Tutti conosciamo, anche se sotto differenti nomi, la pratica del "sugar dating". Ma cosa rappresenta questa prassi, cosa può diventare, e che rischi comporta per il movimento femminista?
di Pasquale Noschese
La prassi, talvolta, esprime più teoria della teoresi. Un corpo sociale è sempre percorso da fenomeni che nascono come prassi, ma che contengono in sé una teoria, un testo culturale già presente nella sua interezza e che aspetta solamente di essere estratto, interpretato, formalizzato. La civetta e la talpa: così titola un celeberrimo libro di Bodei, nel quale si sottolinea l’accostamento, portato a consapevolezza nel sistema hegeliano, di due “forze motrici” dello “Spirito”, sempre hegelianamente inteso. La talpa è «Lo spirito nascosto, che batte alle porte del presente, che è tuttora sotterraneo, che non è ancora progredito ad esistenza attuale ma che vuole prorompervi» (Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia). La produzione della teoria può avvenire, può star già avvenendo, lontano dagli scaffali delle biblioteche, lontano dal dibattito, lontano dalla coscienza. È quindi legittimo, e talvolta opportuno, parlare di qualcosa che ancora non c’è, rispondere a domande che non sono ancora state poste. Il lavoro è tuttavia doppio: per parlare della prassi, è necessario darle voce; questa è un'ulteriore fatica per il pensiero. Fatica non in senso ingenuo ma in quanto trattasi di un'operazione pregna di ulteriori problematiche, gravida del rischio di diversione, di allontanamento, di errare, contenuti implicitamente nella pratica dell’interpretazione del muto, del nascosto, del sotterraneo. La forma di articolo, di suggestione, fornisce la delicatezza epistemologica necessaria a non cristallizzare i risultati di tale operare, provando così, quantomeno, a prevenire i danni, seppur minimi, che una riflessione con forti pretese porta nel suo bagaglio di rischi.
La pratica da analizzare, che chiama dal sottosuolo della “talpa” hegeliana, ha un nome semplice ed un immaginario semplice, e tuttavia un contesto di significati complesso e variabile, mutevole. Chiunque conosce le “sugar baby”, anche se magari con diversa dicitura. Un sito ne dà addirittura una definizione quasi “scientifica”: «Le sugar baby sono giovani partner “viziate”, che intrattengono incontri o addirittura relazioni romantiche o sessuali con uomini molto ricchi quasi sempre più maturi di loro, gli sugar daddy». Sullo stesso sito si critica l’utilizzo del termine “mantenuta” perché rinvierebbe a «sottotesti giudicanti e degradanti che non corrispondono al significato e al ruolo di sugar baby». Si tratta, come è evidente, di una pratica che abita l’immaginario collettivo da diversi anni. Il nodo problematico sta nella rete di significato che può svilupparsi dietro questa pratica, rete che apre la porta ad un ideal-tipo di sugar baby ben diverso da quello sedimentato finora. Ad una sugar baby fondamentalmente individualista, egoista, esplicitamente reazionaria, legittimista rispetto al contesto patriarcale che purtroppo ancora caratterizza l’ossatura della cultura occidentale, sta affiancandosi la possibilità di una sugar baby progressista, nata e cresciuta in un clima di femminismo più avanzato, che ha verosimilmente vissuto in età di formazione l’esperienza, quantomeno mediatica, del femminismo della quarta ondata, e che non interpreta la propria scelta esistenziale come conservatrice o reazionaria o sessista, anzi. Il perno concettuale cui appoggiarsi è il potenziale “liberatorio” della pratica del sugar dating.
