In Giappone si festeggia un evento tradizionale, chiamato Hanami (letteralmente: guardare i fiori), durante il quale tantissimi giapponesi, all’inizio della primavera, si riuniscono nei giardini e nei parchi per ammirare la fioritura dei ciliegi. La sineddoche “fiori” per ciliegi dà l’idea del profondo legame di questo albero con la cultura giapponese.
di Stefano Vernamonti
Questo evento rappresenta sicuramente un’occasione di vacanza, di stacco dalla vita frenetica nipponica, ma cela anche un profondo simbolismo. La fioritura dei ciliegi dura infatti circa una decina di giorni e, nel momento di massima fioritura, questi ultimi lasciano cadere i loro petali, dando luogo a dei suggestivi sentieri rosa. La cultura nipponica, intimamente connessa con una visione del mondo taoista e buddista, celebra con l’hanami la bellezza e la caducità della vita, invitando ad approcciarsi con leggerezza ad un’esistenza perpetuamente immersa nel movimento di creazione e decadenza.
In una di queste primavere, precisamente in quella del 1988, mentre nell’Hokkaido fiorivano i ciliegi, in Italia la Garzanti pubblicava la prima edizione, postuma, delle Lezioni americane di Calvino. A distanza di migliaia di chilometri, con due linguaggi diversi, Calvino e i ciliegi si dedicavano a parlarci della leggerezza: della scrittura con Calvino, leggerezza dell’esistenza con i ciliegi . Ad avviso di chi scrive (supportato da ben più autorevoli fonti) tuttavia, non si tratta davvero di due leggerezze, ma della stessa osservata da due angolazioni differenti. Per dimostrarlo, si cercheranno di compiere due operazioni di avvicinamento: da una parte provare ad intendere la lezione di Calvino non solo come leggerezza della scrittura ma come modus vivendi; dall’altra cercare proprio nella letteratura il ciliegio e il suo simbolismo.
La leggerezza intesa come modus vivendi è un passaggio molto naturale, se si legge la sua lezione dedicata. Il rapporto della scrittura leggera con il mondo è infatti prima di tutto, come inteso da Calvino, il rapporto del poeta con il mondo, del poeta alla ricerca della leggerezza contro l’opacità e il caos del vivere, di quel poeta capace di racchiudere immense cosmologie, saghe ed epopee nelle dimensioni di un epigramma. Quello del poeta col mondo è però un rapporto di non facile spiegazione. Un tentativo di chiarificazione asintotico, si potrebbe definire, viene intrapreso da Calvino attraverso il mito di Perseo e Medusa. Asintotico non solo per la sua componente analogica tra mito e realtà (che quindi non sono mai pienamente sovrapponibili), ma anche perché, come ammonisce Calvino stesso, ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca.
Fatta questa doverosa premessa, è interessante riprendere alcune delle indicazioni che proprio Calvino suggerisce a questo riguardo. Perseo è figlio di Danae e di Zeus. Quest’ultimo, vale la pena ricordarlo, per raggiungere Danae rinchiusa in una torre si tramuta in una pioggia dorata: c’è una leggerezza impalpabile in questa trasformazione di Zeus. La grande impresa di Perseo è nota: il re Polidette, nel tentativo di sbarazzarsi dell’eroe, gli chiede come dono di nozze la testa di Medusa. Perseo, per tagliare la testa della Gorgone, non può però guardarla direttamente. Per non lasciarsi pietrificare dal suo sguardo, sceglie di guardare il riflesso del mostro nello scudo di bronzo. Spinge il suo sguardo solo su ciò che una visione indiretta gli può rivelare. Nello stesso modo, una volta tagliata la sua testa, riesce a padroneggiare quest’ultima solo tenendola nascosta. Di nuovo, Perseo non rifiuta la realtà della Gorgone, ma solo la sua visione diretta.
Calvino, molto suggestivamente, si prende in parola dopo aver narrato la storia di Perseo: seguendo le sue stesse indicazioni sulla leggerezza, pur non ricavando delle indicazioni dirette, pietrificanti, dal mito, ciò nonostante le suggerisce al lettore, le mette a sua disposizione, posate in un angolo della pagina e quasi dimenticate. Perché se è vero che non bisogna abbandonarsi a facili sillogismi, è altrettanto vero che Calvino sente il bisogno di “volare come Perseo”, di cambiare l’approccio con il quale guarda il mondo nel momento in cui il regno dell’umano sembra condannato alla pesantezza. Ecco dunque la leggerezza come modus vivendi, la sua ricerca come reazione al peso di vivere senza per questo abbandonarsi ad un puro caso, ad una negazione del peso del mondo-Gorgone. Un’altra utile analogia, come quella di Perseo ma certamente molto meno eroica, è forse possibile rintracciarla nel protagonista della straordinaria novella Il treno ha fischiato di Pirandello: Belluca, il granitico impiegato che, levandosi ogni tanto dal suo tormento, prende con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo.
