Il concetto stesso di “filosofia della musica” presuppone l’esistenza di una tradizione teoretica avente per oggetto qualcosa come la “natura” della musica, o il suo “significato”, o il suo “rapporto con l’essere” o col mondo naturale o culturale. E soprattutto presuppone una tradizione testuale di riferimento da cui ricavare strumenti metodologici e concettuali da sottoporre all’analisi serrata di una «conversazione filosofica» (R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura).
di Maurizio Chatel
In ogni caso è necessario distinguere ciò che sulla musica è stato scritto di filosoficamente rilevante, da contenuti che invece riguardano più strettamente i suoi aspetti teorici e formali, dove per “filosoficamente rilevante” si intende tutto ciò che fa di un discorso sulla musica la diretta continuazione di un “sistema” filosofico coerente. E dunque, un’eventuale filosofia della musica non deve appiattirsi sulla falsariga di una storia della musica né tanto meno su quella di una storia della filosofia, nel primo caso perché particolari interpretazioni del senso della musica hanno abbracciato fenomeni culturali, ambienti ed esiti artistici a volte molto diversificati ed estesi; nel secondo perché non molto frequente è il caso di pensatori che hanno affrontato il fenomeno musicale con “occhio” filosofico.
Quelle che proponiamo sono dunque delle vere e proprie linee guida, appoggiature generali su cui sperimentare un percorso didattico coerente da un lato con le concrete esigenze del “programma”, ma dall’altro aperto a sperimentazioni ed ampliamenti anche di contenuto.
Occorre innanzitutto premettere che l’arte dei suoni si colloca su quella linea di confine comportamentale che separa – o unisce? – il simbolico dal fisico. Possiamo ricorrere a due coppie filosofiche per enunciare questa ambigua bifrontalità: alla metafora nietzscheana dell’opposizione tra “apollineo” e “dionisiaco”, e alla separazione aristotelica tra filosofia teoretica e filosofia pratica. Nell’un caso e nell’altro, non è possibile stabilire in modo certo a quale dei due versanti appartenga naturaliter la musica.
Dobbiamo ancora una volta ai greci il rilievo di questi ambiti problematici. Con la scuola pitagorica la riflessione sulla musica, già connotata della sua profonda ambiguità, entra autorevolmente nell’orizzonte della conversazione filosofica. La considerazione evidente secondo cui furono i pitagorici a scoprire il rapporto tra musica e matematica apre subito problemi importanti. Questo rapporto, che può apparire razionalizzante e “apollineo”, è però tutto interno alla ontologica concezione matematizzante dell’universo, e ribalta quindi la prospettiva: che non sia cioè la musica ad avere una natura matematica, ma la matematica, in quanto principio d’ordine cosmico, ad avere una natura musicale. La musica è quindi da subito metafisica, apparendo come il volto bifronte dell’Essere.
Che la musica abbia a che fare con l’anima, non nel senso che ne costituisce una manifestazione – come il linguaggio – ma che la possa modificare e quindi ne sia consustanziale, lo riconosce Platone nella Repubblica, là dove si preoccupa di regolamentare l’attività dei musici nella società ideale. Dall’ambito metafisico, il discorso sulla musica passa quindi a quello etico, ma ciò è possibile solo riconoscendo alla musica un potere e una sostanzialità che non appartengono al mondo delle apparenze. Che la musica abbia un potere sull’uomo – sull’anima ma anche sul corpo – era per tutti i greci un fatto incontrovertibile, fatto che si esplicitava nell’uso sociale e “religioso” che di essa veniva fatto. Dai culti dionisiaci a quelli orfici, dall’auletica alla tragedia, la musica costituiva la struttura portante di tutto ciò che aveva un significato sociale ed etico insieme. Essa era il canale privilegiato dell’educazione e della comunicazione con la sfera del sacro.
Bastano queste scarne note a evidenziare il peso che una riflessione sulla musica può avere in un primo approccio didattico alla storia della filosofia.
