« Basta che la pioggia incominci a battere sul tetto, perché non solo la legna disposta nel camino, ma stessa struttura intramontabile della verità {permanente} si presenti con un nuovo senso. Quando sopraggiunge la pioggia, sopraggiunge infatti il legame tra la pioggia e l’intramontabile e in questo legame l’intramontabile si presenta con un nuovo senso diverso da quello che esso presenta in quanto legato all’imminenza della pioggia. » (Emanuele Severino, Destino della necessità)
Dagli albori della filosofia ci si interroga sul problema del divenire, del mutamento, contrapposto a ciò che permane: un esempio, magari, non famoso come quello del fiume di Eraclito, è portato dall’iniziatore della filosofia, Talete, che ricercò, nelle cangianti variazioni del mondo, un principio primo non solo causale, ma anche sostanziale, ossia permanente in tutte le varie determinazioni. Non solo tutto è causato dall’acqua ma, per estensione della causa, ogni cosa è composta da essa. Ogni cosa è, in qualche modo, acqua.
Ovviamente la teoria della sostanza più famosa è quella aristotelica, per la quale ogni cosa è composta da un sostrato sostanziale immutabile, incorruttibile e da accidenti differenti che di volta in volta i “poggiano” su di esso. Questa sostanza, per rimanere immutata in sé e non venire scalfita dagli accidenti, deve essere separata da essi. L’arbitraria separazione dà luogo ad un permanere che non ha legami con ciò che via via si appoggia. Ma allora come è possibile un appoggiarsi?
Un permanere, in un sistema di tempo continuo, è problematico: o ciò che permane non permane mai identico a sé, oppure è separato dalle determinazioni accidentali, per cui non si capisce in che modo continui e permanga senza determinazioni ma, soprattutto, in che modo ci sia legame tra ciò che via via appare e ciò che invece persiste. Si va incontro ad un’aporia poiché non si può negare il permanere, unico “strumento” per attestare la variazione processuale.
Emanuele Severino tenta di risolvere questo problema. Prima di parlare del risolvimento, è doveroso premettere, in maniera sintetica e non esaustiva, come Severino intenda il variare. Severino, una volta mostrata l’eternità di ogni essente – attraverso la formula ~(E&~E), ossia “non esiste alcun caso in cui un essente sia e non sia”, che mostra come ogni cosa che è non può essere il suo altro da sé, [né divenire esso, poiché si andrebbero a far coincidere l’essere e il nulla] ‒ si ritrova a dover spiegare il divenire, non più come entrare e uscire degli enti dal nulla, bensì come apparenti e non più apparenti. L’apparire di ogni essente ha una struttura triplice: appare l’apparire del suo apparire, ossia è coscienza di autocoscienza. Cioè, perché appaia qualcosa (primo momento), deve apparire il suo apparire. E così, perché appaia quel qualcosa che è l’apparire dell’apparire (secondo momento) deve apparire il suo apparire (ossia il terzo momento).
Facilmente si potrebbe pensare che tutto ciò dia luogo ad un regressus ad infinitum: ma il terzo momento è il momento concreto degli astratti quali sono i primi due. Tale momento è la coscienza di quell’autocoscienza che è il secondo momento, cosicché non ci sia bisogno di “apparire a” qualcuno o qualcosa: semplicemente l’apparire è sempre apparire di sé stesso. Un essente è “entrante” e “uscente” all’interno di quello che lui chiama “cerchio” o “sfondo” dell’apparire (o Apparire Finito) ‒ ossia quello sfondo stabile e permanente che permette il variare processuale degli enti: «la totalità dell’essere (e quindi anche l’essere manifesto, in quanto esso è essere), in quanto immutabile si raccoglie e si mantiene presso di sé, formando una dimensione diversa da quella dell’essere in quanto diveniente, […] per sempre sottratto alla rapina del nulla.» E segue, poco dopo: «lo ‘stesso’ si differenzia; e cioè in quanto immutabile si costituisce come e in una dimensione diversa da sé in quanto diveniente» (Emanuele Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo).
