Credere, oggi, ha ancora un senso? Che risposte può darci la fede, se mai può ancora darne? E il Cristianesimo? Lo abbiamo chiesto a Duilio Albarello, teologo e docente presso la Facoltà teologica di Torino, e a Francesco Postorino, filosofo e saggista cristiano, autore di diversi contributi su nichilismo e postmodernità.
La Redazione
Ci sono stati tempi in cui fede e ragione, religione e filosofia, non sono state percepite come due “nemiche”, ma l’una come il compimento dell’altra (pensiamo ad esempio a San Tommaso). Oggi, nell’epoca che si autodefinisce “postmoderna”, qual è il rapporto che si trovano a condividere fede e sapere?
Albarello:
Finché si mettono in rapporto due sostantivi – «fede e ragione» – si continua a immaginare l’esistenza di due entità, o di due capacità a sé stanti, che poi dovrebbero spartirsi tra di loro i beni, ossia gli ambiti di competenza. Occorre sostituire questa prospettiva con uno schema alternativo, basato sul punto di vista del soggetto in carne ed ossa. Perciò bisogna cominciare a mettere in rapporto due verbi: «credere e conoscere». I verbi esprimono delle azioni, che hanno appunto bisogno di un soggetto concreto per essere attuate. In effetti, se ci pensiamo, è la stessa persona presente a sé che crede e che conosce, o sarebbe meglio dire che crede per conoscere, nel momento in cui si impegna ad attuare la propria esistenza, dentro la rete di relazioni con la corporeità, con gli altri e con il cosmo.
Si tratta insomma di quell’esperienza fondamentale dell’umano, in cui il soggetto coglie se stesso, gli altri, il mondo, persino Dio, in modo consapevole e responsabile di fronte a tutti. In fondo, il sapere specialistico non fa altro che rielaborare in maniera riflessiva questa esperienza fondamentale della realtà, che ogni uomo e ogni donna attivano anche solo in maniera implicita per il fatto stesso di camminare nella vita. È grazie a questa radice esperienziale comune che, all’interno del sapere specialistico, sono destinati ad interconnettersi strettamente il livello dell’organizzarsi del funzionamento che è indagato dalle scienze empiriche, e il livello dell’emergere del senso che è invece interpretato dalla filosofia e dalla teologia. Qui si radica l’unità di ricerca tra le varie forme del sapere. Un’unità di ricerca che implica la capacità di gestire i conflitti sempre possibili, in nome del riconoscimento condiviso di un debito comune nei confronti del primato della realtà nella sua complessità irriducibile.
Postorino:
La filosofia è la lente che consente di esplorare in modo razionale la grammatica dell’Eterno e aggiungervi calde note a margine. L’Eterno, per un cristiano, non rappresenta un’oscurità integrale, perché ha un nome, peraltro riconducibile a Es. 3, 14 (“Io sono colui che sono”), un volto e un corpo che muore nell’“ora nona” e “vince il mondo” (Gv 16,33).
Purtroppo, la postmodernità, ovvero la casa dell’uomo contemporaneo, tende ad azzerare i fondamentali: così viene disprezzata la filosofia-lente (con il rischio sempre più concreto che il pensiero diventi giuoco intellettualistico adoperato da superuomini-influencer, oppure routine burocratica o ancora un approccio alla vita di cui si può fare a meno) e naturalmente si ferisce la grammatica dell’Eterno.
Se la postmodernità morde i fianchi al “senso”, ne fa le spese soprattutto la possibilità dell’uomo di afferrare il tra di ogni esperienza intersoggettiva o relazionale, e viene sconfitto in partenza il tentativo di interloquire con l’assoluto; anzi, l’uomo nel suo essere e la Trascendenza divengono oggi parole fra le altre che alimentano la noia storiografica, sociologica, clericale e giornalistica.