Come già avviene nell’ambito del programma tradizionale di storia della filosofia, una buona conoscenza del pensiero greco può facilitare notevolmente l’approccio allo studio della filosofia della musica medievale e permettere il ricorso a quelle ampie sintesi che i tempi stretti del calendario rendono inevitabili. Infatti, la riflessione medievale sviluppa ampiamente i temi emersi nella civiltà greco-ellenista, affidando il dibattito, come del resto avviene per tutti i campi del sapere, a una fitta sequenza di trattati.
In generale, il fenomeno musicale attira l’attenzione dei Padri della Chiesa per la sua stretta connessione col Sacro. Ancora dunque la musica è associata all’anima, ma con tutte le distinzioni che la nascente teologia cristiana fissa nel suo processo di emancipazione dalla tradizione classica. L’influsso linguistico-ermeneutico della cultura ebraica sposta infatti il discorso dalla musica come ascolto (in fondo era quella uditiva la dimensione privilegiata ed implicita di ogni discorso sulla musica presso i greci) alla musica come canto. La tecnica strumentale viene esclusa per la sua stretta dipendenza dalla dimensione armonica estetizzante e formalistica; in quest’ottica il neoplatonismo patristico traduce in un primo momento – con Agostino – il canto in veicolo immediato di ricongiungimento col sacro (il giubilo come epistrophe), mentre con Boezio ricompare una visione più razionalistica della musica intesa come elemento armonizzante delle varie potenze dell’anima (in una più marcata concezione aristotelica).
La centralità del canto e quindi della parola sposta progressivamente l’attenzione sul problema del significato, ponendo al centro della prassi musicale il rapporto tra musica e testo. Il significato della musica non dipende esclusivamente, come per i greci, dalla sua struttura modale (modo è nella musica greca la successione ordinata dei suoni in toni e semitoni, la diversa sequenza dei quali può portare a diverse strutture modali), ma dalla stretta connessione col testo, il cui senso il canto deve contribuire a rendere evidente con le caratteristiche che gli sono proprie. Il canto gregoriano può quindi essere visto come espressione di una concezione universalistica del linguaggio, in quanto associa un valore psicologico immediato – universale, innato – a certi stilemi sonori, che in quanto tali, e non per convenzione, esprimono gioia o mestizia.
Al canto monodico gregoriano si oppose dal XIII secolo circa l’avvento della polifonia; in essa possiamo leggere l’alternativa nord-europea all’”universalismo” latino. La polifonia infatti ripristinava la sovrapposizione armonica dei suoni di stampo strumentale, ma soprattutto, con l’affidare ad ogni voce un testo diverso, rendeva inefficace la presenza della parola come tale nel canto. Le leggi proprie (matematiche) dell’armonia e la secondarietà del testo agli effetti sonori fanno dunque intravedere una concezione nominalistica – o convenzionalistica – del significato, una riduzione della parola a puro flatus vocis.
Umanesimo, Rinascimento e Barocco determinano il progressivo processo di consolidamento del paradigma che porterà alla formazione del linguaggio musicale occidentale. Come avvenne in tutti i settori della cultura, l’Umanesimo laicizzò anche le tematiche musicologiche arricchendole di significato ma soprattutto di nuove forme.
Volendo individuare il comune sostrato concettuale che permea l’indagine filosofica e musicologica del Rinascimento, non vi possono essere molti dubbi sul fatto che esso sia costituito dalla “rinascenza” della matematica. Questa Mathesis universalis nella quale da Cusano a Cartesio getta le sue radici il pensiero razionalista, ebbe un’enorme influenza anche nella nascita, lenta e laboriosa, della teoria musicale ovvero di quella “grammatica dei suoni” che costituisce l’identità musicale dell’Occidente. Dalle Intavolature per liuto di Vincenzo Galilei (1568) al Trattato d’armonia di Jean-Philippe Rameau (1722) si afferma in modo perentorio l’idea della natura numerica e misurabile del suono , idea che fa da “basso continuo” – è proprio il caso di dirlo – alla rivoluzione scientifica e all’Illuminismo .