Cosa si potrebbe dire, invece, a proposito dei ciliegi nella letteratura? Gli esempi non sono numerosissimi, ma uno in particolare richiama l’attenzione: si tratta del lavoro teatrale Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov. I personaggi di questa meravigliosa piéce teatrale, allo stesso modo di Perseo e di Belluca, non rifiutano il mondo, quel mondo radicalmente in cambiamento che fa da sfondo alla piéce: la prepotente affermazione della nuova classe borghese sull’ancora rurale, arretrata, società russa. La trama dell’opera si snoda infatti attorno alla possibilità di trasformare in una fonte di rendita il giardino dei ciliegi, abbattendolo e costruendovi sopra delle case per i futuri villeggianti. In questo concreto scorcio di esistenza che Čechov registra, la realtà viene esperita dai personaggi attraverso un punto di vista quasi indiretto, che inevitabilmente attutisce, alleggerisce si potrebbe dire, le tragicità individuali e collettive. È infatti maggio, i ciliegi sono in fiore e con loro anche gli amori, le nostalgie e gli affetti familiari che, prendendo posto nelle venature della prosaica realtà, conferiscono a quest’ultima sì tutta la sua gravità ma anche, allo stesso tempo, la sua leggerezza. Ogni essere umano sa bene quanto spesso l’amore dia la misura del mondo: ed è proprio quello che succede nel giardino dei ciliegi. Varia, per citare solo un esempio, avverte come tutti la gravità della situazione economica, ma in molte scene i suoi sentimenti per Lopachin sono totalizzanti e non lasciano spazio per nessun’altra preoccupazione.
È forse proprio per questo che Giorgio Strehler, regista e attore teatrale, nei suoi appunti per la messa in scena dell’opera sostiene che una rappresentazione “giusta” de Il giardino dei ciliegi sia quella che lasci intravedere ora «il moto di un cuore o di una mano, ora facendoci balenare davanti agli occhi la storia, ora ponendoci una domanda sul destino di questa nostra umanità». Questa è la grande funzione che il giardino svolge nell’opera, sempre secondo Strehler: punto di coagulazione delle vicende dell’uomo e dell’umanità, capace di evocare i teneri ricordi di Liuba ma sul quale si abbatte anche la pesante scure della storia, oltre che quella reale: nell’ultima scena, si ode infatti il rumore di un ciliegio colpito con violenza per essere abbattuto. Alberto Asor Rosa, critico letterario, in un passaggio di un articolo dedicato in realtà alle Lezioni americane di Calvino, riesce ad illuminare questo aspetto della narrazione cechoviana: «la ricerca della leggerezza è, sì, reazione al peso del vivere, ma anche, e forse più profondamente, reazione al peso del morire, reazione al peso del continuo morire, di cui tutti noi siamo fatti». Vale la pena ricordare che questo articolo si intitola, suggestivamente, Se un albero potesse parlare.
Due osservazioni conclusive. Gli alberi forse non parlano, ma certamente insegnano. Come scrive Chandra Candiani, insegnano a non sapere, a tollerare di stare al mondo senza l’ossessione di capire. Sicuramente non comunicano con le parole ma, in fin dei conti, la comunicazione verbale non aggiungerebbe nulla a quanto riescono a trasmettere senza le parole, perché non è possibile definire con precisione la leggerezza. Soprattutto se teniamo fede, un’ultima volta, a quanto dice Calvino a questo proposito: la necessità della leggerezza è un dispositivo antropologico di risposta alle nostre privazioni e alle nostre sofferenze. Se ognuno di noi ha le proprie uniche, e forse incomunicabili, sofferenze, forse altrettanto uniche ed incomunicabili saranno le nostre leggerezze.
Per questo motivo, forse, cantare della leggerezza è più efficace che scriverne. Max Gazzè, ad esempio, ha scelto di cantarla proprio attraverso i ciliegi. Nella canzone Su un ciliegio esterno Max ci racconta infatti la storia di Gianni Sergente il quale, proprio come il Belluca di Pirandello, va alla ricerca di un nascondiglio dal grigiore e dalla ripetitività del suo lavoro. E così, ogni ventisette del mese, trova questo nascondiglio su un albero di ciliegio. Preso il suo stipendio, Gianni «s'aggiusta il sorriso, sguscia via dall'ufficio e corre a più non posso verso il primo bar: buonasera signora volevo duemila liquirizie da portare su un ciliegio esterno».
Poco importa cosa pensino gli altri. Dei bastoncini di liquirizia, le poesie di Mallarmé e un ciliegio esterno sono gli ingredienti della sua, personalissima, leggerezza. Qualsivoglia spiegazione aggiunta dentro questa canzone avrebbe inevitabilmente appesantito il gesto di Gianni, il quale invece è pieno di significato proprio perché non ha avuto la pretesa di darsi delle ragioni.
Chissà se il Gianni Sergente di Gazzè e il barone rampante di Calvino possono essere accostati. Al lettore l’ardua sentenza. Per quel che può valere, chi scrive ha scoperto un po’ di leggerezza nel camminare controsole senza sentire il bisogno di indossare degli occhiali e facendo alcuni passi ad occhi chiusi, fiducioso nel fatto che con il passo successivo avrebbe comunque trovato il mondo ad aspettarlo e sorreggerlo.
22 novembre 2021