Oggi, per la rubrica Verità e storia, abbiamo con noi la Prof.ssa Elettra Stimilli, docente di Filosofia Teoretica all'Università "La Sapienza" di Roma. Tra le sue pubblicazioni, Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico (2004, 2019), Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo (2011), Debito e Colpa (2015). Dal 2013 fa parte del Centre d'Etudes des Juridiques Yan Thomas dell'EHESS di Parigi ed è membro del comitato di direzione della rivista "Filosofia Politica".
Un luogo comune vuole che la storia sia lo studio degli avvenimenti passati, più precisamente degli atti compiuti dall’uomo nel procedere delle differenti epoche e civiltà. L’uomo non è però solo il protagonista principale della storia, è anche colui che sviluppa la stessa comprensione storica: è il soggetto umano che si approccia al passato. La dimensione della soggettività è conquista moderna, tematizzata e scandagliata negli ultimi secoli fino all'approdo del postmoderno, nel quale tale dimensione è divenuta totalizzante; al punto di negare il suo polo dialettico: l'oggettività. A che punto siamo oggi? È da ritenersi possibile l'approssimarsi a una conoscenza reale dei fatti accaduti – alla verità – oppure il relativismo dell'interpretazione ha un carattere inemendabile, per cui la condivisione storica ha altre basi da quelle del realismo ingenuo, del senso comune, della tradizione?
Già per Hegel – che pure è stato “l’inventore” della filosofia della storia come “considerazione pensante” del processo storico, in cui reale e razionale si identificano nella forma del Sapere assoluto – la verità dei fatti storici non coincide con la certezza delle scienze empiriche. Nel sapere storico, per Hegel, emerge una verità – Wahrheit – che non è nell’ordine della certezza – Gewissheit. La verità della storia non consiste nell’accertamento degli eventi narrati, ma coincide piuttosto con l’individuazione della fonte di senso di ciò che sembrerebbe insensato. Neppure per Nietzsche, però, che ha affermato senza mezze misure, contro Hegel, che non esistono fatti, le interpretazioni non sono mai semplicemente affermazioni relative, soggettive, condizionate, e dunque non vere.
Il punto piuttosto è che per entrambi – seppure in modo totalmente diverso – la verità in gioco nella storia non può coincidere con la necessità della certezza scientifica. In particolare, per Nietzsche, è in gioco l’individuazione dei molteplici elementi genetici all’origine di ogni singolo fenomeno. Risalire a tale origine è il lavoro della genealogia.
Ecco: credo che la vera sfida, oggi, stia proprio nel riattualizzare la minuziosa impostazione materialista della genealogia nietzscheana, sfuggendo alla deriva postmoderna e alla crisi del pensiero filosofico che ha fatto seguito alla fine delle grandi narrazioni decretata, negli anni Ottanta, da Jean-François Lyotard con il suo famoso libro La condizione postmoderna, simbolo di una certa egemonia culturale della globalizzazione degli anni Novanta.
Che la storia non sia finita e che le grandi narrazioni non siano state interrotte è ormai evidente da tempo. Non solo la globalizzazione non è coincisa con la saturazione dei conflitti che hanno alimentato la storia; ma soprattutto le grandi narrazioni, oggi, sono diventate prerogativa del capitalismo neoliberale di mercato e della sua arte di governo. È cioè la stessa economia politica, quell’economia neoliberale la cui peculiarità consiste nell’aver preso la politica al proprio servizio, a sviluppare narrazioni che – come la stessa globalizzazione, il libero mercato, la concorrenza, la meritocrazia, la crisi economica, il debito – determinano il portato fondamentale della nostra epoca. Credo, allora, che affrontare genealogicamente queste “grandi” narrazioni significhi confrontarsi radicalmente con la loro verità per aprire nuovi spazi di conflitto e differenti ambiti di autonomia politica.