A determinare il successo del modello matematico è la straordinaria somiglianza formale tra i fenomeni acustici tonali (diciamo “orecchiabili”) e la loro rappresentazione numerica, sia in termini di rapporti frazionari che seriali. L’estetica musicale del Novecento ha fortemente contestato la concezione “naturalistica” della tonalità, propendendo per una visione più autonoma del linguaggio compositivo (fino agli estremi della decostruzione dodecafonica); e tuttavia proprio le ricerche di laboratorio hanno recentemente dimostrato, nell’ambito della fisica acustica, quanto stretto sia il legame tra consonanza dei suoni e proporzionalità numerica. Quello del potere combinatorio dei numeri applicato alle note musicali è comunque un “demone” metafisico che non ha mai abbandonato lo spirito del musicista occidentale; diventa così inevitabile concludere questo discorso facendo riferimento a quell’immenso capolavoro filosofico-letterario del Novecento che è il Doctor Faustus di T. Mann. Esso costituisce indubbiamente il più elevato esempio di riflessione filosofica sulla musica oggi disponibile nel panorama storico letterario.
Il punto di svolta nella filosofia della musica è segnato dalla nascita dell’estetica, a cavallo del movimento romantico. Tema dominante della nuova disciplina fu la ripulsa verso ogni interpretazione tecnico-razionale dell’evento artistico (e musicale per conseguenza). L’idea stessa di gusto estetico presuppone una differenza “ontologica” da ogni atteggiamento razionalistico centrato sull’attività conoscitiva. Il punto di svolta coincise con la trasformazione settecentesca del concetto di giudizio, ovvero con la distinzione kantiana tra giudizio determinante e giudizio riflettente. Mentre fino a Baumgarten il giudicare è ancora una facoltà atta a distinguere, e quindi oggettiva – o per lo meno coincidente con un consolidato sensus communis – da Kant assume prevalentemente una dimensione soggettiva, e attraverso la teorizzazione del genio addirittura una rilevanza psicologica extra-razionale.
Ora, l’arte nella quale la potenza del genio abbia più agio a manifestarsi, dev’essere un’arte la cui espressione sia la più libera da contenuti, dove cioè sia più possibile “inventare” quelle idee estetiche che si trasformeranno poi in norme. Questa non può essere l’arte visiva, dove l’immagine distrae l’animo verso i referenti oggettivi a cui essa rimanda. Solo la musica, col suo potere astraente, è il metalinguaggio universale in cui la libertà dello spirito può manifestarsi in tutta la sua forza. Su tali presupposti, è ovvio che dovesse cadere ogni interesse per la natura sonora della musica, per la musica come fenomeno concreto, a tutto vantaggio di una visione psicologica ed esclusivamente emotiva.
D’altronde già Vico aveva espresso profondo disprezzo per ogni interpretazione metafisico-razionalista della natura della musica. Essa è, per il filosofo napoletano, la prima espressine dell’uomo, anteriore alla parola e alle riflessioni della “mente pura”: manifestazione dello spirito nel suo stato aurorale (Scienza nuova).
Se vogliamo cogliere ermeneuticamente il senso dell’estetica musicale romantica, possiamo ipotizzare in essa un potente recupero della teologia negativa neoplatonica privata di ogni istanza pitagorica, tendente così a ridurre la dimensione musicale all’espressione dell’ineffabile.
