"Amaro e noia/la vita, altro mai nulla" scriveva il poeta. Il sospetto che in parole simili sia racchiusa la più dura verità perseguita, da sempre, l'uomo. Proviamo ad osservare, con lo sguardo della filosofia "il peggiore dei casi possibili".
di Pasquale Noschese
L’uomo è l’unico animale in grado di concepire la propria esistenza come condanna. In un modo o nell’altro, il rifiuto della vita è sbocciato indipendentemente in culture diverse, consolidandosi in diverse declinazioni. Lungi dal cristallizzarsi in un concetto universale, lungi dal costituire un chiaro tracciato per lo sviluppo di una qualsiasi civiltà, l’idea della condanna non si è manifestata all’umanità come idea, bensì come spettro. Spettro sfuggente, che afferra senza essere afferrato, che guarda l’animo d’ognuno nel più profondo silenzio, laddove la parola lo renderebbe meno terrificante, permetterebbe all’uomo di catturarlo in un libro, in una formula, in un sistema. Nel racconto “il trionfo della notte”, la Wharton narra l’esperienza di un giovane, George Faxon, il quale durante una cena a casa di ospiti scorge un uomo che nessun altro sembra vedere. L’uomo fissa Faxon senza proferire parola, e l’autrice edifica il terrore su questo silenzioso rapporto: l’uomo consapevole di una figura inafferrabile, laddove inafferrabilità e ineffabilità si compenetrano. Non si tratta della morte, della mancanza di senso, dell’insignificanza, del dolore, del fallimento, né di alcun altro male particolare, quanto piuttosto del sostrato che partecipa di ogni male e di ogni paura senza mai manifestarsi. La radice dell’angoscia kierkegaardiana, che è diversa dalla paura in quanto priva di oggetto: questa è l’essenza dello spettro della condanna, della svalutazione di tutti i valori. L’uomo ha creduto di poter fugare quello spettro costruendo cornici di senso che relegassero la contraddizione in una dimensione transeunte, passeggera, illusoria. Dolore e morte sono neutralizzati nel momento in cui acquistano un ruolo definito entro un sistema univoco, nel quale restano fermi in un ruolo; in particolare, per risultare sopportabile, il dolore è stato reinterpretato come contingenza. Concettualizzare una realtà come contingente significa negare ad essa l’attestato di realtà prima, di bruto fatto, di fondamentale; e ciò a sua volta significa inserirlo nella catena delle cause. Il dolore non è causa sui, non è un principio; ogni sua manifestazione particolare ha il proprio nucleo in un fatto, non in un dato. Ad essere negato è il rapporto ci co-originarietà tra dolore e vita; il dubbio esistenziale iperbolico della coincidenza tra vita e condanna viene nascosto. Lo spettro viene cacciato negando la sua esistenza: ogni dolore è un dolore particolare, la particolarità è la natura stessa del dolore. Il dolore è un effetto, è sottoprodotto incidentale di un libero divenire, per cui compito dell’uomo cambia: non più convivere con questo spettro dalle tinte nichilistiche (anche questo termine è inadatto) ma cercare la causa del dolore, inseguirla, braccarla, far tornare il dolore al non-dolore che lo precedeva. L’uomo si getta quindi in un’attività inquisitoria, e quanto più grande, per un motivo o per un altro, sarà l’intensità del dolore che prova, tanto più feroce e insaziabile sarà la caccia, tanto più il fanatismo pervaderà quest’uomo trasformatosi in instancabile alfiere di una battaglia che avverte come reale. Come l’enigmatico animale del racconto di Kafka “la tana”, che spende la propria vita a costruire e ricostruire il proprio rifugio per difendersi da nemici invisibili, mai nominati nella narrazione, l’uomo si dedica senza posa alla costruzione di sistemi politici, filosofici, religiosi che eliminino quel residuo di dolore che inevitabilmente si ripropone. Cavaliere della virtù di hegeliana memoria, pone il mondo sul letto di Procuste e non accetta il fallimento: uccide capri espiatori, distrugge totem di divinità manchevoli, cerca untori. La causa del dolore può essere trovata nell’apparenza, nell’errore, nella libera scelta di un uomo: ovunque, purché non sia nella vita stessa. Come in un caso di scissione freudiana, l’uomo, per tutelare il proprio orizzonte di senso, separa il dolore e la vita, e pone un abisso tra i due; in questo modo, almeno nel proprio mondo interiore, può godere della vita senza lasciar spazio al dolore. Il concetto stesso di “senso” corrisponde quasi ad un prezzo da