Tuttavia, la postmodernità offre un’occasione unica a coloro che non intendono svincolarsi da Dio: permette di fare “vuoto”, di riscoprire nella propria pelle il nervo della metafisica, cioè quella “grammatica” (il cui venir meno provoca la distruzione dello spirito cristiano), di ripulire il proprio intrinseco magari archiviando sovrastrutture, gelide categorie e sciocche astrazioni; in altri termini, introduce una “crisi” doverosa e uno spazio inedito ove si può finalmente abbracciare il tra e incrociare quel nome, quel volto e quel corpo che costituiscono l’Eterno, vale a dire ciò che non può essere revisionato né oggi né domani dalla penna del divenire.
In un tempo come il nostro, in cui pare esser crollato, appunto, il fondamento di ogni certezza, si assiste talvolta a un “ritorno alla fede”, come unico modo per continuare a vivere nonostante l’eclissi della verità. È una mossa sensata? Qual è oggi il contributo che la fede può dare alla nostra vita?
Postorino:
Faccio una premessa ricollegandomi alla mia risposta precedente. La postmodernità, a mio avviso, non è un fenomeno da liquidare a priori e in modo sbrigativo. Provo a spiegarmi con un esempio crudo: se si scopre che all’interno di un appartamento si verificano atti di abuso ai danni di un minore, a nessuno verrebbe in mente di denunciare o condannare l’edificio. Ecco, la postmodernità rappresenta l’edificio in cui vive l’uomo del 2021, la “realtà” che non andrebbe confusa con il “mondo”. Quest’ultimo simboleggia il male e per un cristiano andrebbe vinto; ma la realtà non può esser vinta o combattuta. In breve, la postmodernità è la nuova atmosfera entro la quale ciascuno di noi può scegliere se “vincere il mondo” o “conformarsi al mondo”.
Il punto è che oggi, per vincere il mondo, occorre spogliarsi il più possibile e restare nudi. Solo la nudità del volto può amare...! Solo così si può riascoltare quella voce e intercettare le sfumature del tu o del lui. Ma fare “vuoto” non significa cullarsi nelle rive del Nichts. Se il vuoto trascendentale si identifica con il Nulla che può anticipare la rinascita (imperfetta e mancante) di un cuore in tensione, il Nichts è il “niente del niente”, come lo chiama Heidegger, cioè il falso vuoto, quel mutismo osceno che riflette il passo dell’ospite inquietante e narra soltanto la zona morta di ogni esistenza: il nichilismo.
La postmodernità può ospitare entrambi i “vuoti”. Sta a me scegliere! La scelta del primo vuoto mi permette di camminare in quella “grammatica” con i tuoi occhi. L’altra via, invece, mi fa star fermo o mi suggerisce di correre in un deserto senza nomi né odori.
Albarello:
Davanti alle crisi che segnano le nostre società e che la pandemia ha amplificato a dismisura, la fede si propone come una "sorgente spirituale" che può fare la differenza, sia sul piano individuale, sia sul piano collettivo. Intendo una fede che consenta di continuare o ricominciare a dare credito alla vita, prima ancora che a Dio. Se preferiamo, intendo una fede che può giungere a dare credito a Dio solo a condizione che emerga come questo consenta di dare incondizionatamente credito alla vita. Al proposito, vorrei soffermarmi su ciò che la psicoanalista Julia Kristeva ha definito con un intrigante gioco di parole l’«incredibile bisogno di credere». Si tratta di una dimensione fondamentale di fiducia, che connota strutturalmente il soggetto umano, in quanto soggetto che parla e che agisce. Kristeva la qualifica come «una necessità antropologica, prereligiosa e prepolitica» (Bisogno di credere. Un punto di vista laico, Donzelli 2006), la quale diventa il segno che la ricerca di senso ha un carattere sempre eccedente, perché il suo «oggetto» per essere colto e accolto domanda un credito, un affidamento. La fede cristiana, ossia quel bisogno di credere che si affida all’inedito dell’Evangelo e se ne lascia plasmare, trova il criterio di verifica decisivo proprio nella sua forza di autentica umanizzazione. Chi crede nel Nazareno diventa consapevole che un’esistenza promettente – poiché «salvata» sia dal delirio di onnipotenza sia dal complesso di impotenza, variazioni sul tema del nichilismo – scaturisce dall’intreccio di due dimensioni immancabili: la fiducia in Dio e negli altri, che rende possibile la dedizione per Dio e per gli altri. In questo modo, l’esperienza cristiana si mostra capace di generare e condividere una maniera di abitare il mondo addirittura rivoluzionaria, per il nostro tempo disincantato e piuttosto cinico.