Ritornando, dunque, a come si attesta la variazione, Kant scrisse che «Solo nel permanente […] sono possibili rapporti temporali […]; cioè il permanente è il sostrato della rappresentazione empirica del tempo stesso, nel quale soltanto è possibile ogni determinazione temporale. La permanenza esprime in generale il tempo come correlato costante di ogni esistenza fenomenica, di ogni cangiamento e di ogni concomitanza» (Kant, Critica della ragion pura). E in effetti, Severino sa di non potere negare questo permanere che è chiamato “sfondo” o “cerchio”: per testimoniare la variazione di ciò che appare processualmente, deve esserci questa permanenza comune in tutte le diverse identità che via via sopraggiungono. Un esempio: abbiamo in T1 una mela sopra un tavolo; in T2, una mela che cade dallo stesso tavolo. Tramite questo sfondo sappiamo che la mela che sta cadendo non è la mela che è sul tavolo. Il problema che si pone è questo: posto che lo sfondo è permanente e posto che, su di esso, di volta in volta, appaiono processualmente gli essenti, questo sfondo, poiché inseparabile da ciò che appare, non “diviene” altro da sé? Ossia: “lo sfondo con la mela sul tavolo” non è “lo-sfondo-con la mela che cade”. L’aporia è presente, e infatti anche Severino ne parla in un paragrafo di Destino della Necessità, con il titolo “Il permanere dell’identità: risolvimento di un’aporia” del capitolo “Passato, Perfectum”. In questo paragrafo si dice che l’aporia è data dal fatto che, dato un che di permanente, M, in M’ e M’’, si voglia separare M e renderlo autonomo, poiché, altrimenti, se ci fosse un legame necessario il permanere non sarebbe nulla senza ciò che appare di volta in volta: in questo modo, però, non si dà reale identità a M’ e M’’ e nemmeno a M, che, senza M’ e M’’ è, appunto, un nulla. L’aporia sembra risolversi nel mostrare che M’ è propriamente tale poiché non separato da M e lo stesso dicasi per M’’. Il legame è cioè ciò che dà identità concreta. Ciò che il discorso che separa vuole ammettere è: (M’≠M’’) ≠ M, ma cade nell’aporia di non sapere cosa sia M senza M’ e M’’. La risoluzione, quindi, mostra che M’≠M’’ in quanto, entrambi, legati al proprio M, così da avere piuttosto MM’≠MM’’. «{Per la fede nel divenire} l’identità che permane è ciò che, nel divenire, non si annienta e non esce dal niente – e pertanto si mantiene nell’apparire. Nella testimonianza del destino della verità dell’essere, l’identità che permane è invece ciò che hanno in comune i diversi insieme eterni che sopraggiungono e si ritraggono dal cerchio dell’apparire.» (Emanuele Severino, Destino della Necessità) Ecco, dunque, perché un essente è definito come determinazione per-sintattica e ipo-sintattica ne La Struttura Originaria. Ciò che permane di identico in M’ e M’’ è lo stesso contenuto, per-sintattico o ipo-sintattico[1], M.
Il problema però è questo: per attestarsi che qualcosa permane e qualcosa varia di quel qualcosa che permane, è necessario ricordarsi in M’’ che nel suo prima ci fosse sempre M e, dunque, in ogni caso, astrarlo per riconoscerlo identico. Nel dire che M è identico nelle sue relazioni, significa astrarlo dalla sua concretezza per la quale M-è-M’ e M-è-M’’, quali possono essere indicati come P e Q: P non è Q e Q non è P. Ma se c’è questa processualità in cui nulla del prima confluisce nel poi, come si potrebbe comprendere se ad ogni istante si è “nuovi”, di volta in volta? L’istante deve, per forza, avere al proprio interno un ricordo del passato, cosicché ci sia parvenza di continuità. Un rimando che faccia sì che ciò che appare dopo un altro apparire sia un “poi”. Insomma, per dire che in P e Q c’è qualcosa di comune, bisogna ricordare, in Q, ciò che di Q era anche in P. Allora, il modo per attestare la variazione processuale è, in ogni caso, il ricordare[2]. Ogni essente appare contenente il ricordo del “prima”: in T2 appare il ricordo di T1 e così si attesta la differenza tra i due momenti e, dunque, la variazione processuale. Ma qui sorge un ulteriore problema, a mio avviso. Severino definisce il ricordo come un “ri-apparire” di ciò che era apparso precedentemente. Ri-apparire implica un apparire che rimanda ad un altro apparire. Dunque, ciò che appare in T2 è ciò che di nuovo sopraggiunge e il ri-apparire di T1. Ma non è T1 in sé ad apparire, poiché altrimenti esso apparirebbe come era apparso, non sottoforma di ricordato, bensì in “carne e ossa”. Allora la differenza che si attesta non è tra il “prima” e il “poi”, ma tra il nuovo essente che appare e il ricordo di ciò che si presuppone essere apparso come “prima”, rendendo l’“ora” un “poi”. Ma se il ricordato non fosse inerente a ciò che era precedentemente apparso come presente in “carne e ossa”? Se avesse il carattere del “rimandare-a”, ma non rimandasse, in realtà, ad alcunché? In maniera ancora più tecnica: se un ricordo fosse falso, come si potrebbe attestare la variazione processuale e quindi la “differenza” del principio di identità? Ciò che vi è di identico, la per-sintassi, è, infatti, immediatamente solo in T2 e nel ricordo che appare in esso.
In breve, l’argomento può essere riassunto così:
1) Ciò che appare come presente è una novità, mista a un qualcosa di già conosciuto. In questo istante si attesta la differenza tra un che di ricordato e un che di nuovo. In T2 appare il ricordo di T1. La differenza non è tra T1 e T2, ma tra T2 e il ricordo di T1, ossia RT1.