La massima espressione di questa tendenza fu il pensiero di Schopenhauer, per il quale la musica è l’oggettivazione della volontà. È importante a questo proposito leggere direttamente le parole del filosofo:
« La musica è dell’intera volontà oggettivazione e immagine, tanto diretta com’è il mondo; o anzi come sono le idee: il cui fenomeno moltiplicato costituisce il mondo dei singoli oggetti. La musica non è quindi affatto, come le altre arti, l’immagine delle idee, bensì immagine della volontà stessa, della quale sono oggettità anche le idee. Perciò l’effetto della musica è tanto più potente e insinuante di quel delle altre arti: imperocché queste ci danno appena il riflesso, mentre quella esprime l’essenza. Essendo adunque la medesima volontà che si oggettiva, tanto nelle idee quanto nella musica, ma solo in modo affatto diverso, deve trovarsi non proprio una diretta somiglianza, ma tuttavia un parallelismo, un’analogia tra la musica e le idee, delle quali è fenomeno molteplice e imperfetto il mondo visibile. L’indicare una tale analogia sarà come un chiarimento, che aiuti a comprendere questa dimostrazione difficile per l’oscurità del soggetto.
Nei suoni più gravi dell’armonia, nel basso fondamentale, io riconosco i gradi infimi dell’oggettivantesi volontà, la natura inorganica, la massa del pianeta. Tutti i suoni acuti, agili e rapidi, notoriamente sono da considerare sorti dalle vibrazioni concomitanti del suono fondamentale profondo, e al risuonar di questi risuonan tosto lievi anch’essi. [...]
Più pesante di tutte si muove il basso fondamentale, il rappresentante della massa bruta: il suo salire e discendere si fa solo per grandi passaggi, in terze, quarte, quinte, e non mai d’un tono solo; ché allora sarebbe, per contrappunto doppio, un basso trasportato. Questo tardo moto è a lui anche fisicamente naturale: un rapido passaggio o un gorgheggio nelle note gravi non si può neppure immaginare.
Più svelte, ma ancor senza nesso melodico e significante progressione si muovono le parti più elevate, che corrono parallele al mondo animale. Il movimento isolato e la destinazione regolata di tutte le parti sono analoghi al fatto, che in tutto il mondo irrazionale, dal cristallo all’animale più perfetto, nessun essere ha una coscienza propriamente sistematica, che faccia della sua vita un complesso sensato; e nessuno ha una successione di sviluppi mentali, nessuno si perfeziona con la cultura; bensì tutti rimangono in ogni tempo eguali, secondo la propria natura, determinati da rigida legge. Finalmente nella melodia, nella voce principale, alta, canora, che il tutto guida, e libera, spontanea procede dal principio alla fine con l’organismo ininterrotto e significativo d’un pensiero unico, formando un tutto ben delineato, riconosco il grado supremo dell’oggettivazione della volontà, la conscia vita e lotta dell’uomo. Come l’uomo ognora guarda, egli solo essendo fornito di ragione, davanti o dietro a sé, sul cammino della propria realtà e delle possibilità innumerabili, compiendo un corso vitale consapevole, in cui tutto si collega e forma un insieme: così ha la melodia sola una significativa, voluta connessione da capo a fondo. Ella narra quindi la storia della volontà illuminata dalla riflessione, volontà che si manifesta nel reale con la serie degli atti suoi, ma dice di più, narra della volontà la storia più segreta, ne dipinge ogni emozione, ogni tendenza, ogni moto, tutto ciò, che la ragione comprende sotto l’ampio e negativo concetto di sentimento, né può meglio accogliere nelle proprie astrazioni. Perciò fu sempre detto esser la musica il linguaggio del sentimento e della passione, come le parole sono il linguaggio della ragione. » (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)
Ancora di più qui il sottofondo inespresso è l’assegnazione alla musica di una dimensione panteistica, in cui non mancano curiosi riferimenti metaforici alla stessa teoria delle emanazioni.