Qual è il tipo di fede che abbraccia il cristiano? E per cosa si caratterizza, soprattutto oggi che abbiamo alle spalle la cosiddetta “morte di Dio”?
Albarello:
Il cristiano sa che la sua fede in Gesù gli permette di incontrare ed esperire un Dio dal volto umano. Per questo, fin dall’inizio, l’evangelizzazione si accompagna indissolubilmente all’umanizzazione. Infatti, i primi discepoli riconobbero in Gesù una persona "singolare", in quanto si resero conto che in lui, nelle sue parole e nei suoi gesti – potremmo dire nel suo stile – diventava percepibile una maniera diversa di stare al mondo. Diventava percepibile una maniera di guardare la realtà, che rendeva capaci di scorgere le tracce di Dio non solo negli uccelli del cielo, nei gigli dei campi, nelle relazioni buone, ma anche nei sofferenti, nei lebbrosi, in coloro che venivano considerati peccatori, addirittura nei nemici. Da questo punto di vista, il dono più fecondo che il cristianesimo è incaricato di offrire ad ogni cultura e società è proprio la possibilità di realizzare un umanesimo dei volti, che si fa strada e si alimenta ovunque vengano attuati gesti di dedizione, di cura, di tenerezza, di giustizia, di misericordia, di riconciliazione. Questi sono i «segni del Regno», i quali si raccolgono in quella fraternità eccedente, che fa da ponte invisibile tra la signoria di Dio e la convivenza tra gli umani. Tale fraternità non è programmata o prodotta: è «una cosa felice che accade» (R.M. Rilke). La stessa comunità ecclesiale – come rabdomante dello Spirito – è provocata a seguirne con ostinazione le tracce ovunque si lascino intravedere; ed è chiamata a benedirne con letizia i gesti, gratuiti e sorprendenti, da chiunque siano compiuti. Soltanto una ricerca umile, aperta, fiduciosa, permette di riconoscerne l’accadere sempre eccedente, addirittura paradossale.
Postorino:
La fede cristiana è protetta dalla bellezza (senza tempo) della Porziuncola: pochi metri quadri che non possono mentire! Lì c’è niente: tutto! “Lì” significa “qui” e “adesso”. “Qui” posso scegliere se fare Porziuncola o fare mondo. Se faccio Porziuncola non ho tempo per le raffinatezze borghesi, per le polemiche ideologiche e fondamentaliste contro il mio tu, per la nausea di Antoine Roquentin, per un cattolicesimo poco cristiano, per la superbia teoretica. Non ho tempo per il mio (unico) tempo! Chi fa Porziuncola “vince il mondo”, cioè vince se stesso, trionfa sui punti neri della propria immagine. Perché, in fondo, il “mondo” sono io e non gli altri. Il “mondo” è l’altro me, quell’io che si ostina a ribellarsi alla luce!
Oggi, la sentenza esibita da Nietzsche ha reso certamente più fredda e buia la nostra casa, ma la “morte di Dio” non è una condanna assoluta, oggettiva e definitiva. Dipende da me e dalla risposta problematica che liberamente offro alla postmodernità: se inseguo le illusioni del Nichts, allora Dio muore, il mondo resiste e Cristo si rivela assente, annebbiato nei tormenti del Sabato a causa del mio continuo perdurare nel grigio della finitudine; se, al contrario, abito la Porziuncola, faccio “vuoto trascendentale”, tocco i gradini del tra, sento la “morte di Cristo” (che non è la “morte di Dio”) e respiro l’Eterno vincendo sia il “mondo” (me stesso nel mio tratto egocentrico) sia quella pienezza o soddisfazione storicista che spesso funge da fattore propedeutico al vuoto deresponsabilizzante del Nichts.
