIII secolo e che si affacciano dunque alla modernità già dotate di borghesie dinamiche e, nei casi di Genova e Venezia, domini marittimi di discreta grandezza. Tuttavia, verso la fine del XIV secolo, l’espansione economica sembrava essere giunta ad un equilibrio. Non bisogna però immaginare l’equilibrio economico come una situazione di pace e serenità: come spiega John Hicks «ciascuno dei centri, nel momento in cui interviene l’arresto, cerca ancora di espandere il suo commercio; ma la concorrenza degli altri, che in precedenza era stata tollerata, diviene ora un pericolo. Vi sono stati sempre contrasti tra i centri. […] Ma è a questo punto, quando la crescita del loro commercio comincia a contrarsi, che è probabile l’esplodere tra i centri di contrasti fortissimi. Tale, possiamo ragionevolmente supporre, fu la lunga guerra tra Venezia e Genova, che si protrasse per circa quaranta anni intorno al 1400» (J. Hicks, Una teoria della storia economica). Tra i principali risultati di quella che Braudel chiama «la guerra italiana dei cent’anni» vi furono il successo di Venezia nel garantirsi il monopolio del commercio con l’Oriente estromettendo i genovesi, la conquista fiorentina di Pisa, il raggiungimento di un equilibrio politico stabile con la pace di Lodi del 1454. Giunti ad un equilibrio, le varie borghesie cittadine si dedicano al consolidamento del proprio potere interno, alla terra e alla legittimazione culturale. Gli imprenditori si trasformano così in rentiers e in mecenati: all’autunno di quella fase del commercio italiano corrisponde la fioritura culturale del Rinascimento.
Resta particolare la situazione di Genova. Il capoluogo ligure aveva già da tempo assoggettato la campagna circostante, dando i natali ad una forte aristocrazia terriera; questa aristocrazia aveva protetto militarmente il commercio e lo aveva finanziato, servendosene per arricchirsi. Quando si giunge all’autunno del commercio, con Genova che è anche esclusa dall’Oriente per opera di Venezia, gli aristocratici procedono ad usare i propri capitali eccedenti per rimarcare il proprio controllo sulla terra, tramite una rifeudalizzazione e il finanziamento di eserciti privati, con l’obiettivo di un potere signorile stabile. La rigida divisione della classe dirigente rende impossibile ai borghesi genovesi un percorso simile a quello che ha caratterizzato le altre borghesie italiane. La borghesia genovese si dà quindi un’organizzazione autonoma, istituendo la Casa di S. Giorgio nel 1407. L’autonomia e la necessità foraggiano la dinamicità del capitalismo genovese, che inizia ad interessarsi all’economia castigliana. In realtà, dopo il crollo della finanza catalana alla fine del XIV secolo, si era già creata una sinergia finanziaria tra le due aree, e tuttavia i genovesi furono in grado di generare una sinergia parallela in ambito commerciale introducendosi nel crescente mercato castigliano della lana. I borghesi di Genova si arricchirono dunque ulteriormente commerciando la lana castigliana, ad esempio con il regno indipendente di Granada, e poterono usufruire della penisola iberica come avamposto per commerciare in Maghreb, area importante per rafforzare il controllo sull’oro in alternativa alle zone veneziane. Infine, cosa forse più importante, i genovesi poterono beneficiare dei castigliani in quanto “produttori di protezione”. I mercanti genovesi erano persone pragmatiche e, con rare eccezioni, non erano propensi a rischiare grossi capitali in imprese ed esplorazioni pericolose, il che costringeva però la crescita del capitale genovese entro limiti che si sarebbero rivelati, alla lunga, restrittivi. Come spiega Arrighi «l’ovvia via d’uscita da questa impasse era instaurare un rapporto di scambio politico con governanti territorialisti che, come quelli iberici, erano spinti verso l’apertura di nuovi spazi commerciali da motivazioni diverse dal profitto calcolabile […] Lo spirito di crociata costituiva un’eccellente garanzia che l’espansione iberica in mari sconosciuti sarebbe proseguita libera dagli ostacoli posti da continui calcoli razionali dei costi e dei benefici monetari» (G. Arrighi, Il lungo XX secolo). La mente dell’osservatore non può non andare al proficuo rapporto tra Isabella di Castiglia e Cristoforo Colombo. Al momento della scoperta dell’America, la simbiosi tra istituzioni spagnole e capitale genovese era un sistema già pronto e collaudato, garantendo così ai genovesi il monopolio della gestione delle mirabolanti ricchezze del Nuovo Mondo.
