Questo non è un articolo sulla storia dell’intelligenza artificiale, o meglio: dell’idea che sia possibile qualcosa come un’intelligenza artificiale. Piuttosto, è una riflessione sul fatto se sia davvero possibile indagare su un problema tanto vasto facendo a meno di ogni forma di coscienza storica.
Esiste un filone di filosofia, noto come filosofia della mente, quasi del tutto trascurato in Italia e in gran parte d’Europa, che gode al contrario di uno straordinario sviluppo nei paesi di cultura anglosassone, in particolare Stati Uniti e Australia, tanto che sarebbe un’impresa davvero ardua anche solo tentare di fornire una bibliografia esauriente sullo stato delle ricerche e del dibattito in quei Paesi. Le ragioni di questa spaccatura sono, ovviamente, storiche, e riguardano il passato conflittuale tra razionalismo ed empirismo, tra cultura europea “continentale” e tradizione inglese anticartesiana e antimetafisica.
La filosofia della mente getta a sua volta radici molto profonde nella filosofia analitica, che è la versione neopositivista della filosofia del linguaggio sorta con Aristotele e prolungatasi ininterrottamente nel pensiero occidentale. Empirismo e neopositivismo, o neoempirismo, sono dunque l’alveo ideale e originale nel quale è maturata la ricerca contemporanea sulla natura del linguaggio e della mente, tra le cui finalità vi è lo sviluppo delle “macchine pensanti” o intelligenti e della robotica. Sarebbe interessante conoscere, per concludere questo sinteticissimo inquadramento storico, le ragioni per cui i filosofi continentali – grosso modo da Kant in poi – hanno abbandonato questo campo di ricerca nelle mani di una schiera di autodefinentesi “filosofi della scienza” tutti di cultura angloamericana, ma è impresa troppo lunga per gli scopi di questo scritto. Mi preme invece entrare nel cuore del problema, ovvero la dichiarata e insistita rinuncia a ogni forma di contestualizzazione storica che caratterizza gli studi delle due discipline uroboriche della filosofia del linguaggio e della mente.
A volte questa linea di principio è esplicitata con chiarezza:
« Il libro non ha alcuna pretesa storica, ed è anzi quasi del tutto astorico. Le diverse questioni sono dibattute da un punto di vista contemporaneo, senza preoccuparsi degli antecedenti filosofici più o meno lontani di una certa posizione » (A. Paternoster, Introduzione alla filosofia della mente, 2014).
Altre volte è data per scontata, per esempio negli scritti del primo Rorty come Verità e progresso, o avanzata con plateale immodestia nel classico popperiano La società aperta e i suoi nemici, in cui Platone entra nel novero dei fautori del totalitarismo, a prescindere da ogni interpretazione storica del pensiero platonico e del concetto di totalitarismo (così ben definito invece da Hannah Arendt).
Per quanto mi riguarda, dunque, la domanda è questa: si può “conoscere” qualsiasi cosa (non dico solo la mente, con i suoi abissali interrogativi) rinunciando al filo del discorso che nel corso del tempo si è dipanato attorno a un problema? La conoscenza non ha radici se non nel presente? Ciò che è stato detto, da duemila a duecento anni fa, può essere appiattito al livello di una qualunque revisione tra pari (peer review), senza distinzioni sulla provenienza di un concetto e sulle intenzioni di chi lo enuncia (che è quello che avviene regolarmente nei saggi di filosofia analitica)?
Per entrare nel vivo della questione, vorrei riportare un altro passo tratto dal saggio di Paternoster sopra citato, che ho scelto in base al fatto che è il più recente e sintetico tra gli studi italiani in materia:
« Descartes pensava infatti che nel mondo ci fossero due tipi fondamentali di enti o, in un linguaggio più classico, di sostanze: la res cogitans, la sostanza pensante, e la res extensa, i corpi materiali. Le menti sono altro dal corpo e da esso indipendenti; potrebbero esistere in assenza del corpo. Quest’ultima tesi appare oggi inverosimile alla grande maggioranza degli studiosi principalmente perché mal si accorda con alcuni capisaldi dell’immagine scientifica del mondo. »
A parte il riferimento a Cartesio, già di per sé significativo, mi soffermerò in particolare su tre parole chiave: “inverosimile”, “studiosi” e “capisaldi”.