pagare per scacciare il dolore dalla casa della vita; a quel punto poco importa se l’individuo incontrerà il dolore nel proprio cammino: quell’incontro esiste come evento, e in questa veste non fa così male. Come sempre, un meccanismo si vede meglio quando incarnato nei propri esempi più estremi. Ken Hillman, Professore di terapia intensiva all’Università del Nuovo Galles del Sud (Australia), spiega come, con l’avanzare della sua carriera da medico, ha potuto notare un grande cambiamento: se in passato (in un’epoca più religiosa?) era possibile scrivere “vecchiaia” come causa di morte, adesso (in un’epoca più secolarizzata?) è necessario scrivere una causa precisa, legata alla pratica medica. La morte come dato va negata: al suo posto si parla della morte come effetto, inscrivendola in un contesto di significato che la espella dalla necessità, che la confini nella contingenza, laddove la nostra azione conta qualcosa.
Non esiste, però, un ordine in questo caos, né tantomeno un ordine del caos. Diverse sono le soluzioni che l’uomo può adottare, né ha alcun senso forzare una suggestione, una riflessione estemporanea, in una pretenziosa impresa di sistematizzazione omnicomprensiva. Spicca tra le vie di fuga, per ragioni di pura vicinanza culturale, quella escatologica. L’escatologia, a detta di molti, è figlia dell’Occidente. Si prendano per buone le parole autorevoli di Salvatore Natoli, che apre il suo libro “il fine della politica” sentenziando: «l’escathon è un’idea giudaica [corsivo nostro] che, attraverso il Cristianesimo e i suoi vari riadattamenti, segna per intero la storia dell’Occidente dal Medioevo alla Modernità». L’escatologia rientra a pieno titolo nel discorso che si vuol fare perché il suo presupposto è la collocazione del dolore in una ben precisa forma di contingenza, quella storica, a sua volta riciclata come componente antagonistica di una filosofia della storia. Lo spettro è fugato in tal maniera: ogni dolore, lungi dall’esser connaturato all’essenza stessa della vita, che può dunque esser dono e non condanna, è prodotto di un evento storico che ha destituito l’uomo da se stesso; alla spiegazione segue (non sempre, va detto) la promessa di una riconciliazione. Esiste un peccato originale, o una condizione alienata frutto di determinate condizioni storiche (non si pensi solo al pensiero socialista ma anche a Rousseau), che fungono da condizione di possibilità per una sistematizzazione del dolore che ne scacci la sostanzialità, che allontani lo spettro. L’escatologia non funge in sé, nella sua determinazione complessiva, da esorcismo esistenziale: differenti sono i compiti che svolge o ha svolto, differenti i motivi per cui la sua forma si è dimostrata funzionale ed è sopravvissuta. Non ha senso affannarsi all’inseguimento di una semplicistica relazione causale: è in generale un’impresa che difficilmente è compatibile con la materia storica. L’escatologia tuttavia incuba ed esalta il concetto chiave dell’esorcismo esistenziale: offre la visione della beatitudine come una possibilità concreta, con una collocazione concreta nel futuro o anche nel passato o addirittura, con un decadimento laterale, nel presente stesso. Il santo, con la sua santità, irradia di senso la vita di ognuno, dal peccatore di strada al monarca o al tiranno; egli vive anche per conto degli altri, nella misura in cui nella sua persona la filosofia si fa vita concreta per adempiere al compito di mostrare l’emancipazione dal dolore, che si contrabbanda come condizione “realissima” della vita. Si dice che Diogene di Sinope, per confutare la negazione eleatica del moto, si mise a camminare: simile è il lavoro del santo. Queste personalità traboccanti di senso donano a chiunque ne abbia bisogno la possibilità di guardare alla sofferenza come contingenza, come seccatura e magari anche come scelta: è nella possibilità dell’uomo affrancarsi dalla sofferenza; non dedicarsi al perseguimento di tale affrancamento è scelta del singolo. Tutti gli individui sono padroni assoluti della propria esistenza: non trovano ciò nella realtà della propria biografia, ma nel chiuso della propria mente possono tirare un sospiro di sollievo e godere dell’orizzonte di salvezza. Le santità mancate, i grandi rifiuti di eco dantesca, non sono poi confutazioni ma solo pagine di una casistica spiacevole: non serve che il cammino verso la beatitudine sia semplice, basta che sia possibile.