La simbiosi iberico-genovese e la scoperta del Nuovo Mondo
“Benedetti” da Papa Alessandro VI con il Trattato di Tordesillas del 1494, con cui il mondo veniva diviso tra spagnoli e portoghesi, i primi si lanciarono con spietata efficienza a cogliere le nuove opportunità che l’espansione garantiva. Tra le prime novità notate dai conquistadores vi furono quelle di tipo agricolo. Gli europei scoprirono prodotti come il mais, la zucca, il pomodoro, il cacao, il caffè; d’altra parte, importarono il grano, l’ulivo e la vite. Le terre americane, in gran parte mai usate per l’agricoltura, si dimostrarono subito estremamente più fertili di quelle europee, garantendo così la sopravvivenza e la prosperità delle colonie e l’organizzazione di piantagioni. Oltre ai generi alimentari, due importanti novità furono il tabacco e il cotone, che funsero da base per l’arricchimento di molti mercanti. Tuttavia, il mercato più profittevole non era quello dei generi alimentari o di altri prodotti della terra quanto piuttosto quello dei metalli preziosi e delle valute. Le miniere del Potosì (attuale Bolivia) garantivano un afflusso di argento mai visto prima. Questo argento giungeva ovviamente in Spagna, principalmente a Siviglia. Che impiego se ne fece? Spiega Carlo Cipolla: «una parte del metallo, probabilmente un 25 percento, fu trasferito in Europa come reddito della Corona e […] questa parte del tesoro fu immediatamente trasformata in domanda effettiva di servizi militari e di armi e vettovaglie», tuttavia, nel frattempo, una cospicua corrente d’argento «muoveva verso Oriente prima dalle Americhe verso l’Europa e poi dall’Europa verso l’Estremo Oriente» (C. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale). Questo flusso era incanalato quasi interamente nel mercato dei metalli e delle valute, grazie al quale l’argento, a volte direttamente e a volte attraverso lettere di cambio, veniva scambiato con l’oro, proveniente dall’Oriente. La mobilità dell’argento è dunque perfettamente coerente con l’attenzione mercantilista per i metalli preziosi: l’Europa è ben contenta di “lasciar passare” l’argento se ciò serve ad attrarre l’oro. Lo scambio tra argento e oro avviene principalmente in due modi. L’argento estratto in America può imbarcarsi direttamente per la Cina o per le Filippine, entrambi mercati in cui il metallo bianco viene sopravvalutato rispetto all’oro. L’altra strada era quello di smerciare l’argento in Europa. In questi casi il metallo arrivava, come detto, a Siviglia, e qui veniva imbarcato dai genovesi; costoro si erano assicurati, nel mentre, il monopolio pressoché completo dell’offerta di argento a Siviglia, grazie al privilegio statale degli “asientos”, contratti che concedevano legalmente tale monopolio. Dopodiché i Genovesi, direttamente o dopo aver convertito l’argento in lettere di cambio, riversavano la propria offerta nelle fiere di Bisenzone e Piacenza, dove potevano acquistare l’oro accumulato dalla Serenissima o da altri comuni italiani grazie ai traffici con l’Oriente. Certamente l’oro era un bene molto richiesto di per sé, e tuttavia vi è un ulteriore motivo se era cercato così freneticamente: nel 1567 Filippo II aveva inviato il duca di Alba nei Paesi Bassi per sedare le rivolte, dando inizio alla lunga guerra tra spagnoli e ribelli di Guglielmo il Taciturno. Si tratta di un evento non indifferente per l’economia, perché i soldati spagnoli chiedevano di essere pagati in oro.
