Pregiudizi, stereotipi, generalizzazioni, luoghi comuni, cliché, ecc. sono da considerare ostacoli alla costruzione di ragionamenti rigorosi, coerenti e validi; ostacoli che, abbracciando una prospettiva un po’ più ampia, risultano cruciali per l’edificazione stessa del bene.
“Pregiudizio”, “stereotipo” e “generalizzazione” sono termini i cui rispettivi significati nel dizionario della lingua italiana Devoto-Oli vengono così riportati: «opinione preconcetta, capace di fare assumere atteggiamenti ingiusti, spec. nell’ambito del giudizio o dei rapporti sociali»; «in psicologia, qualsiasi opinione rigidamente precostituita e generalizzata, cioè non acquisita sulla base di un’esperienza diretta e che prescinde dalla valutazione dei singoli casi, su persone o gruppi sociali»; «applicazione estesa, spesso arbitrariamente, alla maggior parte o alla totalità dei casi». Analizzando il significato del termine “pregiudizio”, per esempio, ci ritroviamo dinanzi all’espressione “opinione preconcetta”, ossia – sempre facendo ricorso a un buon dizionario della lingua italiana – «l’interpretazione di un fatto o la formulazione di un giudizio in corrispondenza di un criterio soggettivo e personale» e, nel caso del relativo aggettivo, «di quanto rispecchia una presa di posizione eccessivamente affrettata e spesso priva di qualsiasi fondamento oggettivo»; continuando la nostra analisi, è importante soffermarsi, da un lato, sul “criterio soggettivo e personale” e, dall’altro, sulla “presa di posizione affrettata e spesso priva di qualsiasi fondamento oggettivo”. I due elementi in questione, infatti, rimandano a un soggetto, che formula criteri personali e, sulla base dei quali, costruisce posizioni quasi impulsive e, generalmente, del tutto svincolate da un fondamento oggettivo, vale a dire da necessarie e inconfutabili risposte empiriche. Il punto di congiunzione dei predetti elementi, pertanto, è individuabile nell’assenza di informazioni e di dati corroborati da un’esperienza significativamente diretta, ripetuta, prolungata e, dunque, altamente attendibile. Aprendo una (indispensabile) piccola parentesi, per chi ha un po’ di dimestichezza con la logica non sarà affatto difficile cogliere l’inferenza che si produce nel derivare una legge generale dall’osservazione ripetuta di un particolare fenomeno oggetto di indagine. Posta l’inferenza in questione, inevitabilmente ci ritroviamo a gestire un delicato processo di induzione; tale processo, di cui si serve, anche e soprattutto, la scienza, presenta un problema che ha occupato il tempo e le riflessioni dei più gradi filosofi e logici del passato: il problema dell’assoluta oggettività della legge ricavata (il celebre universale ricavato dal particolare). Ecco perché è sempre preferibile, in relazione agli esiti di un processo induttivo, essere prudenti, considerandoli sempre e solamente “altamente attendibili” e non inconfutabilmente o assolutamente certi. Il rischio che si corre, altrimenti, è quello di fare la fine del tacchino di cui ci riferisce molto bene il filosofo Bertrand Russell.