Di fronte alla crisi pandemica si scatena ancora nel cuore umano la domanda sulla giustizia e sensatezza del disegno divino. Abbiamo bisogno di una nuova teodicea?
Albarello:
Il dramma della pandemia può essere un’occasione favorevole per superare l’immaginario pagano del deus ex machina, che squarcia i cieli e scende per risolvere i problemi di cui gli uomini non sanno venire a capo. Tale prospettiva è in netto contrasto con la fede cristiana. Non a caso, invocare Dio affinché trasformi le pietre in pane è considerato da Gesù una tentazione da superare, non una forma di preghiera da raccomandare. Certo, dal punto di vista religioso è sensato domandare a Dio che intervenga. Nondimeno, dal punto di vista dell’Evangelo, deve essere chiaro che chi prega si rende disponibile ad essere coinvolto direttamente nell’iniziativa di Dio. Tale iniziativa in effetti ha bisogno di incarnarsi attraverso l’opera umana. Nel caso dell’epidemia che ci colpisce, è in gioco in particolare l’opera della "cura", intesa non solo come efficace applicazione delle terapie mediche, ma anche – o forse soprattutto – come buona pratica della dedizione fraterna. Se non fossimo capaci di questa cura, ripetere «Signore! Signore!» per spingerlo ad irrompere magicamente sarebbe solo un puro esercizio di superstizione. Cristo non promette mai una grazia a buon mercato, non esonera dai problemi, non evita a nessuno l’ingiustizia del male e della morte. In fondo, non eluderà neppure lui tale esperienza tragica, fino a morire sulla croce. Si tratta allora di riconfigurare radicalmente l’immagine di Dio: dal deus ex machina al Dio coinvolgente, che non è mai senza l’uomo. Un Dio che non si aspetta soltanto consumatori passivi della sua iniziativa soprannaturalistica, ma si attende dei co-amanti. Un Dio che desidera persone disposte ad amare con Lui e come Lui, affinché la sua volontà buona davvero sia fatta «come in cielo così in terra».
Postorino:
Restano valide e illuminanti le pagine di Nikolaj Berdjaev. Il filosofo russo, nel secolo scorso, ci esortava a non perdere di vista la dimensione ontologica della libertà: il dono più alto e “terribile” che Dio ci ha offerto. Per Berdjaev, infatti, l’uomo è libero di agire per il bene o per il male, per l’amore o per l’odio, per il giorno o per la notte. Dio, quindi, non è responsabile del male che si consuma nel teatro della vita, dato che ogni esito terreno è il frutto di un’azione adempiuta in totale libertà dall’uomo. In altri termini, se la persona è davvero libera, Dio non può essere il direttore d’orchestra di cattive sinfonie. Non spetta a Dio, insomma, l’ultima parola sulle vicende intricate del reale (pandemia inclusa!). Mi pare una lettura schietta e onesta, importante per quel desiderio di “responsabilità esistenziale” che peraltro trapela dai motivi più nobili della secolarizzazione (da non confondere con il “secolarismo”). E si tratta di una libertà “terribile”, come la chiama Berdjaev nella sua suggestiva interpretazione di Dostoevskij, perché in un attimo ci affaccia al mistero pasquale e l’attimo dopo rischia di farci precipitare nei labirinti del sottosuolo. Una libertà meravigliosa, crudele e angosciante, come sa bene Kierkegaard, che regala spazi di mattino ma anche discontinuità più o meno proficue e arresti. In ogni modo, il cristiano di oggi se alza gli occhi può ancora vedere la misteriosa testimonianza della croce e di chiodi che gridano in silenzio, e la postmodernità, con i suoi progressivi azzeramenti, lo obbliga ad affrettare la scelta tra il vuoto trascendentale e il vuoto nichilista, tra il Nulla della rinascita e il Nichts della disperazione, tra la grammatica dell’Eterno e le province del mondo.
7 luglio 2021
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