È giusto ribadire che non esiste alcunché di tutto ciò nell’escatologia di per sé: si tratta di corollari, di lateralità che, come la storia insegna, hanno avuto gioco facile a svilupparsi entro un orizzonte di senso come quello escatologico. Il pensiero non è molto diverso da un ecosistema, e talvolta viene da pensare che segua percorsi formalmente non troppo diversi da quelli della biologia darwiniana. Date certe condizioni, anche in assenza di personalità di cesura (“cosmico-storiche” direbbe qualcuno), è razionale pensare, sebbene difficile predire, che si sviluppino determinati costumi di pensiero, che poi sono ipostatizzazioni del medesimo ecosistema, che conferiscano vita e senso. Con l’abbassamento dell’orizzonte delle aspettative e la secolarizzazione del mondo Occidentale, la società si trova proiettata in un mondo post-escatologico, intorpidita dal realismo capitalista fischeriano. Tuttavia, proprio per la struttura non strettamente discorsiva del pensiero, per la forma ecosistemica, più che banalmente sistematica, della cultura, il nucleo teorico che rende possibile l’esorcismo esistenziale è rimasto, sebbene sbiadito. Ad incarnarlo sono i beati del nostro tempo, che incarnano la nostra filosofia edonistica e (scialbamente) libertina: i guru del web, le stelle dello spettacolo, i rapper fattisi profeti, o meglio cronachisti, di una terra del latte e del miele in versione consumistica, di un Parnaso a tinte paninaresche. Novelli santi, questi personaggi amministrano in forma quasi burocratica la propria funzione sociale di stampo prometeico: portare il senso agli uomini, esorcizzare per loro le tenebre grazie alle meraviglie di un mondo proibito, inaccessibile. Come per i più pacati predecessori, sono all’estremo di una relazione complessa ma fermamente verticale. Sboccia un nuovo ideale ascetico di nietzschiana memoria: la vita del gregge è mortificata in quanto suggerita, quando non declamata, come fasulla, inautentica, indegna; a suo paragone svetta la vita “vera”, quella di cui si può davvero esclamare la celeberrima sentenza “questa sì che è vita!”. Sembrerebbe un rapporto culturale parassitario, la mera controparte sovrastrutturale, in salsa trionfalistica, di una società diseguale. In verità, come accennato, il servizio offerto dalla santità sopravvive perché è un servizio sociale: tenere accesa la fiaccola della beatitudine, di cui sono solo portatori; tenere alta l’immagine del Paradiso, di cui sono solo custodi. Permettono alla controparte di partecipare della beatitudine nel momento in cui partecipano della sua possibilità concreta, incarnata, evidente, innegabile, lapalissiana. Santi di santità riflessa, buddha di secondo grado, i “comuni mortali” non hanno alcun interesse ad indagare le polverose stanze interiori dei propri eroi, non hanno alcun interesse a mettere in dubbio la loro attestazione di euforia. La beatitudine è possibile, punto. Chi osa negarlo, diffidando dal racconto ufficiale delle ultime dal cielo, è tacciato di invidia e di anacronismo, è trattato da miscredente. Stupirsi davanti a come l’ostentazione della vita privata dei santi moderni consista in ormai tre quarti del loro ruolo, non comprende l’offerta che costoro propongono. L’agiografia è l’essenza del santo. Non quel preciso atto, non quella certa preghiera, non quel particolare insegnamento: l’agiografia è l’essenza del santo.