L’ultimo filosofo in senso proprio ad aver scritto sulla musica fu Friedrich Nietzsche. In sintesi, il percorso musicologico del pensatore tedesco si può suddividere in due fasi: la prima, di grande infatuazione per il fenomeno del wagnerismo, in cui Wagner viene definito «il musico che esprime la potenza dionisiaca dell’anima, il genio per cui viene in luce una forza primordiale della vita imprigionata fino dall’antichità»; e una seconda di netta ribellione, nella quale il musicista ed ex amico è ridotto a un ciarlatano senza natura, né cultura né istinto. L’origine della crisi è nel progressivo manifestarsi nella produzione wagneriana di un misticheggiante anelito di redenzione da ogni vincolo terreno, che si contrappone radicalmente alla “fedeltà alla terra” di Zarathustra.
Ma nel frattempo, sull’onda della “diarchia” Wagner – Brahms, il dibattito sulla musica si era decisamente spostato verso esiti molto diversi: era allo stato nascente, infatti, una nuova cultura dell’ascolto, più vicina a quella cultura di massa che caratterizzerà il XX secolo, con tutte le conseguenze sociali, culturali e antropologiche che ne derivarono.
Per mantenerci fedeli al nostro scopo, che è quello di delineare un quadro di possibilità didattiche senza addentrarci nelle utopie di una multidisciplinarità impraticabile, non concluderemo il discorso con il quadro delle estetiche musicali del Novecento, anche perché l’uso del termine “estetiche” è in questo caso talmente variegato di sensi e denotazioni, da suscitare più di un dubbio sulla sua filosoficità. A meno che con “filosofia della musica” si intenda qualcosa che ha a che fare più con la visione del mondo dei musicisti che con l’interesse dei filosofi per la musica. Quindi più una filosofia della musica che una filosofia della musica. A tal proposito, R. Miraglia scrive:
« L’espressione filosofia della musica assume un significato specifico proprio riproponendo quello generico di riflessione globale sui fenomeni musicali. (…) senza contrapposizioni, facendosi anzi carico di tutti i problemi della tradizione, tale espressione invita a riaprire tutti gli scenari del musicale che erano stati chiusi, e ad affrontare anche gli aspetti filosofici della situazione musicale e musicologica contemporanea. Che cosa realmente accomuni musica e matematica ad esempio costituisce un problema ancora aperto. » (R. Miraglia, Fenomenologia della musica: una breve storia.)
Giochi di parole a parte, ciò che i filosofi del Novecento hanno detto sulla musica verrà qui riproposto attraverso una sintesi selettiva che non ha la stessa finalità con la quale abbiamo trattato la questione nei paragrafi precedenti, ma per suggerire alcuni spunti che potrebbero fornire buone occasioni per filosofare insieme alla classe. In particolare, la nostra attenzione cadrà sulle riflessioni musicali di Adorno e Bloch, in quanto rappresentanti di posizioni sostanzialmente antitetiche.
La nota analisi critica che Theodor Wiesengrund Adorno conduce verso la cultura moderna – dal celebre Dialettica dell’illuminismo alla postuma Teoria estetica passando per la Filosofia della musica – si presta ad aprire un ampio confronto con gli studenti sul senso delle loro/nostre scelte musicali, per l’alto tasso di provocazione che in essa è contenuto. «Divertirsi significa essere d’accordo». L’aspetto fondamentale della società neocapitalista è infatti per Adorno la creazione di un gigantesco apparato industriale applicato alla cultura, ma utilizzato come strumento di manipolazione delle coscienze. I mass media dunque non trasmettono ideologia, ma sono ideologia. E come aveva già denunciato Nietzsche nella sua svolta antiwagneriana, la musica è la nuova droga atta a stordire la coscienza delle masse. L’unica possibilità rivoluzionaria rimasta connessa alla musica – possibilità cioè di liberare le coscienze della loro alienazione – è insita nelle provocazioni culturali delle avanguardie storiche del Novecento, prima tra tutte la Scuola dodecafonica creata da Schönberg.
« Ciò accade perché i suoi capolavori, che sono fondati sulle “dissonanze” e sulla rottura dei canoni classici della bellezza come armonia e perfezione, hanno la capacità di rappresentare tutta la disarmonia e lacerazione del nostro mondo, e di far nascere la conseguente “nostalgia” per una realtà armonica e conciliata. » (G. Fornero, Storia della filosofia. La filosofia contemporanea)
In poche parole, la “musica seria” non può più permettersi di essere piacevole.