In molti studi di filosofia della mente si parla della metafisica cartesiana come della teoria da confutare, come sintesi massima di un dualismo mente-corpo che il materialismo scientifico dei nostri tempi non può più accettare. Nessun cultore di filosofia della mente può oggi fare propria l’ipotesi che la mente sia un “oggetto”, che abbia cioè una propria realtà indipendente dal sostrato biologico del sistema nervoso. Ma al di là della considerazione che difficilmente si trova anche un solo filosofo “continentale” contemporaneo che abbia il coraggio di esprimere una teoria così marcatamente dualistica, le ragioni culturali profonde di quella metafisica, legate al contesto storico e al filo del discorso che si era sviluppato da Platone fino al Seicento, non vengono minimamente prese in considerazione, come se i quattrocento anni che ci separano da Cartesio fossero irrilevanti. Al contrario, la metafisica cartesiana viene definita inverosimile, e cioè priva di qualunque attinenza con la realtà, facendo così, per giustizia distributiva, di tutta la storia del pensiero filosofico qualcosa di altrettanto inverosimile, che in ultima istanza significa “di nessun significato”. Quali sono le conseguenze di un simile atteggiamento?
Secondo la scuola neoempirista o analitica, se non si parla di fatti non si parla di niente. Qualunque argomento che trascenda la realtà empirica ripetibile sperimentalmente costituisce, per i filosofi della mente, un non-problema, un oggetto degno tutt’al più di interessanti conversazioni tra amici o di buoni libri di letteratura e nient’altro. Questa posizione epistemica ha tutto l’aspetto, dai tempi di Carnap ad oggi, di una scelta, di una decisione programmatica (non voglio dire ideologica) che non ha nulla a che vedere con il libero sviluppo del pensiero, né con la complessità del reale – qualunque cosa questo termine indichi – e soprattutto del linguaggio, che è l’oggetto cardine della teoria analitica. È una imposizione di metodo che limita la realtà a ciò che decide la scienza, senza ben specificare tuttavia che cosa sia concretamente questa scienza. La conclusione che se ne trae è stringente: non c’è significato senza riferimento, senza cioè un oggetto specifico a cui siano attribuibili precise qualità verificabili. E così, per un filosofo analitico, “acqua” significa “liquido incolore, inodore, insapore, dissetante”; “mente” non significa niente, perché è senza riferimento. Con l’evidente contraddizione per cui la ricerca si volge verso un oggetto che non esiste, di cui non si può parlare, o meglio, di cui la scienza non possiede un chiaro riferimento oggettivo. Un vicolo cieco.
Veniamo ora al secondo punto: chi sono gli "studiosi" di cui parla Paternoster? Il termine è vago e, nel linguaggio corrente, esso indica una classe piuttosto indistinta di persone dedite allo “studio”, da quello scientifico a quello filologico o teologico. Che «la grande maggioranza degli studiosi» giudichi «inverosimili» i contenuti della storia del pensiero può essere un’affermazione facilmente confutabile, e certamente è falso affermare che tale maggioranza sia vincolata all’ «immagine scientifica del mondo». Senza entrare nel merito di una questione troppo ingarbugliata per gli stessi addetti ai lavori, preme qui sottolineare come la vaghezza del presupposto – «la grande maggioranza degli studiosi» – comprometta irrimediabilmente la valenza scientifica di quanto si può dedurre da esso. L’origine del problema è, ancora una volta, nell’autoisolamento in cui si è relegata una parte rilevante degli intellettuali occidentali, isolamento che deriva da una tradizione storica che parte dalla fine dei Seicento (se non addirittura dal 1200 e da Ruggero Bacone), da quel dissidio epistemologico e ontologico tra filosofi inglesi ed europei, di cui ho già detto. È bene dunque avere chiara la realtà dei fatti: studiare in un’università inglese o americana o australiana, invece che europea, fa la differenza; appartenere a una tradizione formativa e intellettuale piuttosto che a un’altra è massimamente rilevante, e non assumere questa realtà come presupposto vincolante circa il valore relativo delle proprie affermazioni assume tutto l’aspetto di una fallacia ideologica più che scientifica. I “filosofi” (tali si autodefiniscono) anglosassoni non riconoscono la tradizione europea, i filosofi “continentali” si disinteressano dello specialismo accademico di matrice analitica; tutto questo a discapito del valore universale della conoscenza e del pensiero, sia di quella scientifica che umanistica. Ancora una volta, la mancanza di coscienza storica è un difetto, non una virtù.
