La filosofia è davvero un sapere astratto e lontano dalle esigenze reali dell’uomo? Può, inversamente, un pensiero che si autoproclama come il più possibilmente concreto, empirico, attinente ai fatti e alla realtà rivelarsi, contro i suoi stessi presupposti, il trionfo della astrattezza?
Due secoli fa nella Fenomenologia dello Spirito, uno dei più celebri e originali romanzi di formazione filosofica, il filosofo idealista Georg Wilhelm Friedrich Hegel ci aveva fornito le avvisaglie su questo possibile “fall-out” del pensiero, che in termini generali e semplificativi, definiremmo oggi particolarismo filosofico. Un pensiero che, nelle sue variegate espressioni storiche, si è sempre fondato su un assunto di base: la verità sta nel particolare, nella concretezza di un “fatto”, di un dato, di una sensazione o di una causa. In ognuno di questi diversi elementi si può riscontrare un minimo comune denominatore: la necessità di individuare un punto saldo, concreto, verificabile, accertabile più o meno scientificamente o comunque tramite metodologie chiare ed universalmente valide.
Ciò che secondo Hegel accomuna le filosofie del suo tempo, che corrispondono nella Fenomenologia alle “tappe” attraverso cui la coscienza arriva ad acquisire alla fine del suo percorso il Sapere Assoluto, è proprio l’idea per cui si debba a tutti costi pervenire ad un principio oggettivo esterno alla coscienza, al soggetto conoscente e che quel principio debba avere un carattere fondamentale: la concretezza. Questo termine, che nel linguaggio comune potrebbe apparire di univoco e semplice significato, può in realtà assumere diverse accezioni. Concreto non è soltanto ciò che è materialmente percepibile, visibile o toccabile ma anche ciò che è empiricamente individuabile e verificabile. Interessa però qui sottolineare il legame ed il nesso dialettico che a partire da una analisi attenta del pensiero hegeliano viene ad instaurarsi tra le coppie concettuali astratto-universale e concreto-particolare. Un gioco concettuale svolgentesi all’interno di questo ipotetico quadrato nel quale i quattro lati che lo compongono sembrano inter-scambiarsi vicendevolmente tra loro, avvicinandosi e allontanandosi a seconda delle interpretazioni apportabili.
In Hegel, seppur implicitamente, appare evidente la superiorità teoretica del connubio tra concretezza e universalità rispetto alla coppia astrattezza-particolarità: il concreto è tale solo se universale e vicendevolmente la vera universalità è quella concreta, piena e sviluppata: il sistema hegeliano può infatti essere sintetizzato come un percorso dialettico che porta dall’astratto al concreto, dalle categorie più astratte del pensiero proprie del momento logico, al momento finale dello Spirito Assoluto, in cui la ragione diviene consapevole di se stessa e del suo essersi fatta “mondo”: il celebre e vituperato motto hegeliano “Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale” foriero di molteplici significati ed interpretazioni, designa anche la stretta consonanza tra realtà e razionalità, tra concreto ed universale tale per cui non si possano separare tra loro questi termini per coglierne il senso profondo. Ed è nel sistema, cioè nella totalità del reale, nell’unione dialettica delle parti che lo costituiscono, che quella consonanza può realizzarsi. Se infatti si isolassero tra loro le parti, se le si astraessero nella loro particolarità, il mondo risulterebbe ad un tempo irrazionale ed irreale. Ciò che dunque tiene insieme reale e razionale, concreto ed universale è il sistema: esso rappresenta per Hegel l’unica modalità di espressione della verità: «La figura autentica in cui la verità può esistere è soltanto il sistema scientifico della verità stessa. Ora, collaborare affinché la filosofia si avvicini alla forma della scienza, affinché giunga alla meta in cui possa deporre il proprio nome di amore per il sapere per essere sapere reale, è ciò che mi sono appunto proposto.» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito). E ancora: «Il vero è il Tutto. Il Tutto, però, è solo l’essenza che si compie mediante il proprio sviluppo» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito).
Sembra dunque che in Hegel la nozione di totalità dialettica permetta di tenere assieme i poli apparentemente inconciliabili dell’universale e del concreto, evitando da un lato i rischi connessi all’assolutizzazione dell’empiria come criterio della verità e dall’altro quelli relativi all’intellettualismo cognitivo, che cristallizza il divenire della realtà in concetti statici ed astratti.