Al di là della forse datata rigidità dei modelli ideologici di riferimento, questa celebre pagina del pensiero filosofico contemporaneo conserva il pregio di toccare un nervo scoperto del nostro tempo, e cioè il rapporto tra musica e potere. Senza cadere nelle facili considerazioni sull’uso propagandistico che i regimi possono fare dell’arte e della musica in particolare, è pur sempre opportuno riflettere seriamente sull’insegnamento della Scuola di Francoforte, secondo la quale (da Horkheimer ad Adorno a Fromm) il vero potere moderno è un fenomeno che concerne l’adattamento della coscienza e del gusto e la conseguente perdita di ogni elementare principio di identità. Come scrive ancora Adorno, l’imperativo categorico della società di massa è diventato:
« devi adattarti, senza specificare a che cosa; adattarti a ciò che immediatamente è, ed a ciò che, senza riflessione tua, come riflesso della potenza e onnipresenza dell’esistente, costituisce la mentalità comune. Tramite l’ideologia dell’industria culturale, l’adattamento prende il posto della coscienza.»
Sul lato opposto si colloca la filosofia della speranza di Ernst Bloch. Sarebbe arduo qui proporre una sintesi adeguata del pensiero blochiano; ci limiteremo a ricordare almeno il suo nucleo fondante, basato su una radicalizzazione escatologica della concezione marxiana della storia come redenzione. Secondo questa visione, l’uomo odierno non sarebbe complice della propria alienazione (come sostiene il modello francofortese) ma semplicemente relegato in una condizione di oscurità, e spinto ad uscirne dalla più umana di tutte le emozioni: la speranza. Nell’umanità è insito un sogno (il “sogno della cosa” di cui parla Marx intendendo la società disalienata) di cui essa deve solo prendere coscienza per poterla possedere. Coerentemente con questa ipotesi, l’esperienza dell’ascolto si fa viaggio verso il centro di se stessi, epifania della forza liberatoria dell’attimo. L’oscurità in cui è immersa la condizione umana ha il proprio momento di riscatto nell’esperienza impalpabile dell’attimo, quella dimensione temporale del vissuto (Erlebnis) in cui passato e futuro non sono, e ogni esperienza è quindi possibile. Questa possibilità è la “fessura” che dall’inautenticità del presente ci può condurre al non ancora vissuto, al nuovo. La musica, l’arte più lieve ed astratta, è dunque la luce che può illuminare, come oggetto di meraviglia e stupore, questa fessura.
La dimensione musicale a cui Bloch fa riferimento è quella comunemente detta “classica”, che come si sa è una semplificazione terminologica sotto la quale si suole raccogliere tutta la storia della produzione musicale colta. Egli guarda, in particolare, ad autori come Beethoven e Gustav Mahler, entrambi i quali incarnano l’insoddisfazione per il presente e l’ansia per il nuovo. O come Kurt Weil (l’autore musicale di Brecht) e Stravinskij (soprattutto quello dell’Histoire du soldat).
L’impostazione filosofica blochiana e le sue indicazioni critiche potrebbero permettere di affrontare con chiarezza quella dimensione, a nostro parere assai viva nella psicologia adolescenziale odierna, dell’ascolto come veicolo di astrazione dal sé, non più però inteso come perdita (Adorno) ma come riconquista di energia utopica e creativa.
05 maggio 2021
DELLO STESSO AUTORE
Sull'utilità e il danno della Storia (della filosofia)
SULLO STESSO TEMA
Costantino Esposito, Ha senso studiare filosofia all'Università? Analitici e continentali a Lugano
Giulia Bertotto, La giornata mondiale della filosofia
Giuseppe Comerci, Sull'effettiva utilità della filosofia