Il totalitarismo del tempo presente: funzionari del sistema o protagonisti del proprio destino?

 

I rivolgimenti a cui stiamo assistendo nel panorama mondiale iper-mediatizzato stanno cambiando rapidamente il nostro modo di concepire i vari ambiti dell’esistenza, tra i quali spicca sicuramente la politica come realtà catalizzatrice di tali trasformazioni. Su di essa – secondo l’appello ancora attuale della studiosa ebrea Hannah Arendt – si staglia l’ombra inquietante del totalitarismo, una presenza minacciosa (e latente) nel sistema di governo contemporaneo da non sottovalutare.

 

di Nicola Ronchi

 

Prigione di Autun, edificata sul modello del Panopticon di J. Bentham
Prigione di Autun, edificata sul modello del Panopticon di J. Bentham

 

I recenti accadimenti globali (tra i quali le guerre mondiali “combattute a pezzi”, il riassetto degli equilibri di potenza, le migrazioni e infine la pandemia) sembrano gettarci sempre più vorticosamente verso il tanto evocato passaggio d’epoca, in un mondo sempre più complesso ed economicamente globalizzato. Essi risultano come il prodotto della situazione caotica attuale, dalla quale l’uomo odierno intende riplasmare il mondo secondo forme e modalità di cui forse cominciamo solo ora a scorgere le sembianze, o per così dire la silhouette.

 

L’ordine nuovo che sembra profilarsi è da una parte qualcosa di inusitato, che si presenta come progresso attraverso la negazione radicale delle forme tradizionali dell’esistenza sin qui concepite; mentre dall’altra esso è colto come una minaccia incombente verso ciò che di alto e pregno di valore si è andato affermando nella civiltà in cui viviamo. Tra le istanze che alcuni – a nostro avviso non a torto - temono minacciate, vi è chiaramente l’idea stessa di civiltà occidentale, fondata storicamente sul logos ellenico, sull’idea di diritto e sul riconoscimento della dimensione religiosa (o simbolica) dell’esistenza (qualsiasi forma essa pretenda di assumere). Come molti analisti politici fanno notare da tempo, non è un caso che l’UE (da non confondersi con l’idea di Europa, antecedente al gruppo politico che ne è ora a capo) si sia dotata di una moneta unica, ma al contempo abbia fallito nel tentativo di darsi una costituzione, reggendosi principalmente su trattati stipulati periodicamente tra gli Stati membri.

 

Ci troviamo sicuramente ad un bivio, tanto sconcertante e inquietante da essere costantemente rimosso da qualsiasi discussione pubblica. Qui sembra risiedere il pericolo che diversi filosofi, scienziati e costituzionalisti di chiara fama stanno ravvisando rispetto all’avvento incipiente di paradigmi politico-economici orientati fondamentalmente dalla tecnica e al consolidamento sempre più diffuso di una cultura che si nutre di una strana forma di spirito acritico e impersonale (come ammoniva Heidegger), che diffida della libertà relazionale dell’uomo, mentre nutre grandi aspettative nella risoluzione algoritmica delle più disparate problematiche, ignorando o addirittura misconoscendo quelle istanze che pure la nostra civiltà aveva promesso di realizzare nel corso del suo travagliato cammino. Ci chiediamo, dunque, quale sia il portato teoretico a cui si riferisce chi denuncia il rischio di uno scivolamento sempre più significativo verso forme di politiche autoritarie (quando non apertamente dispotiche) e tendenzialmente antidemocratiche della società nella quale viviamo.

 

Hubert Robert, "Vista del porto di Ripetta, a Roma" (1767)
Hubert Robert, "Vista del porto di Ripetta, a Roma" (1767)

 