Empirismo ed intellettualismo, nell’interpretazione hegeliana, possono essere concepiti come due indirizzi filosofici solo apparentemente contrapposti tra loro: pur procedendo a partire da due presupposti diversi, rispettivamente i sensi e l’intelletto, entrambi producono un esito pressoché relativistico. Ad essere pregiudicate sono le possibilità conoscitive della ragione, l’aspirazione di quest’ultima di pervenire all’universale. Per usare il linguaggio di Georgy Lukacs empirismo ed intellettualismo sembrano essere in una condizione di “solidarietà antitetico-polare”, di una contrapposizione solo apparente, che in realtà conduce ai medesimi esiti scettici ed anti-universalistici. Non è un caso che lo stesso Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, nella sezione dedicata alla Coscienza, proponga proprio una critica alle figure della “Certezza sensibile” e dello “Intelletto”. L’aspetto che accomuna queste due diverse figure sta proprio nell’identificare la verità in un elemento isolato dalla totalità del reale, rispettivamente la “Cosa percepita dai sensi” e la “Causa dei fenomeni”. Se si identifica la verità in un elemento particolare, slegato dalla totalità del reale si perviene, non troppo paradossalmente, ad una totale astrazione rispetto alla fluidità del mondo, della natura e della storia. Tale astrazione va concepita nella sua duplice valenza semantica, di separazione rispetto alla totalità e – conseguentemente – di allontanamento dalla concreta realtà oggettiva, giacché quest’ultima può per Hegel essere spiegata e compresa solo se considerata nella sua totalità.
Ma quali sono le implicazioni che mutatis mutandis questa duplice critica hegeliana può avere nell’interpretazione dell’attuale contesto storico, della sua Weltanschauung o mentalità dominante?
Quella hegeliana sembra essere una griglia interpretativa piuttosto prensile per decifrare alcune perversioni della cultura contemporanea: le figure fenomenologiche della Certezza sensibile e dell’Intelletto si possono, con una non troppo forzata contestualizzazione, applicare ad alcuni approcci tipici del senso comune e della politica post-moderna: con la fine delle “Grandi narrazioni” ed il tramonto delle ideologie si elevano ad orizzonti politico-culturali di riferimento il richiamo alla concretezza, alla pragmaticità, alla consistenza dell’economia rispetto alla sterile mollezza delle concezioni e dei valori metafisici, ormai in dissolvimento.
Torna in essere, all’interno dell’economicismo contemporaneo, la dialettica tra concreto ed astratto, che anche Marx aveva brillantemente colto a proposito delle metodologie dell’economia politica britannica del suo tempo: «Marx, partendo dal concetto hegeliano di concreto, dimostra che la vera concretezza non è un punto di partenza, come credevano i primi economisti, ma un punto di arrivo; il metodo scientificamente corretto, pertanto, risale dall’astratto, cioè dai singoli elementi isolati dal contesto, al concreto, che è sintesi di molte determinazioni ed unità.» (Diego Fusaro, Marx, Il Metodo dell’Economia Politica, in Filosofico.net). La Fallacia della visione economicistica della politica e della società, consiste proprio in questo paradosso: partendo dal concreto, dall’analisi economica della società, per astrazione si ricavano rigidi assunti economici che assurgono a diventare dogmatici criteri su cui stabilire strategie, scelte e manovre di politica economica e sociale.
L’economicismo, filosofia di riferimento della cultura e dell’azione tecnocratica, sembra dunque incombere in una duplice contraddizione: volendo fondarsi sulla concretezza dell’analisi economica della società giunge a postulati astratti, rigidi, decontestualizzati, spesso lontani dai bisogni e dalle esigenze reali degli agenti sociali di cui pur dovrebbe occuparsi; infine, pur presentandosi come scienza concreta, empirica, specialistica e dimostrativa finisce per toccare le punte massime dell’astrazione. Diviene fautore di una falsa universalità, basata sulla assolutizzazione dell’economia, che viene svincolata e astratta dagli altri saperi, trasformandosi keynesianamente in metafisica economica.
23 luglio 2021