E siamo giunti così ai cosiddetti «capisaldi dell’immagine scientifica del mondo». In questo caso la contraddizione è più sottile e sorge dall’intreccio scivoloso tra la storia del pensiero scientifico e la semantica. La domanda che sorge immediata è: c’è una sola scienza (mathesis universalis) o più scienze? La seconda è: che cosa significa “capisaldi”? Non può esservi dubbio sul fatto che il pensiero scientifico sia sorto nella Grecia classica in seguito all’insegnamento di Aristotele e alla sua dottrina dei principi; rifiutare l’approccio storico nel dibattito scientifico significa negare questa natura originaria del nostro operare, e ci riporta alla domanda su cosa sia effettivamente la scienza, se essa discenda da un principio universale di carattere logico-metodologico (deduttivo) o sorga semplicemente dalla prassi contingente di alcuni individui intenti alla soluzione di problemi specifici. Qualunque osservazione condotta sugli oggetti naturali, sia questo il cervello o il bosone di Higgs, non può prescindere dal principio causale (se B allora A), a meno di aderire allo scetticismo radicale di David Hume; ma il principio di causa non è a sua volta un oggetto osservabile in natura, bensì un principio d’ordine razionale elaborato all’interno di una dottrina filosofica.
Il pensiero scientifico ha dunque origine nella storia, e non ha una necessità naturale di essere così piuttosto che in altro modo. Esso infatti appartiene alla tradizione Occidentale, e non ne troviamo traccia in quella cinese o in quella africana. Altro discorso è quello che concerne la matematica, o meglio le proprietà del calcolo numerico, conosciute in tutte le civiltà antiche. Ma ancora una volta abbiamo a che fare con un discorso troppo vasto per gli scopi di questo articolo. Da questo ordine di fatti deriva la conseguenza logica che i capisaldi della scienza hanno una valenza razionale, dipendono cioè dalla scelta di un metodo e non dalla “natura in sé”. Come ben dice la frase di Paternoster, essi sono immagini del mondo, non il mondo. Da dove poi abbiano origine queste immagini è il problema, non la soluzione. Se esse abbiano origine dalla costituzione fisica del cervello o da qualche facoltà non strettamente materiale, e se, soprattutto, la rappresentazione del mondo corrisponda in modo protocollare punctus contra punctum alla costituzione fisica del cervello, è una questione di certo non risolta e non facilmente risolvibile con gli attuali strumenti di osservazione.
La Storia dunque non è un optional confinabile in un circolo intellettuale superato dai tempi, ma un orizzonte di senso che ci riguarda in quanto esseri umani, legati nel tempo ad altri esseri umani che hanno posto le condizioni dell’attuale visione del mondo. Le diverse visioni del mondo non nascono come funghi, o per caso, ma gettano le basi in una conversazione (Rorty) in cui ciò che è superato non era senza senso, ma aveva un suo senso che va esplicitato e di cui è giusto rendere conto. La metafisica cartesiana aveva un significato, e il fatto che non sia più ripetibile non significa che, a suo tempo, non abbia contribuito alla costruzione di un mondo. Certamente questo mio ragionamento confina molto da vicino con lo storicismo, bestia nera di ogni materialismo, con una differenza: non credo in un “fine” della Storia, in un progresso escatologico della Ragione, ma mi rifaccio a un’idea olistica del sapere in cui ogni teoria è il nodo di una rete, un punto di arrivo da cui possono derivare diverse possibili conseguenze, la cui scelta dipende dagli scopi che ogni tempo si pone nella ricerca di ciò che è utile sapere e che meno si presta a ogni possibile contraddizione.
Le obiezioni sopra elencate aprono, una per una, a campi di speculazione e ricerca vastissimi, che non possono essere “resettati” con una semplice dichiarazione d’intenti, più simile a un atto di fede che a un ragionamento. La problematica assume un’urgenza evidente se consideriamo il fatto che essa sfocia, anche, nell’ambito delle scelte su come concepire un modello di mente di tipo artificiale, ovvero spostata dal campo biologico dell’umano a quello tecnico delle macchine. La decisione di progettare una forma di intelligenza “non naturale” che confini la ricerca nei limiti di una visione meccanicistica del mondo, esclude non solo la storia ma la stessa idea di umanità, con tutte le infinite problematiche legate ai sentimenti, alle emozioni, all’immaginazione, alle relazioni interpersonali che questa comporta. Che una macchina non abbia “bisogno” di provare emozioni può sembrare ovvio, ma non parliamo allora di intelligenza. Troviamo, per favore, un altro termine.
18 giugno 2021