« Fin dal primo giorno questo tacchino osservò che, nell'allevamento in cui era stato portato, gli veniva dato il cibo alle 9 del mattino. E da buon induttivista non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle sue osservazioni e ne eseguì altre in una vasta gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi, sia che piovesse sia che splendesse il sole. Così arricchiva ogni giorno il suo elenco di una proposizione osservativa in condizioni più disparate. Finché la sua coscienza induttivista non fu soddisfatta ed elaborò un'inferenza induttiva come questa: "Mi danno sempre il cibo alle 9 del mattino". Questa concezione si rivelò incontestabilmente falsa alla vigilia di Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato. » (Bertrand Russell, I problemi della filosofia)
Giusto per evitare una fine così ingloriosa, è meglio non fare troppo affidamento su ragionamenti costruiti su pregiudizi, spesso mascherati da discutibilissimi processi induttivi. Nel caso dei pregiudizi, poi, è di fondamentale importanza riconoscere gli “atteggiamenti ingiusti nell’ambito dei rapporti sociali” che inesorabilmente ne conseguono. Senza citare episodi specifici, la storia è piena di pagine vergognose scritte all’insegna del pregiudizio. Le discriminazioni, non di rado, sono dietro l’angolo, giacché necessitano, almeno inizialmente, di pregiudizi quali fattori decisivi per poter operare la consequenziale e relativa distinzione. Anche in questo caso ci viene in soccorso il dizionario che, per l’appunto, alla voce “discriminazione” riporta: «distinzione operata in seguito a un giudizio o ad una classificazione», ma anche «posizione o attività politica, sociale e culturale, tendente a ghettizzare gruppi o individui per la loro diversità rispetto a determinati modelli considerati normali». Quando il “giudizio” è, in realtà, “pregiudizio” e il “modello normale” (il concetto di normalità, di per sé, dovrebbe implicare la differenza e la sua accettazione, visto che la realtà è in divenire), cui si rifà una determinata posizione politica, sociale e culturale, ecc., è frutto di un pregiudizio, la discriminazione, puntualmente, si concretizza, con tutti gli effetti funesti del caso. Joseph Goebbels, per esempio, Ministro della Propaganda del regime nazionalsocialista, pienamente consapevole della forza e del potenziale dei pregiudizi, tra le diverse tattiche di manipolazione cui faceva ricorso, si servì anche del cosiddetto “principio della trasfusione”, che consisteva, precisamente, nel ricorso ai suddetti elementi, facendo leva sul fattore “viscerale” e, quindi, lavorando abilmente sulle emozioni più primordiali delle masse, al fine attuare la politica del regime. Non di diversa natura è lo stereotipo, che domina quasi incontrastato anche il nostro tempo, significativamente supportato dall’uso distorto dei social network che alcuni fanno o per mera ignoranza o perché funzionale ad altro. Procedendo ad analizzare il significato, scopriamo che si tratta di “qualsiasi opinione rigidamente precostituita e generalizzata” che, in quanto tale, prescinde da una valutazione del dato empirico. Possiamo affermare, così, che la verità è totalmente figlia della “pancia” o, a voler essere meno volgari, della vecchia anima concupiscibile platonica. Senza entrare nel merito, è ben noto il significato che Platone attribuisce, nel mito della biga alata, al cavallo nero. Il danno maggiore, anche in questo caso, deriverebbe dal fare a meno delle risposte empiriche e procedere, alla cieca, sia su un piano teorico che su un piano pratico.
Gli stereotipi, a differenza dei pregiudizi, a cui sono, comunque, legati, registrano resistenza e durata maggiori e, inoltre, proprio per tale ragione, è facile che si tramandino di generazione in generazione. Non è affatto errato affermare che gli stereotipi rappresentano la linfa vitale dei pregiudizi. I tedeschi sono sinonimo rigore ed efficienza; gli italiani, invece, sono mangiatori di spaghetti e mafiosi; i francesi antipatici e presuntuosi; gli inglesi, dal canto loro, freddi e superbi, ecc. Esempi di stereotipi del genere accompagnano le nostre vite e, quasi sicuramente, accompagneranno anche quelle delle prossime generazioni. Ma basterebbe chiedersi quanti e quali tedeschi, italiani, inglesi, ecc. abbiamo effettivamente conosciuto per comprovare la validità di queste affermazioni. Se la risposta empirica, neanche in questo caso – com’è scontato che sia – contempla la totalità dei casi, allora lo stereotipo è destinato a evaporare velocemente e la nostra condotta nei confronti dell’altro sarà sicuramente tanto più realistica quanto più virtuosa. Argomentare attraverso la generalizzazione è parimenti fallace e oltremodo rozzo, considerando che anche in questi casi il passaggio, del tutto arbitrario, dal particolare all’universale implica tutte le erronee conseguenze del caso, spesso ignorate da chi si impegna a esporre le proprie ragioni in tal modo. Applicare un criterio valutativo che più ci aggrada, ci interessa o, semplicemente, si rivela più utile, in un preciso momento, per una qualsivoglia nostra analisi, alla totalità dei casi significa andare spediti verso l’ennesimo errore. Di fatto, la conoscenza della “totalità”, per l’uomo, resta, ed è destinata a restare, inconoscibile; in altri termini, per rendere meglio l’idea, è una chimera irraggiungibile. La legge universale che si pretende di costruire attraverso questi procedimenti logici, invero, non è mai effettivamente “universale”, ma rimanda a un altro particolare (numero x, per quanto grande e importante che sia, di casi conosciuti). Di universale, a questo punto, vi è solo una vana e illusoria pretesa, che puntualmente si palesa per quello che effettivamente è, attraverso un’analisi un po’ più accorta e, soprattutto, meno istintiva di ciò che esce fuori dalla nostra bocca o dalle nostre tastiere (in questi casi l’errore è tanto più importante quanto minore è il tempo impiegato per rileggere e riflettere su quanto scritto ed eventualmente condiviso e socializzato).