I genovesi dunque trasportavano l’oro racimolato verso Paesi Bassi, principalmente ad Anversa (che rimase capitale del mercato valutario per molto tempo), così da chiudere il cerchio della simbiosi con la Corona di Spagna e guadagnarsi il proprio trattamento di favore. Molte furono le conseguenze di questo nuovo assetto geo-economico. La prima fu, ovviamente, l’enorme profitto garantito a quei grossi commercianti che facevano affari col Nuovo Mondo. Come racconta Braudel, furono loro, e non i produttori stanziati nelle colonie, ad impossessarsi delle quote maggiori di ricchezza prodotta. A suffragio delle sue tesi, egli riporta un rapporto francese, dove è scritto che «gli spagnoli erano soliti portare 40 milioni [di lire tornesi] di merci e riportare per 150 milioni in oro e argento e altre merci» (Citato in Civiltà materiale, economica e capitalismo). Il passo si riferisce alla fine del ‘600, ma il concetto è valido anche per XVI secolo: il grande mercante, garantito da una condizione di monopolio e dalla separazione, fattasi profondissima dopo le scoperte geografiche, tra capitale e territorio, è messo in condizione di poter obbligare gli altri agenti economici ad uno “scambio ineguale” (questo il termine riassuntivo usato da Braudel) che funga da base indispensabile per il proprio arricchimento. Al produttore, che deve per forza rivolgersi al mercante affinché i propri prodotti raggiungano i mercati di sbocco in Europa, non resta altro che rivalersi sulla forza lavoro indigena, che nelle colonie è ridotta in schiavitù. Quando poi gli indios vennero gradualmente decimati dal vaiolo e dalla fatica, i produttori iniziarono ad importare schiavi africani, più prestanti nelle piantagioni o nelle miniere. Un’altra presunta conseguenza delle novità in campo economico fu la rivoluzione dei prezzi. Presunta, perché molti storici sostengono che sia esagerato parlare di “rivoluzione”. Innanzitutto perché, come riportato dalla Treccani, i prezzi salirono solo del 2% annuo (Dizionario di Storia Treccani), e poi perché in gran parte ciò non fu dovuto all’afflusso dei metalli preziosi. Più che altro, l’aumento della popolazione europea e l’incapacità del sistema produttivo (soprattutto in Spagna) di far fronte ad una crescente domanda con un’offerta adeguata, determinò un aumento dei prezzi. Anche l’afflusso dei metalli preziosi e la loro progressiva svalutazione avrà verosimilmente giocato un ruolo, e tuttavia l’aumento dei prezzi colpì più che altro le varie economie locali, i settori dell’economia in cui si producevano prodotti agricoli o comunque non di lusso, destinati ad una vendita nel territorio; in questi settori l’argento trovava poco posto, essendo spesso rimpiazzato dal rame o anche dal baratto. In ogni caso, a risentire dell’aumento dei prezzi furono più le persone comuni che le alte sfere dell’economia, che poterono continuare indisturbate nella loro espansione.
Il trionfo olandese
L’assetto iberico-genovese non era destinato a durare per sempre. A diventare il nuovo centro dell’economia mondiale furono proprio gli olandesi, in quel periodo acerrimi nemici degli spagnoli. Il trionfo di quella zona, che comunque non era mai stata economicamente marginale, paradossalmente non fu disgiunto dalle guerre che la devastarono e che devastarono l’intera Europa nel ‘600. Come si è visto, Anversa non aveva continuato ad acquisire importanza in quanto centro del mercato valutario, attirando metalli preziosi. Nel mentre, i ribelli olandesi avevano preso la via della guerra navale, che si rivelò particolarmente efficiente. Come risultato di questi due fattori, spiega Arrighi, i ribelli «svilupparono una notevole abilità non solo nell’evadere il fisco, ma anche nell’imporre alla Spagna imperiale una sorta di pressione fiscale “rovesciata” attraverso la pirateria e la corsa» (G. Arrighi, il lungo XX secolo). Insomma: la mossa spagnola di far giungere oro ad Anversa per combattere gli olandesi si era ritorta contro la Spagna stessa, e i riottosi olandesi furono in grado di raggiungere buoni livelli di accumulazione di capitale. Anziché disperdere questo capitale, gli olandesi lo usarono per acquistare scorte navali e grano dai paesi baltici, ritrasformando il commercio valutario in commercio di beni. Si trattava di un ottimo investimento, perché costava relativamente poco, perché sfruttava con intelligenza la geografia olandese, perché in Europa il grano e le scorte navali sarebbero state merci molto richieste durante il periodo delle guerre secentesche. Amsterdam divenne quindi sede di enormi magazzini (Braudel sostiene che fossero capaci di contenere fino a dodici anni di consumo di grano nelle Province Unite) per poi rivenderla a chi, magari perché impegnato in conflitti militari, era incapace di produrre da sé i beni necessari. Gli olandesi si mossero anche sul piano valutario, fondando la prima Borsa in seduta permanente al mondo. In questo modo, Amsterdam attirava capitali monetari da tutta Europa, garantendosi la liquidità necessaria a realizzare le proprie strategie commerciali. Fu tuttavia un terzo strumento a catalizzare i primi due e decretare il trionfo olandese: la fondazione di grandi compagnie per azioni, dotate di particolari privilegi da parte del governo olandese, in grado di svolgere attività bellica oltre che commerciale. Si pensa, ovviamente, alla Compagnia Olandese delle Indie Orientali, nata nel 1602. Si riproducono quindi le condizioni che, come insegna Braudel, consentono di realizzare i maggiori profitti in assoluto: una situazione di monopolio con l’esplicito beneplacito di uno stato e la capacità di direzionare (grazie alla Borsa di Amsterdam) enormi quantità di capitali nel Fernhandel, che ormai aveva consolidate dimensioni globali. Cambia la forma, non il contenuto, come scrive lo stesso Braudel: «In realtà, l’Olanda non poteva sfuggire allo spirito del tempo. Le sue libertà commerciali sono solo apparenti. Tutta la sua attività porta a monopoli di fatto, sorvegliati con cura. […] Tutte le colonie dell’Europa sono state considerate come cacce riservate, sottoposte al regime dell’esclusività. Senza infrangere questa regola, non un chiodo veniva forgiato, non una pezza di tessuto è fabbricata nell’America spagnola, senza autorizzazione della metropoli» (F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo Vol.2).
