Buoni contro cattivi: tertium non datur?
Circa un anno fa tutti i giocatori della nazionale di calcio hanno supportato, con svariate esternazioni, il Black Lives Matter e le proteste successive alla morte di Floyd. Quest’anno, per contro, si sono rifiutati di inginocchiarsi all’inizio delle partite perché — e secondo me a ragione — di quel gesto non si comprendeva nemmeno il senso, non c’era nessuna consapevolezza pregressa, motivante; soltanto un obbligo sociale da espletare — un dovere nei riguardi dell’immagine. E, dato che la nevrosi predomina, la loro si è tramutata subito in colpa da espiare immediatamente, pena lo scivolamento verso il settore infernale dei cattivi razzisti, omofobi, ecc. Cosa che in effetti è accaduta.
[Non ricordo bene l’aforisma di Nietzsche in cui smaschera la categoria meschina (perché risentita) degli “indignati”, ma sicuramente calzerebbe.]
Hanno resistito un paio di giorni, prima che uscisse un comunicato delirante della FIGC con lo scopo di mettere una pezza, e salvare invano capra e cavoli. Ciò che conta, comunque, è che del loro supporto sentito (quello sì, perché senza dubbio più spontaneo) al movimento Black Lives Matter dell’anno precedente non è rimasta traccia. Sono diventati razzisti di botto. Poco importa anche che il calcio da almeno un decennio abbia lanciato una campagna apposita “No to racism”, le cui parole d’ordine sono ostentate ovunque, persino sulle magliette. L’antirazzismo (come altre questioni*) diventa un che da performare sempre, in ogni istante, perché ne va della tua immagine sociale. Non importa cosa senti, e soprattutto se lo senti, basta che sembri così. Se molli un secondo non sei più dei nostri, sei fuori.
Questa logica muove le avvertenze ridicole all’inizio di alcuni film, le censure bigotte degli algoritmi su facebook, alcune discussioni sui classici, molte delle shitstorm sui social contro malaugurati che provano a mitigare il clima da caccia alle streghe, e via dicendo. Una psicosi collettiva.
Da un paio di giorni è riemersa sul web, in contrapposizione alla cattiva nazionale, una fotografia del nostro tennista (finalista) Berrettini – lui sì, per questo, italiano modello – in cui è raffigurato con una maglia del Black Lives Matter. Insomma, uno strumento per colpire gli “inginocchiatori" mancati (che infine si sono inginocchiati a seconda del volere dell’avversario). Ma mi preme insistere su questo punto: che il gesto di Berrettini, che a Nizza indossa quel simbolo, lo fa di sua iniziativa, con coscienza; non ha subito il “pressing” di milioni di italiani e alcuni giornali nazionali che lo riprendevano con biasimo. E c’è una grossissima differenza, perché in quel caso Berrettini non cerca il suo vestiario (la maglietta, appunto) attraverso lo sguardo indignato e meschino dell’Altro, che giudica feroce. Lo desidera e lo fa, e poi certo, essendo sempre con l’Altro, se ne confronterà – ma con un movente assai diverso. Il guaio è che neppure lui è in salvo: sono ben certa che se in un’occasione futura rifiuterà o ignorerà il prossimo dogma sociale (qualunque esso sia), verrà stigmatizzato in nome del progresso e della giustizia, e verrà ricordato come il nemico “perché quella volta lo ha fatto e adesso no”.
Ciò detto, vorrei toccare ancora un paio di questioni, fra loro intersecate. La prima è che i simboli sono essenziali, giacché sono i valori portati a coscienza, riconosciuti nella comunità. È un passo fondamentale. Però il primo passo senza il secondo è soltanto un movimento fasullo, e pertanto indossare i simboli e non realizzarli mai non fa che ribadire il concetto sopra esposto: serve a far sì che gli altri ci vedano come belli, bravi e buoni, ma che cosa poi siano realmente le nostre vite, alle spalle del fascio luminoso del riconoscimento, nessuno lo sa. Nella nostra società quella immagine, quello che sembriamo agli altri, è divenuto più importante di quello che realizziamo. Se indossiamo l’arcobaleno in uno slancio lgbt-friendly siamo immediatamente inclusivi, corretti. Poco importa se, magari, tradiamo il nostro partner o che so io. Realizzare il valore (i valori, individuarsi, chiamiamolo come vogliamo) è il compito di tutta una vita, e non può essere ridotto soltanto a contorno di un intramontabile, grottesco show.
La seconda questione riguarda, appunto, l’efficacia di questa giustizia sommaria messa in campo per stroncare chi non si mostra al modo corretto. Il triste comportamento degli inglesi che, con toni assai razzisti, hanno commentato i rigori sbagliati dai loro connazionali di colore, lascia ben intendere il modo in cui l’antirazzismo sia assimilato al momento della prova del nove. La politeness di stampo britannico si è palesata in tutto il suo splendore nel momento in cui i giocatori si sono levati la medaglia d’argento con un gesto di stizza, o quando i tifosi hanno calpestato le bandiere italiane, o ancora quando sono venuti alle mani, o, infine, quando hanno fischiato sistematicamente tutti gli inni nazionali avversari. Oltre a essere molto di facciata, questo tipo di politica nasconde anche tutto il rancore di chi non la condivide.
Essere ripreso e assediato dagli indignati perché non si inginocchia non renderà un uomo meno razzista, né gli darà alcuna voglia di simpatizzare per la causa. Per prendere consapevolezza è necessario uno spazio di manovra che lasci libero il processo di autocomprensione, con tutto il tempo e le deviazioni del caso. E anche qualora un razzista non lo fosse più, non tornerà magicamente tale se decide di non inginocchiarsi in una circostanza come quella degli Europei di calcio o se non indossa una maglietta. Ma la foga con cui si attacca chi pronuncia una parola fuori posto, o, peggio, chi non si marchia secondo lo standard sociale, non permette neppure di comprendere a che punto di quel processo ciascuno è. Lo si stronca subito. Altro che giustizia ed educazione!
*Si pensi all’ingresso della macchinina telecomandata dipinta con i colori arcobaleno che ha portato in campo la palla alla finale di Wembley.
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Per restare in tema e approfondire la psicologia del riconoscimento:
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