Ci viene in aiuto la saggezza politica (nel senso della Phronesis aristotelica) della studiosa ebrea Hannah Arendt, della quale sono note le analisi implacabili e puntuali di quella forma di potere che prende appunto il nome di totalitarismo. La crisi del nostro tempo, legata ai rivolgimenti che hanno preso inizio con l’epoca delle rivoluzioni delle borghesie europee, passando per le guerre del “secolo breve” sino all’apparente caduta dei blocchi globali e alla lenta decadenza (ora in fase di violenta accelerazione) della nostra civiltà – sancita anche dal risveglio inquietante e minaccioso del mondo islamico nell’ultimo ventennio – ci sta costringendo a guardare in faccia il prodotto dell’inviluppamento della ragione astratta illuministica chiusa nella sua autoreferenzialità prospettica, incapace di cogliere la complessità del mondo nascente. Una delle principali categorie capaci di restituirci un’immagine corrispondente dei processi di complessificazione della realtà e dei pericoli legati a tali fenomeni è proprio quella di totalitarismo, che la Arendt utilizza sapientemente per descrivere la situazione che andava delineandosi sempre più chiaramente nel secolo appena trascorso. Non si tratta affatto di qualcosa di sconosciuto, o di un prodotto delle cosiddette teorie del complotto o della cospirazione globale, come dimostra un filone che comprende una vasta letteratura (e una filmografia) che da Huxley e Orwell giunge sino al genere distopico dei nostri giorni. Certamente il regime totalitario, pur essendo diverso da ogni altra forma di governo politico, «non si pone al di fuori della legge, né viene esercitato in maniera arbitraria, bensì si preoccupa di obbedire a quelle leggi della natura e della storia da cui si sono fatte derivare tutte le leggi positive» (Hannah Arendt, Ideologia e terrore). Ciò che, secondo la Arendt, renderebbe il dispositivo totalitario differente dalla tirannide e da qualsiasi altra degenerazione delle tradizionali forme di governo conosciute è la rottura del consensus iuris.

 

La politica totalitaria non instaura un proprio consensus iuris, non ha interesse a sostituire un corpo di leggi con un altro; anzi, può farne a meno, poiché il suo scopo è quello di «liberare l’adempimento della legge dall’azione e dalla volontà dell’uomo» (ibidem). Marx e Darwin assumono la storia e la natura non più come «fonti stabilizzatrici di autorità per le azioni dei mortali», ma come «processi da realizzare» (ibidem) secondo una concezione che si oppone radicalmente alla visione metafisica che sino a quel momento aveva orientato l’uomo nel suo rapporto con il mondo circondante. Sia la fede nazista (si noti la connotazione dogmatica che il termine “fiducia” tende ad assumere entro tale orizzonte) nelle leggi razziali, sia la fede marxista nella lotta di classe hanno come base il rivolgimento traumatico di un ordine precedentemente stabilito; l’unica legge da perseguire, secondo la prospettiva totalitaria, è quella del movimento (o processo) incessante e mai concluso che permea di sé ogni ambito dell’esistente. Al di là della legalità e dell’illegalità come espressioni specifiche rispettivamente dei regimi democratico-liberali e della tirannide, il terrore si configura quindi come l’essenza del regime totalitario, che prescinde da qualsiasi legalità e da ogni opposizione: è la legge stessa del movimento, infatti, che individua i nemici dell’umanità (intesi come nemici “oggettivi”) contro cui scatenare il terrore, destituendo di significato categorie come “colpevole” o “innocente”. Il terrore diviene funzionale all’esecuzione di una «legge del movimento, il cui fine ultimo non è il benessere degli uomini o l’interesse di un singolo, bensì la creazione dell’umanità, eliminando gli individui per la specie, sacrificando le parti per il tutto» (ibidem). La creazione di una nuova umanità è il fine ultimo perseguito scientificamente (“ideologicamente”, con lessico arendtiano) dal totalitarismo, che non mira ad abolire determinate libertà o a sradicare l’amore per la libertà, ma eliminando la possibilità di movimento – e di conseguenza la capacità umana di agire – finisce per disintegrare il presupposto stesso di ogni libertà. Il suddito perfetto del regime totalitario non è il nazista zelante o il comunista convinto, bensì l’individuo per il quale non vi è più distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso.

 

Auguste  Rodin, "Il pensatore" (1880-1902)
Auguste Rodin, "Il pensatore" (1880-1902)

 

Infine, è la stessa pensatrice ebrea a rinviare ad un punto di svolta inaspettato: ogni regime cova in se stesso i germi del disfacimento (prima o poi capitolerà necessariamente), mentre il seme di ogni autentica politica risiede nella capacità dell’uomo di ri-cominciare. «Initium ut esset, creatus est homo» :“affinché ci fosse un inizio, è stato creato l’uomo”, afferma Agostino; secondo la Arendt, solo tale capacità umana, radicata nell’esigenza insopprimibile di stabilire relazioni autentiche e virtuose (la socievolezza aristotelica), può ricondurci all’affermazione di un positivum che non sia riduttivo della natura umana, ma che la compia in quel nuovo inizio che continuamente rompe il deserto alienante e spersonalizzante imposto dal regime totalitario.

 

4 ottobre 2021

 








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