2) Poiché non si può attestare differenza tra T1 e RT1, di RT1 non si può asserire verità o falsità: esso può essere vero, ma anche falso.
3) Un sostrato permanente come si dovrebbe attestare attraverso il ritrovare di volta in volta un qualcosa di comune e immutabile. Per farlo occorre ricordare che in T1 c’era lo stesso che ora c’è in T2. Un sostrato come non è conoscibile, poiché potrebbe essere attestato da un falso ricordo.
A questa critica ne è stata mossa una ulteriore: essa argomenta che, se così fosse, non si avrebbe la necessaria “fede” nel credere che le cose divengano, ossia l’errore del nichilismo. Ma l’errore si avrebbe comunque poiché del ricordo non si potrebbero asserire verità o falsità. Si potrebbe porre un’obiezione: il ricordo è “ricordo-di-ciò-che-è-ricordato”, in quanto proprio la sua identità è quella di non poter essere separato da ciò che predica come ricordo.
Metto una breve e impropria sintesi di ciò che è la teoria della predicazione in Severino. Severino ritiene di risolvere il problema della predicazione dicendo implicitamente che ogni giudizio è in realtà giudizio analitico, ossia quel tipo ove il predicato è già incluso nella definizione del soggetto stesso. In che modo? La copula “è” identifica i diversi, ma non li lascia separati. Anzi, essa è proprio quel mezzo che fa sì che ogni giudizio sia, in realtà, analitico. Prendiamo ad esempio “Socrate ricorda Atene”, che si può tradurre anche in “Socrate è ricordante Atene”. L’“essere” severiniano significa “l’essere identico a sé…” di un qualsiasi cosa. È identificante. E così avremmo “Socrate, il quale ricorda Atene ‒ in quanto è ricordante la tale ‒, ricorda Atene”. Il soggetto conviene al predicato, quanto quest’ultimo al primo. “Socrate”, insomma, preso singolarmente, è un flatus vocis, che non “è” niente ‒ se non un’idea di cui si predica il suo “essere idea” ‒, finché di esso non si predica realmente qualcosa. Se, infatti, si operasse la separazione (o astrazione dal concreto) di soggetto e predicato, i due termini continuerebbero ad infinitum a essere separati: invece è opportuno ritenere che il soggetto sia aperto al proprio predicato, così come il predicato sia aperto al soggetto.
La formula concreta sarebbe: (Sg (=Pr)) = (Pr (=Sg)) o (dx=dy)=(dy=dx)[3].
Si dovrà dire, dunque, che ogni “Socrate-che-ricorda” è eterno, molto stringatamente, “Socrate1” non è “Socrate2”. Tuttavia, anche questa critica non riesce a porsi, perché per non separare ciò che il ricordo dal prima di cui è ricordo, è necessario mostrare tale prima che il ricordo predica. Infatti, appare che Socrate ricorda Sparta, e il ricordare di Sparta appare proprio come di Socrate. Ma non appare Sparta, in sé. Insomma, l’unico modo per mostrare, nell’immediato, ciò che il ricordo predica (ciò di cui è rimando) è farlo attraverso il ricordo stesso, cosicché in realtà si arrivi ad un diverso predicato, ossia il solo ricordato, che però potrebbe non corrispondere al “prima”. A questo punto, tale “prima” non si può nemmeno dire essere un essente, poiché il ricordo falso è ricordo di nulla. L’implicazione di ciò sarebbe da vedere in questa maniera estrema: esiste solo l’attimo presente, e tutto ciò che di differente c’è, è contenuto di un falso ricordo.
Note
[1] Cioè i due tipi di permanenza, descritti nella Struttura Originaria: le determinazioni per-sintattiche permangono in ogni ente, mentre quelle ipo-sintattiche solo in alcuni, i quali formano degli insiemi di configurazioni distinte ma non separate.
[2] Per “ricordare” non si intende solo un conscio atto, ma anche l’inconscio comprendere che un essente è un “poi” rispetto ad un “prima”. Ossia è il rimando di ogni ente a ciò a cui è legato.
[3] Questa la formulazione dell’Essere formale generale: «Sia il soggetto sia il predicato della proposizione ‘L’essere è l’essere’ non sono semplici momenti noetici [non sono cioè “noemi” o significati ancora irrelati], dei quali il giudizio, espresso da quella proposizione, sia sintesi; ma sono il giudizio, l’identità stessa nel suo esser posta». «L’identità concreta è dunque identità dell’identità con sé stessa. Negare ciò comporta […] che il principio di identità sia un’affermazione autocontraddittoria. L’‘essere’ (E’), di cui si predica l’‘essere’ (E’’), è appunto l’ ‘essere-che-è-essere’: E’ = E’’ e l’‘essere’ (E’’), che è predicato, è appunto l’‘essere dell’essere’: E’’ = E’. La formula dell’identità concreta è pertanto: (E’ = E’’) = (E’’ = E’).» (Emanuele Severino, La Struttura Originaria)
29 ottobre 2021