La grande differenza tra il capitalismo genovese e quello olandese fu la gestione dei costi di protezione, esternalizzata per il primo ed internalizzata per il secondo. Il risultato fu che, mentre i capitalisti genovesi avevano un controllo scarso, se non nullo, sulla direzione verso la quale li stava conducendo il “passaggio gratuito” fornito dagli stati iberici, la Compagnia olandese delle Indie Orientali godette di un’indipendenza che le permise di gestire la propria attività solo in base a logiche di tipo commerciale. L’intero Stato olandese agiva in perfetta coerenza con gli interessi del proprio capitalismo, ad esempio costringendo i danesi a mantenere lo stretto di Sund aperto e con pedaggi bassi. La Compagnia nel mentre eliminava autonomamente la concorrenza, soprattutto portoghese e genovese, in modi non propriamente tipici del libero mercato, ad esempio arrestando i genovesi che fondarono una propria Compagnia delle Indie e impadronendosi delle loro navi. La violenza olandese, verso i popoli indigeni o i concorrenti, era però legata solo e soltanto a logiche commerciali, senza o quasi senza derive nazionaliste o religiose. Col tempo, sebbene l’obiettivo della Compagnia fosse quello di mantenere una struttura territoriale limitata, si rese necessario un controllo sempre più intenso di aree sempre più vaste, per vincere la lotta contro i popoli indigeni (talvolta dedicatisi alla pirateria) e alle imprese europee. Come risultato «proprio il successo e l’autosufficienza conseguiti dalla VOC incrementarono il potere della burocrazia manageriale responsabile delle sue operazioni quotidiane. E questo maggiore potere venne a essere esercitato a spese non tanto del consiglio di amministrazione della compagnia (gli Heeren XVII), quanto degli azionisti della VOC» (G. Arrighi, il lungo XX secolo). La Compagnia divenne meno remunerativa e il capitale olandese divenne meno commerciale e più finanziario, trasformandosi ad esempio in prestiti agli Stati europei durante le numerose guerre, come quella di successione austriaca. Tuttavia, nel frattempo, sempre più interessanti divenivano le possibilità di investimento in Inghilterra. Nel ‘700, e ancor di più nell’800, sarà proprio Londra, con una sapiente combinazione di attività imprenditoriale, espansione coloniale e guerra ai concorrenti (ben quattro le guerre anglo-olandesi), a sostituire Amsterdam come centro economico del mondo.
Mercantilismo: errore di prospettiva o necessità storica?
Dopo un breve riepilogo storico, è possibile dare una migliore inquadratura del mercantilismo non più come pura “ideologia” nata spontaneamente dalla mente di Colbert, ma come riflesso teorico delle condizioni del tempo. In primis, la tendenza a proteggere i propri mercanti era visto come l’unico modo per permettere loro dei profitti: solo dopo, spiega Dobb, grazie agli avanzamenti della tecnica produttiva, sarebbe sorta l’idea di un’oggettività economica, di un «profitto veramente considerevole come derivante “naturalmente” dall’investimento nella produzione» (M. Dobb, Problemi di storia del capitalismo); fino ad allora, era lo Stato a dover creare le condizioni per registrare profitti. Queste tecniche di economica politica non erano disfunzionali: fu il mercantilismo europeo che, strozzando il dinamismo olandese, accelerò il declino dell’odiata Amsterdam. Lo stesso Atto di Navigazione inglese è una politica protezionista, eppure l’Inghilterra sarà la patria del liberoscambismo.
Per quanto poi riguarda l’importanza cruciale data ai metalli preziosi, è Braudel a porre il dubbio sulla presunta miopia del mercantilismo: «Non è il caso di pensare che il mercantilismo è l'espressione di una verità di fondo, ossia che i metalli preziosi sono serviti per secoli da garanzia e da motore per l'economia dell'antico regime?» (F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo). Lungi dall’essere una “fissazione” insensata, l’attenzione a procurarsi metalli preziosi era semplicemente l’equivalente dell’attenzione, ancora attuale, a procurarsi valute pregiate: questo era infatti il ruolo dell’oro. In definitiva, possiamo dire che il mercantilismo è una buona espressione teorica dei due tra i più grandi prodotti della modernità: il capitalismo e lo Stato moderno.
18 gennaio 2021
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