Un’affermazione accettata comunemente come vera, il cui contenuto risulta facilmente applicabile a un contesto generico, perché molto appetibile alle “pance” dei più è, quasi sempre, destinata a eludere un rigoroso processo critico e analitico, e a riscuotere, quindi, un certo successo presso chi è maggiormente incline al “giogo” degli istinti; tale affermazione, diffondendosi rapidamente tra le masse, diventa, ben presto, “luogo comune”. Ovviamente il terreno fertile e necessario affinché un siffatto prodotto possa attecchire è quello della banalità e della superficialità. Pregiudizi, stereotipi, generalizzazioni, luoghi comuni, cliché, ecc. sono da considerare ostacoli alla costruzione di ragionamenti rigorosi, coerenti e validi, e non potrebbe essere altrimenti; ostacoli, abbracciando una prospettiva un po’ più ampia, all’edificazione stessa del bene, se è vero che il pensiero si traduce, sovente, in azione (chi scrive ne è fermamente convinto). Si tratta di errori in cui facilmente si può incorrere, ma anche preziosi e potenti mezzi di influenza, soprattutto oggigiorno in cui le informazioni che quotidianamente riceviamo sono pressappoco innumerevoli, essendo veicolate, di continuo, attraverso vari canali di comunicazione. La speculazione intorno a questi elementi, da parte di una certa politica, inoltre, è allarmante. Senza entrare nel merito delle varie parti, basta prestare attenzione alle dichiarazioni e ai discorsi, da parte di alcuni esponenti della nostra attuale classe politica, o all’impostazione e al taglio di alcuni articoli, propri, perfino, delle più importati e prestigiose testate giornalistiche, per rendersi conto di come, di quando e di quanto si faccia ricorso a questi elementi in modo da incidere maggiormente sulla mente della gente e, magari, guadagnare o costruire un po’ di agognato sostegno alla relativa causa.
Ecco perché occorre restare vigili, dubitando di ciò che si presenta come “verità immediata” e che, in quanto tale, sulla scia di ciò che maggiormente risponde a certi valori etici o morali del momento, magari subdolamente contornati da nobili intenzioni e sentimenti, pretende, dunque, un atto di fede incondizionata, e cioè la rinuncia all’esercizio del pensiero critico. Affidarsi a pregiudizi, luoghi comuni, stereotipi, generalizzazioni, ecc., difatti, non solo implica la rinuncia all’esercizio del pensiero critico, ma anche la rinuncia alla verità. Continuando il ragionamento, affidarsi a tali elementi vuol dire estromettere, per giunta, la filosofia dalla nostra vita. E se l’uomo, in quanto dotato di ragione, è l’unico essere vivente capace di filosofare, rinunciare a filosofare significa, allora, rinunciare all’esercizio della parte più nobile presente in noi, ossia ciò che gli antichi greci, a buon motivo, definivano “scintilla divina”. Nella storia della filosofia antica, a tal proposito, risulta decisamente marcata la differenza tra dòxa e alétheia e, di certo, alla luce di quel tipo di insegnamento, la strada per la seconda non si interseca in nessuno modo con pregiudizi, stereotipi, generalizzazioni, ecc. e, in generale, con tutto ciò che si arresta alla superficialità.
25 ottobre 2021