Tendenzialmente la storia, nel porsi come narrazione del procedere dell’umanità, viene posta in contrasto con la natura, intesa come procedere ciclico e relativamente stabile dell’ambiente in cui l’uomo vive. Il progresso storico sarebbe quindi indice di un cambiamento, di una serie di avvenimenti non accomunabili secondo una legge uniforme. La storia è effettivamente uno svilupparsi caotico, non coerente, o vi sono delle leggi che sottendono il suo procedere? Oppure, all’interno di uno svolgersi frammentato e non sistematico, si possono purtuttavia trovare delle costanti? In sintesi: c'è qualcosa che trascende la storia?
Credo che una delle verità rivelate dalla pandemia in corso sia proprio la fine del rapporto tra natura e storia in gioco nella narrazione moderna. Da un lato, proprio a partire dalla nostra recente esperienza, potrebbe sembrare sensato affermare che il Covid 19 non sia altro che l’espressione di uno sviluppo naturale indipendente dalla storia che, trascendendo le sue dinamiche, interagisce con essa sino a sopraffare i suoi agenti. Oppure, si potrebbe pensare alla pandemia come al risultato del fenomeno recentemente definito con l’espressione “Antropocene”, attraverso cui si dilineano gli effetti della storia umana sulla natura. Credo che qui si tratti di qualcosa di completamente differente, che solo oggi emerge con estrema nettezza. In gioco è l’interazione costante tra dinamiche storico-sociali ed elementi naturali, che riguardano la storia umana in quanto storia naturale e la natura in quanto natura storica.
In questo specifico sviluppo, il capitalismo è chiaramente emerso come un regime ecologico, in cui lo sfruttamento e la creazione di valore non avvengono sulla natura, ma attraverso di essa – cioè all’interno delle relazioni storico-naturali. Andare al cuore di queste relazioni sembra dunque essenziale per affrontare l'urgenza dei disastri ambientali, di cui la pandemia in atto non è altro che l’ultima estrema espressione. Perché anche il Covid-19 non può essere affrontato come un fenomeno puramente naturale, privo di relazione con il contesto in cui si è sviluppato. Quella che viviamo, dunque, non è solo una catastrofe naturale o un evento storico. Piuttosto il sintomo più chiaro della storia naturale di cui facciamo parte.
Anche in relazione alla precedente domanda: la storia è magistra vitae, permette di conoscere il passato per agire nel presente, oppure non permette di ottenere insegnamenti validi per il futuro? Per dirla in altri termini: la comprensione di un avvenimento passato è un’azione in sé chiusa e conclusiva, o permette di ottenere una conoscenza che supera quel dato momento e si impone come valida anche successivamente, come possibile guida per l’agire?
La comprensione di un avvenimento passato non è mai soltanto tale. Come dicevamo, ciò che si comprende attraverso la storia non è nell’ordine dell’accertamento dei fatti. Di qui allora la natura peculiare del passato, che non è mai dato una volta per tutte. Credo che il più chiaro e fertile esempio del peculiare dinamismo proprio del passato sia offerto da Walter Benjamin. Per definire il singolare statuto ontologico del passato, nelle Tesi sul concetto di storia, Benjamin ricorre a un’immagine naturale, che credo ci aiuti anche a comprendere il senso della storia naturale poco fa menzionata.
Secondo Benjamin, nel passato permane una vitalità residua, persistente, che lo spinge verso il presente come “per un eliotropismo di natura misteriosa” in forza del quale “tende a rivolgersi verso quel sole che sta per sorgere nel cielo della storia”. “Quel sole”, come è noto, è il socialismo che, secondo Benjamin, incarna l’immanente forza messianica della storia. Non si tratta di una speranza volta al futuro, ma di una forma di redenzione a cui “il passato ha diritto” e a cui è naturalmente volto, perché lo riscatta dalla storia dei vincitori, dalle grandi narrazioni dominanti. Ed è possibile in ogni attimo carico di pericolo; anche in tempi di pandemia, come abbiamo visto con l’abbattimento delle statue indesiderabili del passato, simbolo dello schiavismo e del colonialismo, dopo la recente morte di George Floyd, il 25 maggio 2020.
18 marzo 2021
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