Il ruolo della donna nel mondo occidentale in generale, e in Italia in particolare, è ancora contraddistinto da una posizione di subalternità che si manifesta trasversalmente negli ambiti più disparati. Dal lavoro alla casa, dall’Università allo svago, la donna deve sopportare una serie di vincoli e disparità che finiscono, in un tardo capitalismo già stagnante, a gravare insopportabilmente sulle spalle di generazioni di donne sempre più consapevoli, grazie al lavoro del movimento femminista, dell’arbitrarietà e dell’infondatezza della quotidiana iniquità. La giovane donna moderna si trova incastrata nella sommatoria del disagio giovanile di una generazione disillusa, la generazione della “classe disagiata” di Ventura, le cui aspirazioni si infrangono contro la realtà di un capitalismo discendente, e di una cornice sociale ancora patriarcale e maschilista, che deprime ulteriormente l’orizzonte di aspettative della popolazione femminile, riproponendo, al di fuori del racconto mediatico, le medesime forme d’esistenza nelle quali relegava le donne delle generazioni precedenti. Consapevolizzata ed esaltata da una narrazione che ne elogia i punti di forza e tuttavia oppressa dalle prospettive concrete di riproduzione degli odiati canoni di disparità e squilibrio, la giovane contemporanea si trova ad abitare una collocazione culturale tutt’altro che semplice. Sogno e promessa emancipatoria, principio di realtà opprimente. È una collocazione segnata da una tale instabilità a fungere da precondizione per il fenomeno (per ora acefalo) delle sugar baby progressiste. La lacerazione suesposta si condensa non già in un punto utopico, in un obiettivo collettivo, che intercetti esplicitamente il carattere plurale di tale condizione e lo traduca nell’impegno personale nella realizzazione del superamento politico della contraddizione; alla soluzione politica si affianca (o si sostituisce), semmai, la suggestione della diserzione, della fuga individuale dalla contraddizione. La semantica della diserzione offre un validissimo appiglio interpretativo per rapportarsi al fenomeno con la necessaria complessità, al punto che la metafora è indistinguibile dalla descrizione. È il femminismo, la lotta collettiva, ad attivare la contraddizione, a generare il disequilibrio, al fine di far deflagrare quelle che vengono individuate come le contraddizioni oggettive del tessuto sociale e culturale; tuttavia la radice collettiva e, perché no, combattiva che si trova al momento dell’attivazione della contraddizione, che rompe la quiete asfittica e pericolosa dell’adesione all’immanente, progressivamente scompare per lasciare il posto ad una pratica di fuga individuale. Fuga dal patriarcato, certo, ma che finisce con l’essere una fuga verso il patriarcato. Dinanzi alle ambizioni sinceramente liberatorie ed emancipatorie che possono pervadere una giovane donna abitante del patriarcato contemporaneo, si para dinanzi, quasi ineluttabile, ancora una volta l’Uomo, questa volta in veste di salvatore. L’Uomo che contribuisce, anche solamente con la propria condotta individuale, a costruire la gabbia del patriarcato contemporaneo, dall’altra parte, nella forma concreta di sugar daddy, benestante e “libertino”, offre una concreta via d’uscita a quella medesima gabbia. Il patriarcato scivola alle spalle e si riproduce in “alto”, in una prospettiva edenica disponibile al modico prezzo di stare, implicitamente, alle regole dell’Uomo. Brilla l’immagine di una novella terra del latte e del miele, di cui questi riccastri detengono, novelli San Pietro, le chiavi e la lista d’ingresso. Le avvilenti previsioni che affollano la mente di chi abita il soffocamento patriarcale paiono sciogliersi nel volto concreto di un ulteriore uomo, un uomo-che-salva. Il patriarcato ha dunque costruito il proprio harem e ha fornito le ragioni per agognarlo: il delitto perfetto.
Non resta che constatare con amarezza i nascenti pericoli e le possibili degenerazioni di un modello di emancipazione che è all’antitesi del movimento femminista, che pure ne è, in parte, precondizione. Donne che potrebbero rappresentare il fior fiore del movimento femminista, deviate in una direzione solipsistica e fondamentalmente legittimista nei fatti. Anche se il fenomeno particolare delle sugar baby progressiste dovesse morire sul nascere, il rischio che nascano ulteriori forme di risposta impolitica al patriarcato, magari anch’esse nate nel segno della diserzione, le conseguenze sarebbero catastrofiche. Ad una maggiore e più estesa consapevolezza del dramma collettivo, consapevolezza costruita con fatica dalle femministe stesse, non corrisponderebbe una politicizzazione delle donne bensì una de-politicizzazione. Se la risposta diviene individuale, allora i presupposti, anche giusti, costruiti dal movimento femminista, finirebbero per foraggiare l’impoliticità, la fuga individuale, l’atomizzazione. Purtroppo esistono eccome motivi che rendono un sospetto di questo tipo più che fondato. Tali motivi risiedono nei cerchi più ampi della nostra cultura, che sembra aver inserito in ogni ambito una sorta di pilota automatico diretto verso una sempre maggiore frammentazione e atomizzazione, con le soluzioni proprie dell’individualismo calvinista e veteroborghese che sono uscite dalla porta per rientrare, in mille forme diverse, dalla finestra. Gli spazi collettivi si erodono, e così quelli strettamente politici. La risposta individuale ai problemi sociali è diventato un paradigma più che affermato; basti pensare a come la lotta ecologista venga declinata, in gran parte, nella semplice responsabilizzazione al consumo degli individui, o a come la lotta sociale sia stata ormai completamente rimpiazzata dalla miriade di soluzioni individuali di stampo puntualmente lavorista che i vari guru del successo di turno sbandierano su internet, sui giornali o in televisione. Un sostrato del genere, addizionato a un immaginario collettivo in cui l’idillio eterotopico e le annesse monomanie di fuga sono ben presenti e vivi, rende spaventosamente reale l’immagine di una esternalizzazione all’individuo del movimento di emancipazione femminile, di una privatizzazione della lotta femminista, contesto di significato entro il quale il fenomeno delle sugar baby progressiste può occupare un posto di primissimo piano.
19 luglio 2021