In queste contrade siamo incappati mentre fuggivamo da quello spettro silenzioso. “Ricordati che devi fallire” è l’ammonimento, la minaccia che pare essersi perduta nella confusione orgiastica della civilizzazione. L’accidentalizzazione del dolore, è bene ripeterlo, non è una strategia di fuga dal dolore in quanto tale, quanto piuttosto dal rischio mai estinto che la valutazione corretta da dare al fenomeno-vita in quanto tale sia una valutazione genericamente negativa, di condanna. L’uomo ha ipostaticamente prodotto un minoico Tribunale del Senso, dinanzi dell’accusa del quale si difende con una serie di armi frettolosamente forgiate nel gran trambusto della Storia, non da ultimo l’alibi del Santo, con le sue mortificanti controindicazioni. Tuttavia, anziché aggiungere giudizio a giudizio, stavolta sentenziando sull’efficacia dell’arringa umana, è forse più interessante notare come spesso, l’Uomo, a furia di strepitare di filosofia e di Filosofi, finisce per convincersi che questi personaggi esistano davvero. Una barba incolta, un paio di nomi perlopiù ellenici o germanici e l’inganno è servito: l’Uomo dimentica di essere, volente o nolente, essenzialmente anch’egli filosofo, preferendo proiettare una grottesca parata di Maestri, spettacolo orribilmente deformato dalla falsa convinzione di non risiedere in alcuna metafisica. Si neghi dunque tale mendacia, e con differenti occhi si legga la stoccata di Wittgenstein, che nei suoi “Pensieri diversi” sbotta: «Spesso i filosofi sono come bambini piccoli che prima scarabocchiano con la matita su di un foglio di carta dei segni qualsiasi e poi chiedono all’adulto: “Che cos’è?”». Le inavvedutezze dei filosofi sono le tragedie degli uomini. La formula della liberazione non sta nel giusto oggetto da sacrificare, non nel giusto rito da officiare, ma nel decostruire la base, anch’essa ectoplasmatica ma pur reale, dello spettro che ci perseguita e del dubbio che rappresenta. Non decantare (decantarci) la bellezza della vita, la veracità delle sue virtù, nella tremolante speranza che il cantare sovrasti il piangere: collocarsi invece, quieti, nell’asettico ambito della neutralità, nel tiepido regno del fatto. Vita, morte, finitezza, infinito: sono fatti, non sono né belli né brutti; attribuirvi dei valori o dei disvalori intrinseci è metafisica. La pluralità delle vie di fuga imboccate dalle culture dovrebbe già da sola far sospettare la mente accorta che ogni prodotto valoriale di tal fatta è fallace: talvolta la vita è condanna e prova in vista di qualcosa di migliore, talvolta è apice del vigore e del godimento; talvolta l’individualità è il dono più prezioso, talvolta la beatitudine è liberarsene; talvolta la vita infinita si ritrova come condanna nelle mitologie, in altri miti è invece perseguita ad ogni costo; talvolta per fortuna il mondo si trasfigurerà, talvolta per fortuna rimarrà ciclicamente uguale… A furia di modellare i fatti a forma di valori, l’Uomo si è ammalato di schizofrenia; un incontro tra i saggi rischia di essere una carneficina di rabbiosi schiumanti. Anziché le mille campane degli iperurani di tutto il mondo, può giovare l’ascolto del secco colpire del martello di Nietzsche: «Giudizi, giudizi di valore sulla vita, in favore o a sfavore, in ultima analisi non possono mai essere veri; hanno valore soltanto come sintomi, soltanto come sintomi vengono presi in considerazione- in sé tali giudizi sono delle sciocchezze» (Il crepuscolo degli idoli); e ancora: «Una condanna della vita da parte di un vivente finisce per restare, insomma, nient’altro che il sintomo di una determinata specie di vita: con ciò non si solleva affatto la questione se tale condanna sia giusta o no» (ibidem). Il sospetto, irrazionalmente fondato, ispirato da quella presenza spettrale, non è falso: è semplicemente mal posto.
La vita non è una condanna, ma nemmeno il suo opposto. Non è né una poesia né una bestemmia, né un orgasmo né una lacrima, né uno scherzo né un esercizio di rigore. La vita è un fatto, un fatto che sta nel mondo, un frammento di fato in questo vasto cosmo. Il resto è gusto.
3 maggio 2021